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Clara Moroni: perché ha lasciato Vasco e la voglia di tornare frontwoman

Il racconto della separazione dalla band del rocker dopo 22 anni, gli esordi «alla Iggy Pop», ma anche la rivalità Vasco-Ligabue, il dietro le quinte di Modena Park, l’idea pazzesca del disco con De Gregori

Foto per gentile concessione dell'artista

La storia più duratura della sua vita? Con Vasco Rossi per ben 22 anni. Non è come pensate – anche se una storia d’amore all’interno della band l’ha avuta – è una questione artistica e umana. Attenzione, però, perché Clara Moroni non è stata soltanto la vocalist del Blasco. Nella sua carriera c’è un prima, un durante e un dopo l’aver fatto parte della “combriccola” e ha sempre a che fare con la musica. Ci ha raccontato queste tre fasi e per la prima volta ha spiegato nel dettaglio com’è finita quella lunga avventura e i motivi che l’hanno spinta a lasciare: «Ho capito di avergli dato tutta me stessa».

C’è un istante in cui ha deciso il distacco: durante Modena Park, il concerto dei record. Un po’ perché «c’era molto nervosismo, tanto che ci siamo ammalati un po’ tutti. È stata una sorta di emanazione di quanto lui fosse combattuto». Ma anche perché «mi sono sentita come sull’Himalaya, da lì si poteva solo scendere».

La raggiungo nella sua nuova casa di Monza, dove si è trasferita da Milano (e per alcuni anni a Los Angeles) e appena apre la porta vengo preso d’assalto «dai miei figli Frida, Potter e Bonnie», tre cani di taglie diverse ma accomunati dal medesimo entusiasmo. Sono loro a scortarmi verso il soggiorno e, dopo esserci seduti sul divano, a fare una guardia serrata all’intruso, che sarei io: uno mi si sdraia a fianco, uno sui piedi e il più piccolo di fronte a controllare ogni minimo gesto. È allora che può cominciare l’intervista.

La lunga chiacchierata parte dai suoi esordi con i Kubrick e passa per i Clara & Black Cars, quando era una performer «selvaggia alla Iggy Pop», al rapporto «tanto bello quanto contraddittorio» con il produttore Guido Elmi e si illumina nel descrivere la forza del rocker di Zocca sintetizzata in una immagine: «Quando ho sentito la sua versione di Generale ho pensato che De Gregori aveva descritto il generale, Vasco era il generale». Unica presenza femminile in mezzo a tanti uomini, in un team dove non è mancato «un po’ di maschilismo», che però non l’ha intimorita, tanto che detesta la frase «non puoi rivolgerti così a una donna». Ora si occupa della sua etichettam esclude che parteciperà mai a un talent e gli è tornata anche la voglia di suonare in un gruppo, ma senza perdere il suo proverbiale eclettismo: «Per me la musica è un mondo molto più ampio delle sole canzoni e non voglio farmene scappare neanche una parte».

Chi è oggi Clara Moroni?
Una donna in attesa di una vita normale dopo una operazione all’anca. Sto cercando di tornare in possesso del mio corpo. Per fortuna non dovrebbe volerci ancora molto. Intanto ho cambiato casa da poco e sono passata dal trasferirmi sempre qui a Monza ma in mezzo al verde. Volevo prendere più cani. Sono una attivista animalista. Faccio parte di molte organizzazioni.

Come mai questo cambiamento?
Sono nata e ho vissuto sempre a Milano. Quando sono arrivata a Monza mi sembrava di aver attraversato lo stretto dei Dardanelli, poi invece mi sono trovata bene. È una città più vivibile e come vedi (indica fuori dalla finestra, nda) sembra di essere in un bosco.

A livello artistico, invece, che momento stai attraversando?
Con la pandemia si era fermato tutto e ne ho approfittato per provare con delle dirette social e sono nate dieci puntate di un programma, Clara Rock Garage, dove ho invitato vari amici artisti e che ha avuto un discreto successo. Tutto da sola ho imparato a usare nuovi programmi e mi sono divertita, a me la tecnologia è sempre piaciuta (si trattava di dirette su Internet, ndr). E poi mi sono rituffata nel lavoro con la mia etichetta, che ho fondato nel ‘95. Ha sempre funzionato da sola, ma da quando sono tornata a lavorarci in prima persona è cresciuta. Non sono una che riesce a fare per molto tempo la stessa cosa, infatti la storia più lunga della mia vita è stata quella con Vasco Rossi che è durata 22 anni.

