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Colapesce e Dimartino: «Il cantautorato è più moderno della trap»

Nell'album ‘I mortali’ cantano di adolescenza, Sicilia, morte. E del loro mestiere: «I cantanti trap vivono due settimane come le farfalle, quelli itpop sono ossessionati dai dettagli. Noi vogliamo fare musica che resti»

Foto: Jacopo Farina

Quando Colapesce e Dimartino hanno annunciato un disco insieme, l’ho pensato: finalmente si sono decisi. L’album I mortali, che uscirà venerdì 5 giugno sotto il nome Colapescedimartino, neanche si trattasse di una band e non di una collaborazione – è infatti la celebrazione di un’affinità storica: entrambi siciliani, entrambi cantautori della nidiata dei primi anni Zero, entrambi autori raffinati e attenti ai dettagli, e amici da una vita. Negli anni hanno vissuto quasi carriere parallele, da tardo-adolescenti a uomini, fino a diventare nomi di punta del nostro pop d’autore, felicemente smarcati da itpop e simili.

Addirittura, il primo ricordo che ho di loro insieme è un video in cui suonano nella Casbah di Mazara del Vallo, nel 2011. Vicini dagli inizi, insomma. «E probabilmente quella sera eravamo pure ubriachi», scherza Colapesce, che all’epoca doveva ancora pubblicare il suo primo album solista. «Io invece ne avevo giusto uno», aggiunge Dimartino. «E quel video, comunque, è un po’ il nostro battesimo come cantautori: venivamo entrambi dalle band, e lì abbiamo indossato per la prima volta i panni che abbiamo ancora adesso».

E da allora ci avete messo così tanto per decidervi a fare un disco insieme?
Colapesce: Sì, l’idea era nell’aria da anni, perché avevamo già collaborato come autori per altri. Ma la chiave di lettura giusta è arrivata così, senza fretta. Quando ce la siamo sentita, abbiamo iniziato a scriverlo, anche riprendendo idee vecchie. Quindi, I mortali: che è un concept non sulla morte (o comunque non solo), ma sulla vita, sulla mortalità.
Dimartino: Nella musica si fa sempre riferimento agli immortali e mai ai mortali. Che magari è pure un concetto bistrattato, ma descrive bene queste canzoni. Molte, per esempio, trattano di adolescenza, che è un po’ l’apice della mortalità stessa. In generale, ci piaceva proprio affrontare la mortalità, che è un argomento che la musica pop fa finta di non vedere.
Colapesce: Pensa anche ai filtri di Instagram, che quasi vogliono renderti immortale, sempre giovane. Secondo me il punto è la società occidentale: qualche anno fa sono stato in Africa, e i bambini giocavano nei cimiteri come se morte e vita fossero la stessa cosa. Mi hanno sorpreso. Invece da noi l’idea di morte è ghettizzata. Ma prendere coscienza di un possibile trapasso, che toccherà a tutti (ride, nda), è un passo importante.

Rispetto a quando scrivete insieme per altri, però, qui cosa è cambiato?
Colapesce: L’autore fa un lavoro di sartoria: se scrivo per me, uso un certo vocabolario; se scrivo (per esempio) per Emma, un altro. Ed è interessante, eh. Perché magari arrivo a un pubblico a cui, col mio solito linguaggio, non arriverei mai. Del resto non è che scrivi per fare una hit di proposito, né dei soldi.
Dimartino: Anche perché di soldi non ne abbiamo fatti (ride nda). Quando scrivi per altri hai dei paletti, mentre un disco a due voci ti lascia più libertà. Ne I mortali c’è un pezzo come Majorana che è difficilmente piazzabile, diciamo. Ti pare che Mengoni possa cantare un pezzo del genere? Ma perché parla di noi, della nostra adolescenza: sono due ragazzi che si fanno una canna davanti alla scuola del paese, vedono la scritta “Ettore Majorana” e riflettono sulla scomparsa come concetto immanente. Tanti amici della nostra adolescenza sono scomparsi dal paese, chi in cerca di lavoro, chi per incidenti d’auto, chi con l’eroina. C’è tantissimo di noi in queste storie, ed è difficile scrivere queste cose per altri.

