Chris Korda: «Se l’umanità si estinguesse, la Terra starebbe molto meglio» | Rolling Stone Italia
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Chris Korda: «Se l’umanità si estinguesse, la Terra starebbe molto meglio»

La cultura di oggi «fa schifo», il gusto popolare è «al collasso». Per l'artista e inventrice che ha spinto l'elettronica in avanti con il suo uso del polimetro complesso, live al Polifonic di Milano il 2 giugno, la domanda da farci è una: come possiamo prenderci più responsabilità verso il futuro?

Chris Korda

Chris Korda

Credits: Nina Raasch

Nella homepage del sito web della Church of Euthanasia (la Chiesa dell’Eutanasia) c’è un counter che va, e va. Segna un numero che supera gli otto miliardi, ed è una stima dell’aumento in tempo reale della popolazione umana sulla Terra. Sotto, un cartello icastico: Save the planet, kill yourself (“salva il pianeta, ucciditi”). A corredo, un unico comandamento e quattro “pilastri”: il primo è “Non dovrai procreare”, i secondi suicidio (“opzionale, ma incoraggiato”), aborto (“potrebbe essere richiesto per evitare il prolungamento della specie”), cannibalismo (“unica forma di consumo di carne possibile, se ci si ostina a farlo”) e sodomia (“qualsiasi atto sessuale che non avviene a fini riproduttivi”).

È in parte ironica, questa presentazione. O meglio lo è oggi, era post-(post-?)moderna in cui ogni azione diventa automaticamente riflesso di se stessa, lo straniamento è la regola e qualsiasi potere di intervento sul reale appare azzerato. Ma la Church of Euthanasia (CoE) è, allo stesso tempo, serissima. Fondata a Boston, Massachusetts, nel 1972 da Robert Kimberk (Pastor Kim) e dall’artista Chris Korda, la CoE è una “organizzazione no-profit votata all’istruzione, la cui missione è ristabilire l’equilibrio tra gli esseri umani e le altre specie che restano sulla Terra”.

Istruzione, sì. Perché non c’è spleen, nelle rivendicazioni della CoE, non noia, ma razionale preoccupazione (e un occhio di riguardo ai numeri) per il futuro che gli esseri umani stanno preparando per sé e per i propri discendenti. Non è una posa, ma una pratica. Che passa, ci dirà Korda, per un risveglio collettivo (o illuminazione, vedetela come vi pare) delle coscienze.

Artista, inventrice, musicista, attivista di lungo corso: l’americana Chris Korda, nata nel 1962, è sempre stata “altro”, in quel margine fertile della società in cui la sperimentazione (pratica, intellettuale) è l’unica regola per la sopravvivenza. Lo si ascolta nella sua produzione musicale, otto album e sette EP con varie etichette, tra cui Yoyaku, Perlon, Mental Groove e Gigolo Records. Brani che sono manifesti politici, e che appaiano a testi militanti – o dovremmo dire, brutalmente onesti, come in Save The Planet, Kill Yourself: Why… do your leaders lie to you? / Why… do so many of you believe these lies? / Explain! Your strange customs / Why? Believe these lies (Perché i vostri leader vi mentono? Perché così tanti di voi ci credono? Spiegatemi i vostri strani costumi, perché credete a queste bugie?) – la voglia di esplorare ancora di più nel suono, spingersi sempre più in là, per esempio con l’uso del polimetro complesso, firma compositiva di Korda – per applicarlo alla musica elettronica, Korda ha inventato uno speciale sequencer MIDI – usata per scardinare i consueti “accenti” musicali ed espandere, ancora una volta, le possibilità che crediamo di avere (il polimetro complesso altro non è che l’uso di metri diversi in uno stesso brano, per esempio un 4/4 che diventa un 3/4, e così via).

Perché di questo si tratta, alla fine. Superarsi, andare un po’ più in là. Aprendo prospettive inedite e ricordandoci a ogni passo che, se ci consideriamo l’unica specie “intelligente” sulla faccia del pianeta, dovremmo anche portare giustificazioni a questa affermazione.

