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Chuck D dei Public Enemy pensa ancora che il rap possa cambiare il mondo

Uno dei grandi dell'hip hop racconta la docuserie 'Fight The Power', condivide pensieri sulle scene di oggi, spiega che il rap non è musica da ragazzini

Foto: John Lamparski/Getty Images

Chuck D parla con modestia del suo contributo a Fight the Power: How Hip Hop Changed the World, la serie in quattro parti di PBS e BBC in cui racconta la storia del rap come movimento sociale, insieme ad altre icone dell’hip hop da Melle Mel a Eminem (ma anche discografici, giornalisti, studiosi). «Il mio compito è stato quello di far scattare una scintilla e offrire una piattaforma», spiega l’mc dei Public Enemy che è produttore esecutivo della serie.

Le opinioni di Chuck D sulla relazione simbiotica fra l’hip hop e le problematiche sociopolitiche degli ultimi 50 anni sono ancora oggi molto chiare, come mostra Fight the Power. Un impegno ancora più presente nella creazione del suo primo libro in formato coffee-table, un misto di arte e aneddoti personali. Ogni singola opera (ce ne sono 250) del corposo Livin’ Loud è sua. «Credo di essere nato per diventare artista e penso anche che l’arte non si faccia che per sé stessi», dice Chuck. «L’arte mi ha dato la libertà».

Com’è che sei stato coinvolto in Fight the Power?
Spesso l’hip hop è trattato da una prospettiva adolescenziale, una cosa a cui mi sono sempre opposto. Ho iniziato a entrare in contatto con l’hip hop a 27 anni, per cui l’ho sempre vissuto come un dialogo fra gente matura. Non ero un ragazzino e non mi rivolgevo ai ragazzini. Se pensi alla narrazione di rap e hip hop degli ultimi 50 anni, si parla sempre di cosa ascoltano i ragazzi. Beh, no! È musica per il passato, il presente e il futuro, adatta ai giovanissimi e agli over 70. Sono un grande fan di Ken Burns. Mi piace come racconta le sue storie. Così mi sono detto: perché non farlo anche con l’hip hop? La mia compagna in questa impresa, Lorrie Boula, conosce quel mondo. Io non frequento l’ambiente di cinema e tv, quindi si è occupata lei di molte cose, io ci ho messo la mia integrità hip hop. Per me il migliore documentario sull’hip hop è The Art of Rap di Ice T. E questo ne è una sorta di espansione.

Come hai messo a punto il racconto?
Ci sono molti libri e documentari sul tema. L’hip hop aveva bisogno di una propria narrazione, di una propria voce. Era importante far intervenire persone che la gente conoscesse, come Ice-T, MC Lyte e KRS-One. Ma abbiamo anche Fat Joe, Grandmaster Caz, Eminem… sanno di cosa parlano, a livello sociopolitico. Nel documentario hanno un peso anche gli studi accademici. È la nostra risposta all’ondata di banalizzazione della cultura e di anti-intellettualismo: mica devi sfottere chi si prende il tempo per leggere quel che tu non vuoi leggere. Bisognava sviluppare una narrazione corale di hip hop e rap che fosse solida e concisa.

Come avete contattato gli artisti che hanno partecipato?
«Chuck sta per fare un film molto importante sull’hip hop e i suoi aspetti sociopolitici e ci piacerebbe avere il tuo contributo» (ride).

Quindi è stato facilissimo.
Mmm… Fammi dire che il pezzo hip hop più importante di tutti i tempi è The Message (di Grandmaster Flash and the Furious Five, nda) e poi probabilmente il secondo che viene in mente è Fight The Power (dei Public Enemy, nda). Ma c’è anche musica di cui non si è mai parlato e che ha avuto un grande influenza. Come Gary Byrd e Stevie Wonder che nel 1983 hanno fatto un pezzo intitolato The Crown per la Motown. È uscito più o meno nello stesso periodo di The Message.

Vuoi dire che ci sono canzoni e artisti di altri generi che si occupavano delle stesse problematiche dei rapper?
Esatto, e dovremmo sempre tenere presente chi è venuto prima: Last Poets, Watts Prophets, Gil Scott-Heron, Nina Simone.

Ti piace sottolineare che l’hip hop è un fenomeno globale. È questo il motivo per cui è stato importante, per te, collaborare con la BBC?
Sono stato in 116 Paesi e per me l’hip hop ha a che fare col mondo intero, non con un solo posto degli Stati Uniti. La gente negli Stati Uniti, per me, ha la tendenza ad attribuirsi un po’ troppa importanza. L’hip hop significa anche aderire alla collettività che costituiamo. La cultura fa aggregare gli esseri umani. Abbatte le differenze. Ed è l’opposto di ciò che fanno i governi. A loro piace dividere, categorizzare; l’hip hop e il rap sono qualcosa che unisce, come il sangue.