Quindi su che altri temi vi siete trovati per scrivere I mortali?
Colapesce: Adolescenza e amore, ma in maniera non autobiografica. In generale, abbiamo favorito ha favorito l’aspetto riflessivo.
Dimartino: Anche la morte, ovviamente. E infine ci siamo concentrati su visioni comuni del nostro mestiere, parlando proprio del lavoro come autori. Nel primo pezzo, Il prossimo semestre, raccontiamo tutti gli stereotipi che ci girano intorno: “Devi scrivere una hit”, “strofa-bridge-ritornello”, “devi trasferirti a Milano”. È quasi un Boris della musica. Ma ci siamo ispirati a Il merlo di Piero Ciampi, in cui lui si chiedeva che cosa dovesse fare un autore per compiacere il suo editore.

Il prossimo semestre riflette, oltre che sullo stereotipo dell’autore, anche su quello del cantautore. O no? E soprattutto: nel 2020 il cantautore ha un ruolo?
Dimartino: Sì, secondo stereotipo è come se il cantautore si prendesse un ruolo che gli è stato dato dalla società di trenta anni fa, quando ne aveva effettivamente uno: se diceva qualcosa, influenzava le scelte politiche dei ragazzi. Oggi invece è una figura marginale, sempre secondo stereotipo.
Colapesce: Ma in generale non vedo ruoli nella musica, nel senso che gli artisti non hanno funzione pedagogica. Infatti non amo i cantautori troppo schierati, che danno giudizi. E la parole stessa, cantautore, mi sembra vecchia: io mi sento più uno scrittore di canzoni, un songwriter all’americana, nelle cui canzoni trovi sempre almeno una frase di cui innamorarti, che ti rappresenta. Mi sembra una figura interessante, perché legge il proprio tempo senza entrare in giudizi di merito. Ecco, il cantautorato degli scrittori di canzoni secondo me non è affatto roba vecchia, anzi moderna, molto più della trap o di altre cose di moda. Intendiamoci: io adoro la trap, ha un fascino assurdo su di me, perché ha un aspetto di mortalità e contemporaneità, con suoni e artisti che durano due settimane. Come farfalle (ride, nda). Ma è musica figlia del suo tempo. Noi abbiamo un’ambizione diversa: restare. Come si fa? Con un’analisi a 360 gradi della realtà, tridimensionale.
Dimartino: Siamo spinti a scrivere da fattori sociali, è ovvio, come siamo spinti da ciò che ci accade intorno (e non solo dentro); ma mi viene difficile affrontare questi accadimenti in maniera diretta, preferisco trovare un’angolatura precisa, un filtro. Il cantautore, oggi, deve dare la propria visione dei fatti appunto filtrandoli con esperienze personali, letture, sogni, incubi. Diciamo che il sociale entra nelle nostre canzoni, sì, ma in maniera poetica.
Colapesce: Vero, come concetto è più vicino alla poesia che ad altro. Non vai a scardinare: lasci all’ascoltatore lo spazio di rielaborare quello che ha letto senza entrare in descrizioni minuziose come, che cazzo ne so, fa invece l’itpop. E non sto dicendo che l’uno sia meglio dell’altro, ma che sono proprio approcci diversi.

E due cantautori come voi, a proposito di editori, piacciono alle case discografiche?
Colapesce: Non lo so, sicuramente sono più interessate a noi come ad autori per altri, perché abbiamo la dimestichezza di scrivere canzoni. Però I mortali non compete con le pop star: fa un’altra gara, e in quel campo credo che interessi. E spero piaccia agli editori, sì.
Dimartino: E loro sperano che piaccia al pubblico (ride nda).

In generale, ho notato anche che avete un po’ alleggerito il lessico rispetto ai lavori solisti.
Colapesce: Sì, l’idea era questa: non metterci troppi riferimenti, alleggerire, ma fare comunque un disco pop d’autore.
Dimartino: Non ricordo chi abbia detto la frase “volevamo appesantire la musica leggera”, ma credo sia perfetta. Non volevamo certo un disco stagionale, ma un album che rimanesse negli anni. Però sì, a livello lessicale abbiamo sperimentato affidandoci l’uno all’altro. In Majorana, per dire, Lorenzo mi ha spinto a mettere la frase “non è che hai mangiato pollo?”, che è geniale ma sulla quale io all’inizio ero perplesso. Diciamo che ci siamo fidati l’uno dell’altro. E sicuramente scrivere in due aiuta a sdoganare certi pensieri che uno ha dentro, perché la responsabilità, una volta condivisa, pesa la metà.