Di futuro, società, e naturalmente del perché, secondo Korda e la CoE, sarebbe meglio non riprodursi abbiamo parlato con l’artista, che sarà in Italia per il capitolo milanese del Polifonic festival (dal 31 maggio al 2 giugno a Parco Esposizioni Novegro) fondato nel 2017 in Valle d’Itria, in Puglia, e interamente dedicato alla musica elettronica. Insieme a Korda saranno protagonisti il duo britannico Disclosure, i berlinesi Fjaak, e poi DJ Gigola, DJ Heartstring, ma anche Luke Slater e I Hate Models tra gli altri. L’appuntamento raddoppia dal 25 al 28 luglio per la tradizionale edizione pugliese.

Chris Korda

Credits: Nina Raasch

C’è una parola che ti si potrebbe associare parlando di musica elettronica: leggenda. Ti ci ritrovi? Come vedi, con gli occhi di oggi, il percorso che ti ha portato a questo punto della tua carriera?
No, non mi ci ritrovo tanto nel termine, specialmente perché le “leggende” di solito sono morte, mentre io sono ancora viva. Come mi sento? Mi sento che è tanto tempo che sto dicendo le stesse cose, a volte con più ironia, a volte con meno, ma il messaggio è sempre chiaro. Le persone, però, non lo stanno recependo, e la cosa mi lascia confusa. Penso ci sia una piccola, piccola minoranza di persone che comprendano ciò che dico. La maggior parte delle persone invece no, per nulla. Sono perplessa, davvero.

Comunque, ripercorrendo le tappe, io ho cominciato parlando soprattutto di cambiamento climatico. Lo faccio da più di trent’anni, la prima volta credo sia stato nel 1991, per l’Earth Summit di Rio de Janeiro. Naturalmente, andando così indietro nel tempo parlare di cambiamento climatico sembrava fantascienza, quasi nessuno lo aveva mai sentito nominare. Oggi non è così, i giornali ne parlano quasi ogni giorno. Sento che la mia attenzione si sta spostando su altri temi, anche perché la questione è: se nemmeno gli scienziati riescono a farci capire che la nostra condotta collettiva è suicida, come potrei riuscirci io? Che cosa potrei aggiungere oggi? Credo che il mio contributo al tema fosse molto più incisivo trent’anni fa. Così, ultimamente, mi sto spostando su un tema contemporaneo che, di nuovo, non molte persone stanno considerando, o prendendo seriamente: l’Intelligenza Artificiale.

Giusto per dare due coordinate: ChatGPT ha superato il test SAT [Standard Achievement Test, test di competenze e intelligenza generale che serve per essere ammessi alle università statunitensi, ndr] con risultati migliori del 96% degli umani a cui veniva somministrato lo stesso test, sono dati molto recenti. Che cosa significa? Che potrebbe entrare in qualunque ateneo di alta categoria, e che la sua prestazione intellettuale è migliore di quella di nove persone su dieci. Significa che la sua capacità di elaborare le informazioni testuali del linguaggio umano, o dei simboli matematici, è elevatissima, e che probabilmente stiamo sottovalutando le sue potenzialità. Se poi consideriamo che solo le persone davvero benestanti, e solo negli Stati Uniti, tentano il SAT, allora capiamo che i dati sono pessimisti, che la percentuale in cui ChatGPT supererebbe gli umani è più elevata. Ricordiamoci che in alcune zone del mondo non viene nemmeno impartita un’istruzione.

Questo pensiero è rivoluzionario, e non possiamo paragonare questo momento storico con altre rivoluzioni come per esempio quella industriale. In quella rivoluzione le persone dovettero reinventarsi, riqualificarsi, spostarsi dalle campagne alle città, ma i lavori rimasero. Inoltre, i ricchi non furono mai davvero messi in pericolo da questi cambiamenti. Ora è del tutto diverso: i lavori a rischio sono quelli delle persone istruite, che svolgono lavori intellettuali. Quali saranno le conseguenze sociali di questo cambiamento? Che cosa succederà quando la maggior parte delle persone non avrà un lavoro? Non lo sappiamo. Ma questo è il tema su cui sto riflettendo ultimamente con la mia produzione artistica, e sarà il tema attorno a cui ruoterà il mio prossimo disco.