Hai dovuto affrontare qualche difficoltà nella realizzazione della docuserie?
La sfida maggiore è stata al momento del montaggio finale, quando sono rimaste fuori persone e situazioni. Non ho preso parte all’editing, ma dovrò affrontare la cosa, perché se è rimasto fuori qualcuno che avevo coinvolto io, dovrò cercare di calmare le acque. È il motivo per cui, in passato, non ho mai voluto immischiarmi con i meccanismi del mondo della televisione e del cinema.

Non hai avuto potere decisionale sui tagli?
ho scelto io di non averne. Sai, ho fatto anche altre cose, come per esempio il box dedicato all’hip hop con lo Smithsonian. Ho dato un grosso impulso al progetto. Ma quando hanno iniziato la selezione dei brani, me ne sono andato. Non sono bravo a scegliere cosa inserire e cosa eliminare.

In certe persone e in alcuni giri c’è la convinzione che il rap politicizzato o impegnato, come viene definito nella serie, non sia più prevalente. Che ne pensi?
Non serve perdere tempo con le persone che non capiscono. Nella società c’è questa tendenza a voler piacere alle persone. A volte è perché non c’è abbastanza fiducia in sé stessi. Se trovi qualcuno che non capiscono lo aiuti ad arrivarci, ma non devi metterti al suo livello. Sei andato al college? Dimmi, parlavano con te come si parla a un bambino di quarta elementare? No, eri uno studente del college e l’insegnamento era di livello universitario. Lo stesso vale per molti campi dell’arte.

Secondo un’altra scuola di pensiero il rap politicizzato è ovunque per via delle origini dell’hip hop, delle persone che principalmente fanno hip hop e delle condizioni in cui vivono gli artisti hip hop.
Avevo una risposta molto semplice quando dicevano che i N.W.A. erano street e KRS-One era politicizzato. Ribattevo così: se sai chi comanda nelle strade sei politicizzato.

È qui che volevo andare a parare. Perché sono dell’idea che tutto il rap esprima qualcosa di legato alle condizioni sociopolitiche. Anche se non lo dice apertamente.
Non puoi vendere ogni cosa. Puoi vendere parte di una storia e poi il singolo individuo deve capire come rapportarla alla sua vita. Il punto chiave in ogni contesto educativo o informativo è: ok, ma riesci a comprendere? E come si applica, tutto ciò, alla tua vita? La gente dice: mi piace l’hip hop, ma non ne so granché. E io rispondo: se ti piace qualcosa cerca di informarti. Capisci perché ti piace. E poi cosa ti suscita? Va benissimo anche una risposta semplice come: lo ascolto perché mi fa stare bene, mi fa evadere. Oppure: mi fa pensare. Bene. È cultura.

Ci sono artisti o scene nell’hip hop contemporaneo che ti piacciono, ti ispirano o entrambe le cose?
Sintonizzati su rapstation.com, del mio network radiofonico. Ci siamo occupati più di 100 mila artisti negli ultimi dieci anni e siamo i migliori. È hip hop per over 35, ma può interessare anche agli under 35.

Osservando la HipHopGods Radio Top 20 di rapstation.com, vedo artisti come One Chadio, Kingz From Queen e RJ Payne nei primi tre posti. È molto differente rispetto alla Top 20 rap di Billboard, no?
Sì, nessuno è rigoroso come noi. È un po’ come per il baseball. Tuti giocano nei campionati delle scuole superiori o dei college: noi siamo l’NBA.

Interessante. Quindi non c’è nessun artista mainstream che ti ispira o semplicemente ti piace molto?
Ascolta, quello che voglio dire è che possono spuntare anche artisti molto originali, come J. Cole. Ci puoi trovare ottima musica, come quando 21 Savage e Nas hanno collaborato e hanno fatto un pezzo. Escono nuove canzoni tutte le settimane. Ma quando le cose vanno un po’ fuori controllo, come quando uno vuole far fuori qualcun altro o come nella drill… è lì che le cose escono dall’ambito culturale e si appiattiscono. Bobby Shmurda a 15 anni era immerso fino al collo in quelle situazioni, ma a 28 anni sta cercando di allontanarsene dicendo: «Voglio solo essere un artista, per un po’. Non voglio più stare in mezzo a quella roba».