Però hai iniziato la tua carriera con diversi gruppi.
La mia prima punk band si chiamava Kubrick, per amore del regista, e lavoravo sulle cose di altri. Un giorno mi chiamarono a Bologna per Carta del cielo di Alberto Fortis, un album prodotto da Guido Elmi, che era già produttore di Vasco. Mi disse di essere rimasto colpito da me perché portavo delle scarpe gialle, un aneddoto un po’ feticista. Ma il percorso è stato un po’ più tortuoso, perché sono stata presa dalla Emi con dei miei pezzi e quando mi hanno chiesto che produttore volessi ero un po’ indecisa. Conoscevo Mauro Paoluzzi, il cui fonico ai tempi lavorava con i Depeche Mode ed ero tentata di indicare lui. Mi avrebbe portato verso sonorità più elettroniche, che apprezzavo. Ma amavo anche il rock e decisi di fare il nome di Guido Elmi.

Che rapporto hai avuto con Guido Elmi?
Tanto bello quanto contraddittorio. Ero molto giovane e molto poco sicura di me. Lui, invece, come faceva anche con Vasco, tendeva a imporre quello in cui credeva. Ha deciso un po’ tutto lui, come il nome del secondo gruppo, Clara & Black Cars. Non mi faceva impazzire, ma quando ha deciso ero in vacanza in Corsica, non c’erano i cellulari e quando sono tornata aveva già scelto.

I due album sono Chi ha paura di chi del ’90 e Spiriti del ’92. Eri piuttosto rockettara.
Sì, anche se i miei pezzi non sono stati inseriti, a parte un paio. Il primo video fu prodotto da Marco Balich, che ora si occupa delle cerimonie Olimpiche. Il regista dei video era Federico Brugia, ex marito di Malika Ayane. Eravamo così esterofili che quello che sarebbe diventato il mio manager, quando ci vide in tv, pensò a un gruppo inglese. Purtroppo il primo disco era previsto il 30 settembre, ma tre giorni prima venne a mancare mio padre e quella che doveva essere la cosa più eccitante della mia vita l’ho passata a suon di Xanax e Tavor. Guido Elmi se ne accorse subito…

Cosa ti disse?
Prima ero una performer un po’ selvaggia, quasi alla Iggy Pop, ma poi qualcosa si è spento. Guido disse che sembrava mi fosse calata addosso una nube nera. Come reazione ho preso un team di lavoro tutto mio e mi sono autoprodotta un terzo album. Ma era difficile che una major si mettesse contro certi produttori, per cui ho rescisso il contratto e non è uscito niente. Così ho proseguito a lavorare per altri e ho galleggiato per un po’ di tempo. Io ho sempre preferito vivere rispetto a lavorare. Non ho mai avuto nessuna ossessione di diventare famosa. Solo adesso mi sono accorta che, anche di quel periodo, ho diversi fan che mi scrivono. Allora non mi ero accorta di nulla.

Intanto seguivi l’evoluzione di Vasco?
No, perché non ascoltavo la musica italiana. Da piccola sentivo Battisti, Baglioni, la Vanoni, Zero, Bennato, ma poi è arrivato il punk e ha spazzato via tutto. Quindi rivolgevo le mie attenzioni all’estero. Di Vasco sentivo solo i pochi pezzi che passavano in radio, Vado al massimo o Voglio andare al mare, e mi sembrava uno che faceva reggae.

Quando è arrivato l’incontro con il suo mondo?
Due anni dopo l’interruzione della nostra collaborazione, quando Guido Elmi mi chiama dicendo: «Ma tu ce l’hai con me?». Gli risposi di no, assolutamente, e mi propose di lavorare al disco Gli spari sopra. Era il periodo che andavano di moda le ballad alla Aerosmith e avevano bisogno di quel sound. Così ho realizzato gli arrangiamenti vocali ed evidentemente sono rimasti soddisfatti.