Attorno a questo centro focale si sta polarizzando un dibattito sul futuro stesso del lavoro: dovremo lavorare nel futuro, o le macchine ce ne toglieranno la necessità? E se sì, che cosa accadrà?
È un dibattito complesso, ne racchiude tanti altri, come per esempio l’opportunità o meno di creare un assegno universale di cittadinanza. L’evidenza da cui dobbiamo partire, però, è che al momento nulla di tutto questo sta accadendo, non ci sono sperimentazioni sistematiche in merito, e soprattutto non sappiamo quale effetto psicologico avrà sulla collettività. Come ci sentiremo una volta che sapremo di non essere più utili? Non ne ho idea, ma probabilmente non riusciremo ad adattarci troppo bene. Credo che Ted Kaczynski [aka Unabomber, ndr] avesse ragione quando diceva che “le persone devono poter sperimentare il processo del potere”, la sensazione di avere le redini nelle proprie mani e di poter contare qualcosa, di fare la differenza. Se questo un giorno non fosse più possibile, be’, credo che le conseguenze psicologiche sarebbero pesanti, e che potrebbero portare a un aumento dei crimini, per esempio, o a una mole di azioni di risposta a questo sentimento di impotenza.

Allo stesso tempo, dobbiamo considerare che tutto questo avviene nell’epoca del neoliberismo, ovvero nel momento storico in cui, da Margaret Thatcher e Ronald Reagan, abbiamo deciso che i ricchi avrebbero dovuto guidare la società, rendendoli ancora più ricchi, eccetera. E questo ci sta portando verso un processo circolare e involutivo dal punto di vista storico: stiamo cioè tornando nel mondo pre-moderno, in cui era normalissimo che i meno abbienti fossero dei completi ignoranti quando non analfabeti. Combinandolo con le macchine che diventano sempre più intelligenti, qualcosa mi fa dire che le conseguenze non saranno rosee.

Per riassumere tutto: con la mia opera voglio esplorare uno dei problemi fondamentali della contemporaneità, ovvero che le persone stanno diventando mediamente più stupide e non più intelligenti. E questo non ci aiuterà a fronteggiare il cambiamento climatico, o l’avvento dell’AI. Non è un messaggio positivo, ma è davvero probabile che, alla fine, la civiltà umana finirà per collassare non perché saremo colpiti da un asteroide, ma perché non sapremo prepararci al futuro. Questo è ciò che mi preoccupa.

Come collettività cerchiamo sempre di individuare una causa esterna per le cattive situazioni in cui ci troviamo. Non pensiamo mai che potremmo essere proprio noi, quella causa. Come mai, secondo te?
Perché è più facile! Nessuno gradisce il senso di colpa, nessuno vuole sentirsi dire che ha fatto qualcosa di sbagliato. Le persone potranno anche essere stupide, ma sono orgogliose. E non vogliono sentirsi addosso la colpa del collasso della civiltà. È la stessa ragione per cui i partiti di destra stanno così bene oggi: ogni gruppo esternalizza le cause dei propri problemi, e il nemico è sempre “l’altro”. I politici di destra offrono esattamente questo ai cittadini: scaricare la colpa su qualcun altro.

La mia organizzazione invece [la CoE, la Church of Euthanasia, ndr] è all’estremo opposto: accettiamo la colpa, e proprio per questo chiediamo alle persone di non riprodursi. Non fare figli significa, essenzialmente, “not with my genes, non con il mio DNA”, ed è la presa di posizione più forte che si possa avere a favore della decrescita. Riproduttivamente è l’equivalente di darsi fuoco, si diventa la fine della linea genealogica, ci si toglie dalla variabilità genetica. Alla maggior parte delle persone non piace questa idea, e infatti continuano a procreare. Farlo permette, ancora una volta, di scaricare la responsabilità, di non interpretarsi come l’ultimo baluardo di salvezza possibile. Così continuano a vivere esattamente come facevamo prima.

