Ciao ciao inni pop: ecco come sta cambiando La Rappresentante di Lista | Rolling Stone Italia
Dialoghi con la solitudine

Ciao ciao inni pop: ecco come sta cambiando La Rappresentante di Lista

Siamo entrati alla Casa degli Artisti di Milano dove Veronica e Dario hanno registrato parte del loro prossimo non-disco fra strumenti, appunti che diventano musica, un viavai di amici e collaboratori. Basta pezzi-manifesto, preparatevi a canzoni che esigono silenzio per essere ascoltate

Foto: Kimberley Ross per Rolling Stone Italia

Dodici anni di musica insieme di cui otto passati a pubblicare dischi, due Sanremo e un successo che da locale e per cultori si è fatto per certi versi nazionalpopolare, senza che questo abbia intaccato il DNA di uno dei progetti più variopinti del panorama musicale nostrano. Dario Mangiaracina e Veronica Lucchesi, per tutti La Rappresentante di Lista, hanno trascorso buona parte di giugno alla Casa degli Artisti di Corso Garibaldi a Milano: venti giorni di riflessioni, di creatività, di musica e incontri (tra gli altri sono passati a trovarli Pacifico, Simone Privitera, Mr. Monkey e svariati musicisti con cui i due hanno suonato in passato o suonano tutt’ora).

Come se fossimo a casa loro, ci hanno accolti per raccontarci cosa succede agli artisti quando nelle radio si sentono meno i loro brani, quando non ci sono date in programma e quando trascorrono la maggior parte del loro tempo tra gli strumenti, inseguendo idee e sensazioni e cercando di fissarle. Buona parte del nuovo disco della Rappresentante di Lista, che non sarà un disco, è nato proprio in questi giorni e in questo spazio. Gli abbiamo chiesto come.

Come sono stati questi venti giorni di residenza? Giornata tipo?
Dario: Io e gli altri musicisti della band siamo arrivati qui il 12 giugno, e Veronica ci ha raggiunto qualche giorno più tardi.

Veronica: Sì, prima ero a in Svizzera a finire le riprese di un film che è stato appena annunciato, con la regia di Margherita Vicario.
Dario: Sono giornate molto piene: arriviamo qua attorno alle 10:30, ascoltiamo le cose che abbiamo lavorato il giorno prima, ci ascoltiamo le nostre cartelle di memo vocali e di bozze di idee, oppure le registrazioni che abbiamo fatto insieme alla band in un garage che abbiamo affittato qua vicino. E da lì facciamo partire il flusso: siamo qui a provare delle strade, a fare ricerca e per fare degli esperimenti, anche perché penso sia la natura di questo posto.
Veronica: E poi incontriamo tante persone, vengono musicisti, produttori, persone che collaborano con noi o semplicemente amici, e ci raccontiamo cosa stiamo facendo, facciamo ascoltare i provini e suoniamo insieme. È un posto che ci stimola davvero tanto, c’è tanta luce, c’è spazio, c’è modo e tempo di sbagliare e di ripartire da capo se qualcosa non ci sembra andare nella direzione giusta.
Dario: La cosa bella di una residenza come questa è che ti puoi concentrare sul circolo delle idee.

Foto: Kimberley Ross per Rolling Stone Italia

Avevate già del materiale scritto o è nato tutto da zero nel corso della residency?

Dario: Avevamo già scritto alcune cose appuntandole con chitarra e voce, una cosa che non ci capitava da tanto tempo, penso addirittura dal 2011, e le abbiamo portate qui con l’idea di ampliarle, se necessario ribaltarle e in generale riflettere sul nostro percorso musicale.
Veronica: È stato un bel periodo, molto intenso e senza l’ansia di portare a casa chissà quale risultato, anche perché siamo in generale abbastanza sereni dal punto di vista della nostra musica, e in questo nuovo ciclo vogliamo fare le cose in un certo modo.

