Chitarre che prendono fuoco e altre disavventure degli Explosions in the Sky | Rolling Stone Italia
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Chitarre che prendono fuoco e altre disavventure degli Explosions in the Sky

Soldi che mancano, strumenti dimenticati in giro per il mondo, svenimenti in aereo, incontri deludenti: alla vigilia del tour italiano, la band texana racconta la vita on the road

Chitarre che prendono fuoco e altre disavventure degli Explosions in the Sky

Explosions in the Sky

Quanto è bello stare in tour, suonare dal vivo, girare da una città all’altra, divertirsi e viziarsi con i compagni di band, godersi gli elogi degli ammiratori. Tutto meraviglioso, finché una delle tue chitarre non prende fuoco sul palco o i tuoi promoter non decidono di prendersi gioco di te prenotandoti un trattamento benessere non esattamente rilassante. Parola dei texani Explosions In The Sky, che in vista delle due date italiane del 5 e del 6 febbraio, rispettivamente al Teatro Duse di Bologna e al Fabrique di Milano, ci hanno raccontato incidenti di percorso e incontri fortunati, fatiche e soddisfazioni, imprevisti e sorprese della loro vita di musicisti che da vent’anni si dividono tra studi di registrazione e sale concerti. Proprio così, vent’anni, tanti ne sono trascorsi da quando, in quel di Austin, Chris Hrasky, Michael James, Munaf Rayani e Mark Smith decisero di cambiare il nome del loro gruppo da Breaker Morant a Explosions In The Sky: i quattro avevano appena inciso la loro prima traccia Remember Me As A Time Of Day quando, usciti dalla stazione della radio universitaria KVRX, alzarono gli occhi al cielo e si ritrovarono davanti un’esplosione di fuochi d’artificio. La suggestione era ideale per raccontare la musica che avevano in mente di proporre: un post rock basato su un’alternanza di paesaggi sonori dilatati, detonazioni e cavalcate noise, di atmosfere distese e crescendo carichi d’intensità, vicino al sound di gruppi quali Mogwai, Mono, God Is An Astronaut, Godspeed You! Black Emperor.

Da allora gli Explosions In The Sky, spesso affiancati dal produttore John Congleton, hanno pubblicato sette album in studio, dal primo, bellissimo How Strange, Innocence, del 2000, al più recente The Wilderness, del 2016. Nel frattempo il loro stile si è evoluto, l’intervento di elettronica e synth è andato via via arricchendo l’impianto incentrato su batteria e tre chitarre elettriche su cui la band ha costruito la propria carriera, e attorno lo scenario è cambiato. «Si vendono meno dischi, quando ci siamo formati non potevamo certo immaginare un futuro del genere», dice Mark Smith. «Per fortuna abbiamo scoperto che la nostra musica è adatta a cinema e serie tv, il che ci ha aiutati: nei periodi di pausa cerchiamo di licenziare pezzi per quel mercato, gli introiti che arrivano da lì ci garantiscono tranquillità». Le loro “suite emozionali” appaiono in film come Il cacciatore di aquiloni di Marc Forster, Quel fantastico peggior anno della mia vita di Alfonso Gomez-Rejon, Shopgirl di Anand Tucker, Lo scafandro e la farfalla di Julian Schnabel, o ancora il documentario Capitalism: A Love Story di Michael Moore, serie televisive quali One Tree Hill e CSI – Scena del crimine e diversi spot. «Poi ci sono i tour, ossia la fonte di guadagno principale».

Parliamo di questo, del resto è normale che per una band come la vostra la dimensione live sia essenziale. Avrete suonato in chissà quante venue: dal punto di vista dell’acustica dei locali avete notato differenze da Paese a Paese e quali sono le sale meglio attrezzate, secondo voi?
Differenze no, ci sono venue di ogni tipo ovunque. Secondo il nostro fonico Jeff Byrd le migliori per il nostro sound sono quelle dove si crea un lieve riverbero nella stanza, tra queste il Fox Theater a Oakland, il Kings Theater a Brooklyn, il Paradiso ad Amsterdam, la Sydney Opera House e alcune chiese convertite in sale per la musica dal vivo.

Quello che vi porta in Italia questa settimana è il 20th Anniversary Tour: mezzi di trasporto?
Per tanti anni abbiamo girato col van, ma a un certo punto l’età ha iniziato a farsi sentire, così, a parte i voli per i lunghi spostamenti, siamo passati al tour bus. E ci piace: nelle cuccette dormiamo bene, senza contare che viaggiamo di notte, per cui al mattino ci svegliamo e ci troviamo direttamente nella città dove suoneremo, con più tempo a disposizione per visitarla. Mai e poi mai torneremmo al van.