Le persone si riproducono per abitudine? O per egoismo?
Può esserci dell’egoismo, sì. Anche se penso che la ragione principale che porti le persone a riprodursi è la mancanza di istruzione. Lo insegna la Storia: quando aumenta l’istruzione, i figli diminuiscono. Lo vediamo nel presente: i tassi di natalità più alti si hanno nei paesi con minor livello di istruzione, o dove le donne hanno meno diritti e dignità. Per i paesi più sviluppati come quelli occidentali invece il discorso è, spesso, diverso, e le cause vanno ricercate nelle pressioni sociali. Quelle, sì, derivano dall’abitudine, ma la causa può essere anche il bisogno elementare di ricevere amore incondizionato. È vero, un bambino potrebbe dartelo, ma poi diventa un adulto e allora, forse, quello che si stava cercando non era un figlio ma un cucciolo di cane.

Funziona così, no? A un certo punto il genitore diventa vecchio, il figlio è disinteressato o troppo impegnato, e lo spedisce in casa di riposo. Basta poco per accorgersi che tutto il discorso sulla riproduzione è impostato su una serie di errori intellettuali, di cui il peggiore è il motto: “ciascuno per sé”. Che poi dà vita a tutti i nazionalismi, gli individualismi, eccetera. Proprio quando invece avremmo bisogno di universalismo. Dobbiamo accorgerci che, se siamo davvero l’unica forma di vita intelligente sul pianeta, dovremmo comportarci come tale e cominciare a sistemare i nostri affari. La biologia non sta mica a guardare le nostre paturnie: se l’essere umano non sarà all’altezza della sopravvivenza o di far sopravvivere la Terra, qualcun altro prenderà il nostro posto, e nessuna lacrima sarà versata sulla nostra tomba. Anzi: se l’umanità scomparisse da un momento all’altro sarebbe un vantaggio per il pianeta.

Stiamo parlando naturalmente di attivismo, che è poi quello che fai con la tua organizzazione. Che cosa vuol dire essere attivisti oggi, che cosa voleva dire esserlo ieri?
Non ne ho idea. Tutto quello che cerco di fare è spingere le persone a pensare a cose a cui altrimenti non penserebbero. Lo si capisce bene dalle mie letture. Leggo libri di futuristi, di scienziati, climatologia, paleontologia, storia della Terra, … Ti trovi davanti a delle ricerche che dicono che la vita nell’universo è probabilmente molto più comune di quanto non pensiamo. Che cosa differenzia l’umano dal non umano? Questo è interessante.

Uno dei libri che mi ha influenzato di più è Earth in Human Hands, di David Grinspoon, scienziato della NASA. A un certo punto dice una cosa molto bella, ovvero che si riconosce una specie che durerà nel tempo, e intelligente, dal fatto che pensa al proprio futuro collettivo. Tra gli esseri umani qualcuno lo fa, certo, ma sono molto pochi. Tra di loro ci sono quelli di The Long Now per esempio, a San Francisco [organizzazione no profit che promuove il pensiero a lungo termine, ndr]. Ma naturalmente “lungo” si intende su scala geologica e non umana, ed è molto difficile dimostrare questo livello di consapevolezza. È difficile, certo. Ma immagina che effetto se il Presidente della tua nazione annunciasse che, d’ora in avanti, tutte le risorse del paese saranno riallocate per garantire la maggior sopravvivenza possibile alla specie sul futuro remoto. Sarebbe incredibile, no? Eppure non sarebbe il primo a farlo. L’ONU l’ha già fatto, tra i suoi principi c’è quello di mantenere la Terra abitabile per l’essere umano. È difficile applicare questo principio, ma intanto è già qualcosa, quando tutti gli altri pensano a come divertirsi, a come avere più follower su Instagram, ad andare alle feste e così via. Sono solo distrazioni da un problema sempre più urgente. Sembriamo tutti a bordo del Titanic: nessuno immaginava che sarebbe potuto affondare, giusto? Questo è ciò che lo rende interessante.