In che modo? E a quali altri cicli diversi da questo fai riferimento?
Veronica: Diciamo che come sempre abbiamo deciso di partire dalle nostre urgenze e necessità espressive. In questo caso ci siamo resi conto, ascoltando e leggendo le quasi-canzoni che avevamo in mano, che non avevano più la collettività come protagonista. Ultimamente io e Dario ci siamo trovati ad avere una sensazione comune di grande smarrimento di fronte a un rumore circostante che sta a livelli altissimi, di una serie di cose e di esperienze che vanno e vengono senza che riusciamo ad afferrarle. Il mondo che ci sta attorno ci sembra brutto, e ultimamente la sensazione di rabbia e di dispiacere nei confronti delle persone è molto forte. Ho l’impressione che per farti ascoltare sia necessario alzare la voce, ma a quel punto quello che ti sta di fianco la alza ancora di più e alla fine il rumore è assordante. Forse in risposta a questa sensazione, che riguarda il mondo in generale, ma anche il mondo della musica più nello specifico, ci siamo resi conto che la direzione che volevamo prendere era fatta di voci molto basse, quasi sussurrate, che richiedono il silenzio per essere ascoltate, e la tendenza a ridurre all’osso gli elementi presenti nelle canzoni: dove prima magari mettevamo cinque linee di sintetizzatori, oggi ne mettiamo magari una o neanche una, e così via.
Dario: Le canzoni su cui stiamo ragionando hanno molto a che fare con la solitudine. Vogliamo parlare di noi come individui, senza sfociare nell’individualismo. Semplicemente abbiamo la necessità di smettere di essere capopopolo. In My Mamma avevamo cercato di essere quello, mentre oggi ci sentiamo di andare in una direzione più intima e circoscritta: non cerchiamo più di creare inni e cori, ma vogliamo mettere il fuoco sulla persona, a partire dalla nostra persona. Anche perché ciclicamente ci accorgiamo che dalle relazioni più intime si va sempre a costruire qualcosa che riguarda il modo di stare al mondo, soprattutto in un mondo così difficile e complesso.

Foto: Kimberley Ross per Rolling Stone Italia

In che modo vi sembra che questa individualità stia venendo a galla durante questo processo?
Dario: Noi scriviamo molto dei nostri dialoghi, del mio mondo e del mondo di Veronica e di come si incontrano e stanno insieme. Credo che questo ciclo di canzoni parli molto di questi dialoghi e della nostra solitudine, e che quello che abbiamo l’ambizione di fare sia universalizzare i nostri dialoghi e le nostre solitudini affinché possano essere le solitudini di tutti.
Veronica: Azzarderei a dire che più di ogni altro disco – se poi di disco si parlerà, ma non credo – queste canzoni mi fanno sentire davvero me stessa: ci sono delle parole che riascolto, guardo Dario e ci mettiamo a piangere. Abbiamo un rapporto a stretto contatto e a volte è difficile dialogare, e la musica ci aiuta molto a comprenderci. Le canzoni per noi sono come una sorta di migliore amico a cui puoi dire tutto, e in questo momento sento proprio che queste canzoni mi stanno vibrando addosso.
Dario: Credo che sentiamo così tanto queste canzoni perché in questo periodo sentiamo molto anche noi stessi: è un periodo in cui per la prima volta da Bu Bu Sad siamo riusciti a rallentare: erano tanti anni che andavamo avanti a fare disco, tour, disco, tour e solo di recente ci siamo fermati, e almeno io sento di aver avuto il tempo di problematizzare e mettere in discussione la mia esistenza: il mio stress, i miei ritmi, la mia necessità di fare sempre qualcosa per riempire le giornate, mia sorella che ha avuto un bambino, i miei che si sono fatti anziani, il mondo fuori, per non parlare della guerra e della crisi globale. Sono tutte cose a cui abbiamo pensato tanto e che e hanno fatto sì che stiamo affrontando questo lavoro in condizioni emotive e esistenziali diverse rispetto ad altri progetti.

Foto: Kimberley Ross per Rolling Stone Italia

E cosa dobbiamo aspettarci da un punto di vista musicale? Cosa state ascoltando per stimolare il vostro processo?
Veronica: C’è stato un certo momento in cui ci siamo fissati sul fatto che ogni 28, 30 anni succedono dei grandi cambiamenti, dei corsi e dei ricorsi. Abbiamo fatto il calcolo: ventotto anni fa era il 1996, altri ventotto prima era il 1968. Questa è stata un po’ la traccia di partenza, abbiamo preso questo spunto per riflettere anche sulla nostra musica. Da un lato ci siamo noi, che siamo cresciuti anche musicalmente negli anni ’90, dall’altro ci sono quegli anni ’60 che sono il momento musicale di cui forse conserviamo ancora oggi il maggior numero di canzoni fondamentali: credo fosse perché in quegli anni c’era tanta attenzione e tanto gusto per la melodia, una sensibilità che ha fatto sì che le canzoni di quegli anni fossero piene di grandi melodie; e poi perché erano canzoni più dirette, con meno giri di parole.
Dario: In generale appunto ci piacerebbe essere meno allusivi e ammiccanti possibile, e cercare di essere più sfacciati. Ci stiamo poi lasciando molto andare su quello che ci piaceva quando eravamo quindicenni, attorno al 2000: artisti come Fatboy Slim o Cranberries che hanno totalmente formato le nostre orecchie e il nostro cervello musicale, cosa che forse fino ad ora non avevamo mai avuto il coraggio di dichiarare in maniera sfacciata nella nostra produzione.
Veronica: Di quegli anni credo che in qualche modo condividiamo lo strazio, l’impeto e la delusione, ma non la capacità di reagire. Ci sembra che oggi le nostre lotte siano molto più immobili: dove prima spaccavi delle cose per farti sentire, oggi più che altro piangi, ti disperi, cerchi delle soluzioni ma ti senti comunque fondamentalmente debole. Io almeno non so come sfogare la mia rabbia.