Una volta non c’erano telefoni e computer, solo l’industria discografica, andavi in studio e facevi un disco. Ora non è più così. Adesso chiunque con un telefono può fare un disco o un video. Bisogna tenerlo presente. Che fine ha fatto lo standard qualitativo? Bisogna averne uno. Voglio dire: posso comprarmi una maglia di LeBron James, ma non mi farà diventare LeBron James. È lo stesso col rap e l’hip hop. Ognuno ha dell’arte, dentro di sé. Ci sono degli standard diversi su cui basarsi per tirare fuori quell’arte. E non dipende solo da chi la apprezza. È come per il cibo. Sai che in giro c’è del cibo pessimo, ma ti piace il sapore che ha.

Hai menzionato la drill, che è un fenomeno enorme nel rap, al momento.
Penso vada fortissimo in certi luoghi e in certe fasce d’età. Ma davvero è in tutto il mondo? Credo ci siano più donne nell’hip hop, al mondo, di quanti rapper che fanno drill ci sono in un paio di città. Prendi Londra, Chicago e New York e poi le donne nell’hip hop di tutto il mondo, allora forse ottieni numeri interessanti.

Ok, ma per esempio, il Ghana ha l’asakaa, che è la versione autoctona della drill. Il Kenya ne ha una propria. L’Inghilterra idem. Ho anche parlato con un tizio italiano che faceva drill. Per cui la diffusione è globale.
In un certo senso la drill sta riportando in auge i collettivi. Una delle cose peggiori accadute all’hip hop è stata la scomparsa dei gruppi. Negli anni ’90 veniva promosso l’individuo perché era più facile da gestire a livello di contratti discografici ed è più facile indirizzare una persona sola piuttosto che un gruppo. Ma nella drill c’è questa cosa tipo «non so proprio rappare, ma faccio parte della crew». È l’essenza della drill. Ci sono sempre uno o due tizi in gamba, non sono tutti allo stesso livello. Sta tornando l’idea delle posse. Non andrò a indagare sul messaggio. Quello è un aspetto sociale che necessita di una risposta sociale. Ma culturalmente il succo è trovarsi e scrivere musica. La drill è nata dai giovani che non trovavano risposte alle loro domande.

Avevi 25 anni quando hai fondato i Public Enemy. Che consiglio daresti a un rapper venticinquenne ora?
Non farlo da solo. I collettivi vincono. L’unione fa la forza. Non credo nell’individuo singolo. Puoi anche fare un quadro da solo, ma hai comunque bisogno di un team per fare arrivare la tua arte alla gente, se ti interessa farlo. Penso che i social siano perfetti per l’arte, perché se creo qualcosa posso farla vedere immediatamente mettendola su Twitter o su qualche social. La gente non segue me, segue Twitter e io sono sulla piattaforma, così come lo sono loro. Dobbiamo ricalibrare ciò che diciamo, invece di fare affermazioni generiche come «ho un tot di follower». No, non hai un milione di follower. Instagram ha un milione di follower. I follower sono nell’ambito di queste strutture e sono loro ad avere i follower. Ti faccio una domanda facile: perché ti piace ciò che ti piace?

Musicalmente o culturalmente?
Musicalmente.

Ci sono vari aspetti. Ovviamente mi smuovono il ritmo e il tempo. Il suono provoca una reazione emotiva. Però mi sono appassionato anche al giornalismo musicale perché tutti abbiamo a che fare con l’arte e lo spettacolo a livello profondo, e rispecchiano tematiche sociopolitiche. Penso che sia possibile coinvolgere più persone nel dibattito, se parti da elementi che tutti conoscono. Tutti guardano film e ascoltano musica.
E non hai la sensazione che l’intelligenza artificiale stia prendendo il sopravvento, con gli algoritmi e indirizzando le persone? Stiamo entrando nell’era di ChatGPT. È il nuovo regno dell’AI nel mondo dei social media, in cui c’è un supercervello che è un’estensione della tua personalità. Il pericolo arriva quando la cosa viene perfezionata: «Dammi la voce di Usher, con un tocco di Tupac e beat di Dre e Timberland». E boom! All’improvviso nessuno è più in grado di dire quale sia la differenza. Tipo, wow, ma questa è SZA o qualcun’altra? Pensaci: fra sei mesi o un anno arriveremo al punto in cui sarà possibile ingannare le persone. Non sarà mai l’AI a diventare più stupida.

Tradotto da Rolling Stone US.

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