La cosa più folle che vi sia mai accaduta?
Tantissime. Durante uno dei primi tour la prima data era ad Austin e il nostro cachet di 400 dollari, che all’epoca era tantissimo per noi, il massimo che avessimo ricevuto fino a quel momento. Eravamo così felici che dopo aver festeggiato siamo subito partiti per la tappa successiva a Dallas, salvo poi renderci conto che avevamo dimenticato parte della strumentazione ad Austin. Così siamo stati costretti a tornare indietro immediatamente, e poi di nuovo indietro… Un’altra volta, in occasione del nostro primo concerto internazionale a Taipei, i nostri promoter ci hanno consigliato un massaggio ai piedi che abbiamo accettato di fare tutti contenti, ci sembrava un’idea fantastica. Ebbene, è stata l’esperienza più dolorosa della nostra vita. Le massaggiatrici non facevano che pressare i nostri poveri piedi con le nocche delle dita e i gomiti e noi non smettevamo di lanciare urla di dolore. A un certo punto abbiamo visto che fuori dalla finestra c’erano i promoter che ci guardavano e ridevano come matti.

Vi è mai capitato di dover affrontare dei pericoli?
Non proprio, ma una volta dopo un concerto a Mosca abbiamo preso l’aereo per tornare negli Usa e una trentina di minuti dopo il decollo un passeggero è svenuto. Solo che non è finita lì: pochi minuti dopo, mentre gli assistenti di volo lo soccorrevano, due file più avanti è svenuta un’altra persona. Insomma, uno che sviene ci sta, ma due? Eravamo spaventati, abbiamo iniziato a pensare che qualche strano veleno ci avrebbe fatto morire tutti. Non abbiamo mai saputo cosa fosse successo.

E sul palco? Avrete sicuramente avuto degli imprevisti.
Eccome. Uno, però, ci ha segnati più di altri: quando la chitarra di Munaf ha preso fuoco durante un concerto a Londra. Mentre un’altra volta, a Istanbul, l’impianto si è bloccato dopo una canzone e mezza su metà palco, in pratica dopo una dozzina di minuti Munaf e Michael erano senza elettricità; abbiamo finito il concerto lo stesso, sperando che nel mentre qualcuno avrebbe risolto il problema, ma niente da fare. Fu un peccato spararci quel lungo viaggio per poi riuscire a suonare bene solo un pezzo… Non ci hanno più invitati.

L’incontro indimenticabile?
Molti anni fa eravamo a un festival con il nostro caro amico Esteban Rey, artista che ha firmato la maggior parte dei nostri artwork. C’erano anche i Dinosaur Jr, di cui Esteban è grande fan. Appena vede J Mascis corse da lui per riempirlo di complimenti, solo che non ricevette risposta. Letteralmente, J non pronunciò una parola: immobile, fissava il suo interlocutore, poi d’un tratto se ne andò. Eravamo sorpresi, per fortuna in seguito Esteban raccontò l’episodio a Kevin Drew dei Broken Social Scene, il quale ne parlò con J, che a sua volta chiamò il nostro Esteban per scusarsi. Era dispiaciuto, ovviamente lo abbiamo perdonato.

Concerti preferiti da spettatori?
Quello degli Stars Of The Lid all’All Tomorrow’s Parties del 2008: trascinante. Spero che la gente leggendo quest’intervista ne parli, così magari organizzeranno un nuovo tour.

Rituali pre o post concerto?
Sarà banale, ma prima di salire sul palco ci abbracciamo sempre. Ma non velocemente, stiamo stretti l’uno all’altro per un paio di minuti.

Nel 2002 avete aperto per i Fugazi, una svolta per la vostra carriera; nel 2013 per i Nine Inch Nails assieme ai Godspeed You! Black Emperor…
Già, e Trent Reznor ci accolse affettuosamente. Non solo: per tutta la durata del tour lui e i NIN hanno condiviso il loro catering con noi, e non erano tenuti a farlo. Vorrei aggiungere che abbiamo anche aperto più volte per gli …And You Will Know Us By The Trail of Dead, non smetterò mai di ringraziarli per questo. Quanto ai Fugazi, in effetti aprire per loro rappresentò un po’ il culmine di una fase di crescita: per la prima volta suonavamo di fronte a circa tremila persone, credo che il numero fosse più o meno questo, comunque si trattava della platea più grande che avessimo mai visto, e vendemmo tutto il merchandise. Quella sera Brendan Canty (il batterista dei Fugazi, nda) fu gentilissimo con noi, si congratulò. Ma il mio ricordo preferito riguarda Ian MacKaye nel backstage che conta i soldi mentre discute di capitalismo con non so chi: un’immagine perfetta.

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