Foto: Kimberley Ross per Rolling Stone Italia

Più di un anno fa, in un’intervista, avevate dichiarato che per voi è fondamentale comunque mantenere la dimensione della rappresentazione e della finzione, cosa che avete imparato dalla vostra esperienza come persone di teatro. Siete ancora di quest’idea? E nel caso, come si concilia con l’esigenza di essere voi stessi?
Veronica: Ci ho pensato poco fa, quando ti dicevo che i brani a cui stiamo lavorando mi fanno sentire me stessa come mai prima. È vero, poi però cosa succede? Succede che fai ascoltare le canzoni ad amici e collaboratori e loro si riconoscono nelle mie parole, ma con un’accezione diversa, e io capisco che in qualche modo le ho scritte anche per loro, rubando sensazioni e momenti come avviene nel teatro o nel cinema: una delle cose che si fa con l’arte è prendere delle sensazioni, amplificarle e restituirle sotto una certa luce. Questo non significa che non sono più io, ma illuminare una cosa con un occhio di bue e mostrarla sotto a una certa luce è già di per sé rappresentazione.
Dario: Esatto, perché quella luce di per sé non esiste. Se magari io scrivo delle cose pensando alla paura della morte di mio padre, magari quella stessa sensazione, illuminata in un certo modo, vale anche per te che hai paura della morte di tuo fratello o per il tuo amico che ha paura della morte del suo gatto. In questi casi ci si rende conto di quanto le regole emotive siano delle regole che valgono per tante occasioni, quindi di fatto stiamo giocando a un gioco. Un gioco molto serio, in cui è fondamentale saper trovare ogni volta il modo giusto di rappresentare.

Ora siete in fase creativa: che rapporto avete invece con il momento della pubblicazione? Riuscite ad essere spettatori di quello che fate una volta che gli spettatori sono potenzialmente anche tutte le altre persone?
Dario: Per me pubblicare è come lasciare qualcuno. Le canzoni nostre me le canto, me le rido, me le ascolto e me le ballo finché non sono uscite. Non amo rivedermi.
Veronica: Sono due momenti diversi, è bello quando è ancora tutto un po’ un segreto, anche se sono periodi pieni di domande perché magari certe cose che hai scritto o fatto non le hai ancora capite nemmeno tu. Però alla fine le canzoni sono una cosa semplice con l’ambizione di rimanere per sempre. La nostra speranza è quella di scrivere qualcosa che possa essere utile per qualcuno, e per farlo è necessario condividerle: non si fa una canzone tanto per farla, e una delle cose più belle è cantare per ritrovarsi, e cantare insieme, quindi il momento in cui si pubblica una canzone è un bel momento.
Dario: Probabilmente Ciao ciao non è la canzone più bella che abbiamo scritto, ma ci ha fatto scoprire più di ogni altro pezzo la sensazione di poter parlare a tantissime persone, dal bambino al settantenne, e quando ti accorgi che qualcuno riesce a raccontare gli episodi della sua vita attraverso una canzone che hai scritto tu è una sensazione bellissima.
Veronica: Non tutti riescono a tradurre quello che sentono, almeno non in musica, e quando ci accorgiamo che siamo riusciti a codificare e a tradurre le sensazioni di molte persone ci sentiamo molto soddisfatti.

Foto: Kimberley Ross per Rolling Stone Italia

Ci avete fatto capire che probabilmente questo percorso non si tradurrà in un disco: allora cosa dobbiamo aspettarci?
Veronica: Confermo, probabilmente non sarà un disco, non abbiamo questa necessità di raccogliere tutto sotto un unico cappello, e pensiamo più che altro a questo ciclo come a una serie di episodi, ma è ancora tutto in divenire.
Dario: Ci piacerebbe che ognuna di queste canzoni avesse la propria dignità, l’opportunità di provare ad andare in radio, di avere un videoclip se ci viene da farlo. Il disco è un processo diverso, e al momento non stiamo andando in quella direzione.

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