Com’è stato il primo impatto con Vasco?
Lui, specialmente con le donne, è abbastanza timido. Certo allora io avevo una fisicità che non lasciava indifferenti. Ricordo che, mentre ero in studio, mise il piede sulla porta e, per un po’ di volte, fece capolino con la testa per poi sparire. Quando c’era qualcuno nuovo prima lo osserva. Non era facile entrare nella sua “nuvola”. Era circospetto. Ho letto nella biografia di Keith Richards: «Arrivava Mick Jagger e ti guardava come a dire: “Tu cosa vuoi da me?”. E io volevo rispondergli: “Fratello, io da te non voglio proprio un cazzo”». Chissà cosa c’è nella testa di chi ha tanta fama.

Ma il tuo ingresso ufficiale nella band non avviene subito, giusto?
Un anno e mezzo dopo, intanto avevo fatto uscire un paio di singoli miei, mi hanno richiamato per Nessun pericolo… per te. A quell’epoca c’era stata maretta nel gruppo, era andato via Massimo Riva, che poi era tornato, se ne era andato Maurizio Solieri e subentrò Steve Burns, ma c’è tutto un capitolo di storia sul rapporti tra Vasco e la Steve Rogers Band. Comunque dal vivo, per pezzi come Stupendo, non riuscivano a ottenere il suono che cercavano e hanno chiamato anche me. Ci tengo a ricordare Massimo Riva, la sua perdita è stata enorme per il mondo di Vasco. Oltre ad essere un chitarrista ritmico coi fiocchi, con i suoi bellissimi suoni creava il collante tra la band. Era anche un complice, un gran creatore di canzoni e testi che sono tra i più belli del repertorio di Vasco.

Hai accettato senza esitazioni o qualche dubbio lo avevi?
Era gennaio e, anche senza sapere nulla, me lo sentivo. Avevo sempre pensato a una carriera solista o come frontwoman, e quindi non è stata una scelta facile. Stai dietro a un altro, ma hai molta luce. Poi ho pensato, ma quando mi ricapita? Per cui chi se ne frega di cosa sarà il domani e ho accettato. Su giornali scrissero: «Sarà la nuova Patti Scialfa?». Invece no!

Si sente la pressione di far parte della band di una rockstar?
Le pressioni maggiori le ha Vasco ovviamente. Noi vivevamo la parte musicale e semmai c’erano rapporti complicati a livello umano, non direttamente con lui, ma con chi gli sta intorno, gente che a volte non mi spiego. Ma basta abituarsi e si va oltre.

Qual è stato il tuo primo grande live sul palco con Vasco e la band?
A San Siro (nel 1996, ndr). Ricordo che c’era un palco molto alto e non mi avevano messo la scaletta, per cui ho dovuto arrampicarmi. Secondo me l’avevano fatto apposta per mettermi alla prova. Con tanti uomini c’era un po’ di maschilismo. Ridendo, ma li ho mandati affanculo!

Non mi sembra che ti sia fatta intimorire…

Mai. Specialmente i primi anni si mangiava tutti assieme e c’erano lunghe discussioni su come realizzare i vari aspetti e non mi risparmiavo a dire la mia. A volte Vasco diceva: «Eeeehhh bella questa…» e se la segnava. Sono abituata a lavorare con gli uomini e sono un piccolo Giamburrasca, in inglese dicono un Tomboy. Infatti detesto quando dicono «non puoi rivolgerti così a una donna».

Sei femminista?
Ma certo, non amo la mercificazione del corpo femminile. Questo, però, non vuol dire che le donne devono diventare una razza protetta. Vuol dire essere in grado di fare le cose che vuoi, quando vuoi e con chi vuoi, senza limitazioni. Fare la bella statuina fragile non è sintomo di vera emancipazione.

Che rapporto hai instaurato con Vasco?
Lui ha vissuto una prima parte della sua carriera, dove non c’ero, dove abitava in un capannone con tutti i suoi amici di Zocca e della zona e con gente che andava a veniva. In quel periodo credo fosse più aperto verso gli altri. Dopo le diatribe con la Steve Rogers Band ha alzato qualche barriera in più intorno a lui. Per cui non siamo mai stati in così tanto in confidenza, ma ho sempre cercato di fargli domande, di capire tante cose su questo lavoro. In certe serate si è aperto con me, raccontandomi cose di sé che mi potevano aiutare a superare dei momenti simili.

