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Chi è Dola, il cantautore amato da Coez che scrive hit malinconiche da Festivalbar

Faceva il backliner di Coez e cantava in inglese. Ha avuto una crisi d’identità. Ha buttato via tutto e ha iniziato a usare l’italiano. Ora pubblica ‘Non si esce vivi’ e canta la tristezza adolescenziale che non passa mai

Foto: Tommaso Biagetti

Capita anche ai fan più accaniti: dopo aver “consumato” gli album di un artista a forza di ascolti, arriva finalmente il sospirato giorno del concerto e scopriamo che dal vivo il personaggio in questione non è neanche lontanamente in grado di trasmettere le emozioni che ci regalava su disco. Con Dola è il contrario: è sul palco che esplode tutta la sua potenza, la sua genuinità, il suo entusiasmo contagioso e trascinante. Comprensibilmente, quindi, è parecchio giù di morale all’idea che la sua estate la trascorrerà con casse spia e amplificatori spenti causa Covid.

«È una vera sofferenza», esclama. «Fosse per me farei soltanto concerti, perché è l’unico modo per esprimere davvero ciò che volevo dire nelle canzoni e farle conoscere alla gente». Anche le alternative in campo per ora non lo convincono: «Io mi muovo, salto, cammino sui sub-woofer, vado in mezzo alla gente… E vedere il pubblico seduto, o dover stare seduti, per me è un po’ una costrizione».

Per nostra fortuna, però, nel suo caso anche la resa in studio è ottima, come dimostra il suo ultimo singolo Non si esce vivi, scritto ed eseguito a otto mani insieme a Frenetik&Orang3 e Coez. Il brano è un cerchio che si chiude, in un certo senso, perché è proprio Coez ad aver spronato Dola a scrivere canzoni e a presentarlo alla sua attuale etichetta, la indipendente Undamento, artefice del successo suo e di Frah Quintale, tra gli altri. «Forse ha una voce poco accattivante e una scrittura ironica e irruente per il gusto italiano», racconta Coez. «E forse la gente ci sta mettendo un po’ a capirlo, ma si sa che le cose nuove hanno sempre una strada difficile. Per me pezzi come Non esco e Lil Pump meriterebbero di essere suonati in un palazzetto, molto più di altri pezzi che oggi vengono suonati in un palazzetto».

Ma chi è Dola, quindi? All’anagrafe Aldo Iacobelli, cresciuto in un paesino in provincia di Frosinone, 30 anni circa, è davvero difficile da classificare o descrivere, perché non c’è nulla che gli assomigli davvero, nell’attuale panorama italiano. Anzi, si potrebbe dire che ogni brano sia un discorso a sé stante. Non si esce vivi, ad esempio, ha reminiscenze di estati anni ’90 ormai perdute e di tormentoni italianissimi come quelli di Luca Carboni o Loredana Berté. «Beh, se l’effetto che fa è quello, è una bomba!», esclama Dola, illuminandosi. «Mi piacciono i pezzi con un mood da Festivalbar, che associ in automatico alla stagione calda e quando riascolti a distanza di mesi ti creano una nostalgia istantanea. Già mi immagino qualcuno che dice “Era l’estate dopo il lockdown, ero mezzo depresso, e sentivo sempre questa canzone”».

Fa musica da moltissimi anni, ma le sonorità che oggi lo caratterizzano sono frutto di una crisi di identità, racconta: «Cantavo in inglese, avevo tutto un altro sound, ma a un certo punto non mi ritrovavo più in ciò che facevo. O forse non avevo neanche un’idea precisa di ciò che volevo fare». L’unica soluzione è un gesto drastico: «Ricordo di aver fatto dei giganteschi sacchi neri dell’immondizia in cui ho infilato appunti, canzoni, master, provini, per poi buttare via tutto. Di quel periodo non ho conservato davvero niente: era il mio modo di voltare pagina».

Per qualche anno mette da parte le velleità artistiche e si concentra sulla musica come mestiere: lavora per un service audio a Roma, suona la chitarra ed entra a far parte della band di Coez, con cui lavora come backliner per diversi tour. «È stato proprio parlando con lui nei tragitti in furgone che mi è tornata la voglia di scrivere le mie canzoni: qualcosa che fosse reale, comprensibile, personale», dice. Qualcosa che fonda tutte le sue influenze, soprattutto. «Ho iniziato ascoltando il metal, il punk, i Nirvana», spiega. «Poi ho scoperto il mondo dell’elettronica e dei beat lo-fi, e mi ci sono appassionato tantissimo». A completare il quadro c’è l’immaginario di Undamento, che sposa la cultura street e l’hip hop meno convenzionale da parecchi anni, e in cui Dola sembra incastonarsi perfettamente, nonostante in apparenza il suo mondo sia lontano anni luce dal loro. Nasce così un primo album, Mentalità, seguito da una sorta di playlist work in progress, Cultura Mixtape, che fa da filo rosso tra il suo lavoro precedente e i prossimi. Nel mentre è arrivata anche l’occasione, a lungo attesa da tutte le parti in causa, di lavorare a Non si esce vivi, un brano per cui «siamo entrati in studio senza avere la minima idea di dove volessimo andare: quello che ne è uscito è una canzone che fatico a classificare sia per lo stile che per il mood, il che per me è quasi sempre un bene», racconta Coez.

«Era da tempo che con Frenetik e Orang3 ci dicevamo che avremmo dovuto fare qualcosa, ma siccome io sono un po’ nomade, non riuscivamo mai a ritrovarci nella stessa città», ride Dola. «Anche con Coez era un bel pezzo che volevamo scrivere insieme, a maggior ragione perché non l’avevo mai fatto con nessuno, e non sapevo neanche come approcciarmi alla faccenda. Alla fine è stato tutto molto naturale: ci è uscito il primo verso della prima strofa, “Mi tieni in pugno come una bottiglia”, e da lì è stato tutto in discesa. Mi pare fosse Virginia Woolf che diceva che una volta che hai la prima frase, il libro è già scritto».

In questo periodo storico c’è una sovrabbondanza di cantautori italiani postmoderni (la famosa scena it-pop), e collocare anche Dola all’interno di questo sottoinsieme risulta essere una tentazione quasi irresistibile. Lui, però, non ne fa propriamente parte, né si sente di appartenere a quel giro. «Stimo tantissimo molti dei suoi esponenti, ma mi piacerebbe essere una voce a parte, sviluppare un filone mio», dice. «Se non fai parte di nessuno standard, puoi permetterti di cambiare, giocare, essere libero sempre. Se invece ti rinchiudi in un recinto, non so quanta longevità possa avere il tuo lavoro. Le mode passano, e io non voglio entrare per forza nei parametri di una playlist». Soprattutto, vuole sentirsi libero di sentirsi ancora punk, anche se in teoria il suo sound va in tutta un’altra direzione. «Per me è un’attitudine. Kurt Cobain, con la sua genuinità e la sua sofferenza, era punk. Johnny Cash era punk. E anche io cerco di mantenermi sempre su quei binari. La cosa più punk in assoluto, in effetti, la faccio già tutti i giorni: arrivare al giorno dopo nonostante tutto», sghignazza.

La sua credibilità artistica dimostra che che un mondo senza etichette o paletti generazionali è possibile: «Non è una questione di età anagrafica. Se ti porti dentro la tristezza adolescenziale per tutta la vita, puoi parlarne anche quando hai 50 anni e riuscirai comunque ad arrivare agli ascoltatori più giovani. Io vorrei mantenere sempre quel feeling da teenager, ma senza sforzarmi troppo, altrimenti sembrerei finto».

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