Anche il fatto di firmarvi Colapescedimartino, e quindi come band e non come coppia, serve a lasciarsi dietro parte della propria identità solista?
Colapesce: Sì, all’inizio pensavamo addirittura di creare un nome ex novo. Ma poi ci abbiamo riflettuto su e abbiamo capito che la nostra identità è questa, dietro questi nomi, e non ha senso cancellarla. Comunque, tornando un attimo al discorso di prima, I mortali non ha il linguaggio del pop classico, chiaro. E il maestro in questo senso è Battiato, ma anche i Talking Heads per l’estero. Se prendiamo un pezzo Majorana, vediamo che è zeppo di riferimenti “geografici”. In effetti, è un album molto “geografico”.

La Sicilia.
Colapesce: Esatto, ce n’è tanta, ma non è una forzatura e non lo era neanche nei nostri dischi solisti, dove è sempre stata presente. Noi amiamo quando si colgono sfumature nascoste della nostra terra, non le solite. E poi la Sicilia è piena di spunti artistici: non può essere un caso che tantissimi scrittori o musicisti ne abbiano scritto.
Dimartino: Nell’album la Sicilia è praticamente la scenografia, l’ambientazione. Ci sono le cicale della Riserva naturale dello zingaro, i ragazzi in piazza a Racalmuto e Agrigento, gli spagnoli in Ortigia, la Chiesa dello Spasimo su cui si appoggiano i supereroi di Noia mortale. Per me, quando scrivo una storia l’ambientazione è essenziale: mi dà riferimenti, me la fa immaginare bene. Me la fa visualizzare, diciamo.
Colapesce: Su tutte, poi, Luna araba è il brano più siciliano del disco. Io lo paragono a un dipinto di Bosch, con tante visioni che sono cartoline della nostra isola: gli inglesi in vacanza, Salvo lo studente caprone, gli spagnoli in Ortigia, i bambini che fanno gare rutti sugli scogli.
Dimartino: Del resto chi non ha mai fatto una gara di rutti sugli scogli? (ride nda)

E poi nel pezzo c’è Carmen Consoli.
Colapesce: Per quanto ci conoscessimo da anni, non c’era aria di collaborazione. Invece quando abbiamo scritto Luna araba la sua voce, bellissima, ci è sembrata subito perfetta. Che poi il suo intervento, che arriva poco prima del ritornello, non è proprio da feat: sembra quasi un terzo elemento del gruppo.

Luna araba tra l’altro sta andando bene in radio. Sarà mica un sintomo che nella percezione di un certo tipo di pop qualcosa sta cambiando?
Colapesce: Non ce lo aspettavamo, ed è un risultato strano: in radio di solito non va un pezzo che recita, per esempio, versi come “I normanni storditi da pozioni africane”, quindi con immagini forti. Però nel pop non sta cambiando un cazzo (ride, nda). Credo sia un caso isolato, semmai.
Dimartino: Non lo so, però. Forse i nuovi testi, per esempio quelli della trap, stanno sdoganando un nuovo lessico fra il grande pubblico, o comunque lo stanno invogliando a rimanere di volta in volta sorpreso dalle liriche di una canzone. Se penso alla canzone dell’estate di venti anni fa, era impensabile che avesse testi del genere. I tempi cambiano.

Diciamo che comunque è una canzone estiva atipica, come l’estate che ci aspetta. Coi concerti come pensate di fare?
Colapesce: Stiamo valutando se fare delle date estive, ma i concerti sono imprescindibili per completare l’esperienza di questo disco insieme. Ci abbiamo lavorato tantissimo, e abbiamo preparato un tour con scenografia, band. E non ci rinunceremo, appena sarà possibile suoneremo, anche se nel frattempo dovesse proseguire la nostra attività solista. Sono live che recupereremo.

Tra l’altro so che il disco era pronto da tempo: l’avevate già rimandato per il lockdown.
Colapesce: Sì, abbiamo dovuto rimodulare tutto il programma, perché il lockdown ci ha sorpresi. In realtà potevamo rimandarlo ancora, ma non ce la siamo sentita. L’idea che i dischi non escano più, magari per un calcolo economico o di promozione, non ci sembra neanche corretta eticamente. In questo senso, pubblichiamo I mortali esce anche per dare un segnale: la musica non va in lockdown.
Dimartino: E la musica deve continuare a dare segnali. Il settore non è stato minimamente considerato dalle istituzioni in questo periodo di crisi, non pubblicare quest’album sarebbe stato come arrendersi alle cose. Invece noi reagiamo e lo facciamo anche per tutti i tecnici e gli operatori della musica che sono stati dimenticati dai decreti negli ultimi mesi.

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