E come ti spieghi la sua eccezionalità nel mondo della musica?
Bisogna ricordare che faceva una vita molto reclusa. Ora un po’ meno, ma prima non poteva andare da nessuna parte. Una volta a Napoli in un ristorante c’era talmente tanta gente accalcata sulla vetrina che stavano per sfondarla. Quindi credo che il suo lato estroverso venga fuori appieno sul palco. È lì che esplode. Credo sarebbe stato anche un grande attore, perché quando canta ha la capacità di entrare in una sorta di trance e di diventare quello che sta cantando. Lo guardi negli occhi e sembra proprio che stia rivivendo quelle storie. L’ho visto fare a pochissimi. Quando ho sentito la prima volta la sua versione di Generale ho pensato che De Gregori aveva descritto il generale, Vasco invece, era il generale. Gliel’ho detto: «Dovresti fare un disco con De Gregori…».

E lui cosa ti ha risposto?
Eeehhh vediamo, vediamo… ed è sparito…

Nel 2011 hai vissuto anche uno dei momenti più difficili per lui, quando accusò dei problemi di salute, che poi ha spiegato pubblicamente.
Sì, ricordo quando a San Siro siamo saliti con un’ora di ritardo. Da quel momento in poi è cambiato, ha capito di doversi curare, si è messo a correre. Il suo segno zodiacale è l’Acquario e ha una forza di volontà pazzesca. Magari soffre come un cane, quando va a correre vorrebbe spararsi, ma lo fa per avere le energie di salire sul palco. Una volta non era così.

È vera la competizione che sentirebbe con gli altri cantanti? In passato si è parlato molto della rivalità con Ligabue, per un periodo anche con Grignani.
Fa parte della natura antagonistica delle grandi personalità. Vasco ha un carattere molto forte, è il numero uno e vuole continuare a esserlo. Come Valentino Rossi, suo grande amico, non vuole farsi superare. Ma credo che lui sappia riconoscere l’opportunismo e l’ipocrisia. Con Ligabue ci sono stati anni dove si sentiva questa rivalità, che poi lui stesso ha chiuso con la frase che gli ho sentito esclamare: «Un bicchiere di talento in un mare di presunzione». Con Grignani non credo, lui veniva sempre ai concerti, dopo i primi due dischi non è riuscito a replicare il successo. Però a Vasco il primo era piaciuto molto, si rispecchiava in Destinazione paradiso.

Come si è concluso dopo 22 anni il rapporto più lungo della tua vita?
Dopo il Modena Park…

Un concerto da record, non c’è male.
Anche se per me non è stato il massimo. San Siro è unico perché hai la gente addosso, mentre l’Olimpico è molto più dispersivo. Per me, il concerto ottimale per la è il club da 500 persone.

Torniamo al Modena Park, come mai non è stato il massimo?
Doveva essere più piccolo, poi è diventato gigantesco. Si parlava di 90 mila persone e invece è arrivato a 250 mila. Hanno ricreato una città, dopo l’evento avrebbero potuto costruire dei complessi residenziali. C’era anche la paura degli attentati, con tre cerchi di sicurezza. Sembrava bellissimo, solo che durante le prove Vasco sentiva la pressione di questa cosa così grande, in più era il quarantennale della sua carriera, sarebbero riapparsi sul palco artisti che avevano fatto parte della sua storia e sono riemersi i ricordi delle vecchie diatribe tra loro. C’era molto nervosismo. Ci siamo ammalati di qualcosa un po’ tutti. È stata una sorta di emanazione di quanto lui fosse combattuto. Senza contare che abbiamo avuto un sacco di problemi tecnici a causa del maltempo.

Quindi non te lo sei goduto come avresti voluto?
Il vero concerto è stato due giorni prima per il fan club, davanti a 20 mila persone. Lì abbiamo sfogato tutto. Tant’è che dopo eravamo esausti. E devo dire che durante il concerto la presenza sul palco di Paolo Bonolis ha veramente rovinato il clima.

Era il presentatore dell’evento sulla Rai. Ci furono proteste social anche dei fan.
C’è una sacralità del palco e lui ha dimostrato di non concepirla neanche lontanamente. Mentre ci esibivamo c’era lui che si aggirava con la camicetta a fiorellini rosa e le luci della troupe spianate. Sembrava una immagine felliniana tanto era paradossale e fuori luogo. Non ha mai fatto parte del mondo di Vasco, non sapeva neanche chi aveva intorno, è stato utile per rientrare nelle spese con i soldi della Rai, ma io mi sono sentiva “violentata” nella mia intimità, nel mio mondo.