E qui ci vorrebbe un risveglio collettivo delle coscienze. Che potrebbe avvenire in che modo? Torniamo al tema dell’istruzione?
Non penso ci sia un altro modo per “illuminare” le persone. Quindi sì, l’istruzione. Dando un’occhiata alla storia del mondo ci accorgiamo che tempo fa le persone erano estremamente più ignoranti di oggi. Era comune pensare che la Terra fosse piatta, che le stelle fossero buchi nel cielo e che dietro di fosse la luce di Dio… Negli ultimi secoli, dall’inizio dell’Illuminismo diciamo, c’è stata una rivoluzione della conoscenza. Ma anche lì le cose erano complesse, a dire qualcosa che si scostava dalla dottrina della religione si rischiava di essere imprigionati, o peggio. Non si poteva nemmeno dire che avrebbe avuto più senso che fosse il sole a essere il centro attorno a cui ruotavano gli altri pianeti, non importava che così i calcoli matematici tornassero.

Dobbiamo renderci conto che una volta vivevamo in un mondo – e ancora oggi parzialmente ci viviamo – in cui era normale credere in una sorta di papà cosmico che non solo ha creato tutti e tutto, ma che qualche volta ha anche piacere a parlare con le sue creature e a spiegare loro come dovrebbero vivere la loro vita. Stiamo parlando di un livello di psicosi preoccupante. Oggi potremmo dire che circa la metà delle persone che abitano il pianeta si trovano in questo stato, ed è troppo tardi per loro, perché sono adulti e hanno già le loro convinzioni, e non riusciremo a fargliele cambiare. Ci possono essere alcune success stories qua e là, ma la regola generale è che è meglio cercare di spiegare le cose come stanno alle persone quando sono più giovani e il loro cervello è più elastico.

Io sono stata fortunata, sono stata illuminata a un’età piuttosto precoce, e questo significa che il nostro compito è dire la verità alle altre persone. È un compito abbastanza gravoso, ma le cose stanno così. Il che poi si trasforma nel dover dire la verità anche al potere, a chi governa. Ed è ancora più pericoloso, ma deve essere fatto. Non possiamo limitarci a dire che non ce la sentiamo, che non ne siamo capaci, che tanto qualcun altro se ne occuperà.

Pensi che, a un certo punto di questo percorso, dovremo riconsiderare il nostro rapporto con la tecnologia?
Credo di sì. Percepisco tanto scetticismo attorno al tema. Credo anche però che ci sia tanta confusione in generale, ed è perché viviamo in una società di singolarità. E quando si è da soli ogni cambiamento è esponenziale, e fa paura. La condizione di cambiamento ideale è lenta, lineare. Come vedere un albero cresciuto fino a una certa altezza, poi torni dopo un po’ e lo trovi più grande. Non ti fa paura, è naturale. È il cambiamento repentino che spaesa e disorienta. Tutti i cambiamenti della nostra era stanno avvenendo in maniera rapidissima, esponenziale. Vorremmo che ci fosse una spiegazione semplice, rintracciabile, ma non è così. La ragione è complessa, e parte ancora una volta dalla rivoluzione della conoscenza avvenuta durante l’Illuminismo. Ci affanniamo a cercare una ragione, una causa. Ma la verità è che è sempre stato inevitabile che ci trovassimo in questa situazione, e ancora una volta bisogna guardare al passato per capirlo.

Studiando le civiltà che ci hanno preceduto sappiamo di trovarci in un punto dello sviluppo chiamato “collo di bottiglia”. È quel momento in cui ci siamo resi conto di essere potenti, di essere una civiltà avanzata, e vogliamo godercela finché possiamo. Siamo in una fase di decadentismo per soli ricchi, come nell’antica Roma. Ed è ovvio che vada così: siamo l’unica forma di vita intelligente sul pianeta, vogliamo dimostrarlo nei modi più sregolati possibile. Quindi ora siamo nel mezzo di questo party esagerato per super ricchi, e questo ci porterà alla fine della stessa civiltà che ci ha permesso di arrivare fin qui. Esiste, certo, la possibilità di raddrizzare il percorso, di redimerci, ed è quello che ho voluto dire con il mio album Apologize to the future, che credo sarà il mio lascito politico più significativo. Nel brano A Thin Layer of Oily Rock dico: Wise up fast / It’s not too late / Respect the future / Don’t procreate [svegliatevi in fretta, non è troppo tardi, rispettate il futuro, on riproducetevi, ndr]. Ed è esattamente quello che penso.