Ci siamo persi per strada, ma la domanda che è rimasta senza risposta è: sei tu che hai lasciato Vasco o il contrario?
Faccio una premessa. In tutto quel trambusto che ho spiegato c’erano anche gli artificieri, ma pensavamo fossero per l’antiterrorismo. Non sapevamo che alla fine del concerto fossero previsti una quantità enorme di fuochi d’artificio. Su Albachiara, l’ultimo pezzo, ho sentito odore di zolfo e subito dopo sono esplosi dei colpi e mi sono preoccupata. Poi ho guardato nel cielo queste luci meravigliose e in quell’istante ho percepito una forte consapevolezza: più di così non si può…

Quindi è stata una decisione tua?
Nei giorni successivi ci ho pensato e ho capito di avergli dato tutta me stessa. Sui fuochi d’artificio mi sono sentita come sulla vetta dell’Himalaya, si poteva solo scendere. Era il 2017, mi ero appena spaccata il ginocchio e stavo su una carrozzella da mesi. Quale messaggio voleva mandarmi la vita? Che se non cominciavo a correre sulle mie gambe, allora tanto valeva stare su una carrozzella. Cioè, ora pensa solo a te stessa, alla tua vita. Un po’ l’impegno con Vasco, i cinque anni di fidanzamento con Stef Burns divisa tra periodo in Italia, in Giappone per la mia etichetta, e in America, oltre a tantissimi concerti in tutto il mondo. Per cui, di comune accordo con Vasco e il suo manager Floriano Fini, gli ho detto di non poter esserci per il tour previsto nel 2018.

E loro come l’hanno presa?
Li ho anticipati con questa idea, che poi si è realizzata. Onde evitare qualsiasi speculazione da parte dei fan o dei giornalisti, gli ho proposto di aprire i suoi concerti con la mia musica. Lui ha detto «bellissima idea» e nel 2018 ho partecipato ai live in questa veste, invece di sparire di botto.

È una decisione piuttosto coraggiosa quella di lasciare la band di Vasco che, oltre al piacere di lavorare con lui, è una vera e propria industria e garantisce una visibilità enorme.
È vero, ma bisogna fare spazio per lasciare entrare cose nuove nella propria vita. Infatti, mi sono sposata con quello che è attualmente mio marito e con la pandemia l’etichetta è andata benissimo grazie agli streaming. In America mi è esploso un singolo che abbiamo prodotto e adesso mi è tornata anche la voglia di fare qualcosa di mio artisticamente. Poco tempo fa mi è capitata fra le mani una demo, l’ho messa su YouTube senza cambiare niente e ha avuto più di 100 mila visualizzazioni. È la cover di Morire qui di Renato Zero. Mi ha dato fiducia.

È tornata la Clara Moroni frontwoman?
La mia dimensione è da solista, ma adoro stare in un gruppo. E mi piace collaborare con gli altri.

Guardando indietro, c’è qualche no di cui ti sei pentita?
Una volta mi hanno dato della deficiente per un no. Mi aveva chiamato Lucio Fabbri per le prime edizioni di X Factor. Mi voleva nella resident band che avrebbe suonato con i concorrenti. Ma in Italia c’è una brutta tradizione sui coristi. È un termine che ha sempre una accezione sminuente. Invece negli Stati Uniti non è così. Sheryl Crow ha fatto il tour con Michael Jackson, ma questo non l’ha svalutata. In quel momento non volevo calcare la mano sulla corista, ma non mi sono pentita.

Oggi accetteresti una offerta da parte di un talent?
Il format non mi piaceva, non mi piace e non mi piacerà mai. Sono molto empatica e non riuscirei a dire tu sì e tu no. Mi sentirei una specie di nazista della musica. Preferisco seguire i miei principi.

Cosa ti aspetti dal futuro?
Ho la fortuna e la sfortuna di essere eclettica. Chi riesce meglio in musica è chi sa fare una cosa sola e alla fine sfonda. Io so fare tutto e forse un po’ mi ha penalizzato il cambiare spesso. Ma ho sempre voluto fare quello che mi piace e non dev’essere per forza mio. Amo ugualmente produrre gli altri, scrivere, arrangiare, cantare cose mie o no, realizzare i videoclip. Per me la musica è un mondo molto più ampio delle sole canzoni e non voglio farmene scappare neanche una parte.

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