Qualcuno potrebbe dire che la nozione di speranza non ti appartiene.
Non credo che la speranza abbia bisogno di appartenenza, o di essere creduta. La speranza deve essere costruita su qualcosa di tangibile, oppure altre volte si potrebbe averla senza basi materiali, è una scelta coraggiosa. Io non credo di essere generalmente una persona con speranza. Il contesto in cui inserire ogni ragionamento è sempre questo: dovremmo iniziare a considerare seriamente l’opzione di lasciare più spazio di governo alle macchine, per gestire meglio i nostri affari. Alla fine, a ben vedere, sono molto meno animali di noi e per definizione, mentre gli esseri umani sono ancora molto legati al mondo della natura da cui sono arrivati. Per esempio: siamo molto competitivi, e questo è un tratto che ci è stato lasciato dal nostro ex stato brado. Sai, quando devi combattere ogni giorno per sopravvivere, devi essere molto in forma anche fisicamente, altrimenti è il leone a vincere su di te. Un altro tratto: gli esseri umani hanno una forte carica sessuale. Questo è sempre legato al tema della sopravvivenza. Una volta eravamo in davvero pochi sul pianeta, e questa caratteristica ci avrebbe aiutato a popolare la Terra più velocemente. Inoltre, una volta era molto meno probabile che un neonato sopravvivesse, e quindi aumentando i numeri si sarebbero assicurate migliori probabilità di sopravvivenza. Perciò questo mi dà speranza: pensare a un futuro in cui l’umanità riuscirà a costruire macchine così intelligenti da gestirci.

Veleggiando verso questo futuro, l’ambiente online può aiutare? O è solo una distrazione?
È difficile da dire. I social media, per esempio, no, non sono esattamente un veicolo di illuminismo. Sono strumenti a cui è stata data forma dal capitalismo. Il capitalismo e l’industrialismo, come si è visto, funzionano meglio quando tutti pensano la stessa cosa, e i social cercano di farci credere proprio questo, che vogliamo tutti la stessa cosa. Per fare questo bisogna appiattire le cose e mischiarle, metterle tutte sullo stesso livello. È il contrario della differenza. E lo sto vedendo nel corso della mia vita, la diversità sta scomparendo. I social non aiutano in questo, sono tutto il contrario. For more enjoyement and greater efficiency, consumption is being standardized: lo si sente nel primo film di George Lucas, THX 1138, ed è verissimo.

Un’altra cosa, detta però da Henry Ford: le persone possono avere tutte le auto che vogliono, purché siano nere. Ecco, questo è lo spirito di tutto. I social sono i nuovi Henry Ford: il minimo di personalizzazione possibile, per il massimo della standardizzazione. Questo avviene nei consumi ma anche nell’arte, prendi la musica, io sono stata sempre un’outsider nel settore, ho sempre cercato di fare musica non solo che suonasse diversa, ma che fosse strutturalmente diversa. Chi lavora in polimetro complesso oggi, oltre a me? Non saprei. Dobbiamo combattere per espandere il regno dell’intelletto, per avere più possibilità. Dobbiamo allargare il campo. La cultura prodotta oggi, in generale, fa piuttosto schifo. Mi sembra di essere dentro Idiocracy, il film di Mike Judge dove a un certo punto il protagonista entra in una stanza dove un tizio è seduto su un divano collegato a un gabinetto, e guarda alla tv uno show che si chiama Fuori dalle palle mentre mangia a ruota una sostanza appiccicosa e burrosa. È una satira certo, ma ogni satira ha radici nella realtà. Il gusto popolare è al collasso, e questa cosa mi preoccupa molto.

Dunque: sembra che preferiamo capire le cose subito piuttosto che farci delle domande. Perciò: qual è la domanda che dovremmo porci tutti come collettività?
Come posso avere, io, più responsabilità verso il futuro? Come posso rendere il futuro migliore per le persone che verranno dopo di me?

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