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Chi è, chi diventerà Geolier

È uno dei rapper da tenere d’occhio. Ha fatto feat con Guè, Noyz Narcos, Sfera. Racconta una Secondigliano che non è solo 'Gomorra' e col prossimo disco vuole «sdoganare del tutto l'uso del napoletano»

Foto: Raffaele Morlando

La prima volta che abbiamo scritto di Geolier sulle pagine di Rolling Stone è stato nel 2018, quando un Sick Luke già in grande ascesa lo definiva «un ragazzo giovane e fortissimo di Napoli di cui tutti si accorgeranno». Ai tempi Emanuele, questo il suo vero nome, aveva appena 18 anni. «Con lui ci conosciamo da un sacco», racconta al telefono. «È stato il primo, tra i producer già famosi, a scrivermi e a chiedermi di andare a trovarlo per collaborare. I nostri primi pezzi risalgono al 2018».

Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti: il successo con uno street single diventato virale e l’album di debutto Emanuele. È già al lavoro su un secondo disco, ci svela, anche se non vuole dire di più, se non che sarà nel solco di quello precedente: «Mi limito a dire che voglio continuare a portare avanti la bandiera della lingua napoletana», dice misterioso.

Ma chi è Geolier, esattamente? Il nome significa “secondino” in francese. «Ho scelto questa parola perché suona un po’ come se fosse uno stilista di alta moda», spiega. «Noi di Secondigliano veniamo chiamati secondini da quelli degli altri rioni, e siccome i rapper usano spesso i nomi dei brand di lusso francesi per fare i fighi – Louboutin, Vuitton – ho provato a rigirare il concetto a modo mio». Nasconde però un messaggio più profondo: «Ci sta la rima in cui citi il brand per mostrare il tuo stile, ma penso che le persone debbano immedesimarsi in quello che dici. Devono soffrire per e con le tue canzoni, in un certo senso».

Foto: Raffaele Morlando

È sicuramente uno dei rapper più talentuosi della sua generazione: anche chi lo ha preceduto si trova concorde su questo, tant’è che i featuring prestigiosi con artisti che hanno il doppio dei suoi anni – tra gli ultimi Guè e Noyz Narcos, ma anche Luchè, che anni fa fu il primo a metterlo sotto contratto con la sua etichetta BFM Music – sono ormai parecchi. «Anche se sono quattro anni che faccio il rap sul serio, di fatto ho iniziato a 10 anni», ricorda. «All’inizio lo tenevo nascosto, non mi piaceva tanto l’idea di espormi con questa cosa. Mi appassionava la musica in generale, ma soprattutto la cultura hip hop: ho toccato un po’ tutte le discipline, dai graffiti alla breakdance al freestyle». Provava una sorta di vergogna però, perché «dalle mie parti ogni tanto ti sfottevano, se dicevi che facevi il rapper. Ma quando sono uscito con il mio primo pezzo, la gente è impazzita».

Il pezzo in questione si intitola P Secondigliano, è una collaborazione con l’amico Nicola Siciliano e trae ispirazione dal suo quartiere. «Avevo voglia di evadere dalla mia realtà. Dove abito io devi fare qualcosa per tirarti fuori». Ai tempi, nonostante la giovanissima età, lavorava già in una fabbrica di lampadari insieme a suo fratello. «Secondigliano l’ho scritta là, al lavoro. Le rime ce le avevo già in testa, non ho neanche dovuto trascriverle». L’ha creata nella sua mente, insomma, «un po’ come facevano Jay-Z e Biggie. È una cosa che ho riprovato a fare anche dopo, ma non mi è mai più riuscita. Oggi ho troppi pensieri, troppe cose che voglio dire, devo annotarle per forza».

All’inizio il brano girava via passaparola sui telefonini della gente. «Quasi nessuno sapeva che ci fossi io dietro, ma piaceva tantissimo. Quando ce ne siamo accorti, abbiamo deciso di lanciare il pezzo e da lì è cominciato tutto. Non ci aspettavamo assolutamente che facesse il botto, però. Io e Nicola ci scommettevamo su: “Vediamo se arriva a 100 mila views”. Per noi era un traguardo immenso, oggi quei numeri li facciamo su Instagram. Eravamo piccoli, non sapevamo neanche bene come gestire tutto quel successo improvviso». Perché di enorme successo si tratta: a oggi, 38 milioni di visualizzazioni solo su YouTube. Partendo dal niente.

Dopo una settimana dall’uscita di P Secondigliano, Geolier ha lasciato il lavoro e si è buttato anima e corpo nella musica, tanto è travolgente l’entusiasmo per quella traccia. All’inizio è tutto un po’ destabilizzante, per lui e per quelli che lo circondano, come la sua famiglia. «Oggi è una grande soddisfazione per tutti loro, ma anche se sanno che economicamente ho più mezzi, non cambia nulla. Mio padre ogni mattina si sveglia e va al lavoro, perché la sua mentalità è quella: non può essere suo figlio a dargli da mangiare», racconta. «I miei sono sempre stati super presenti, e mi hanno aiutato moltissimo a gestire la situazione. Quando ho iniziato a vedere i primi risultati – la fama, i soldi – avevo 18 anni, e giustamente un genitore apprensivo si mette in mezzo, perché sa che è un mare pieno di squali. Ma loro mi sono stati accanto anche facendo un passo indietro, a volte».

Nel 2019 arriva l’album di debutto, intitolato semplicemente Emanuele, «perché sono io, in tutti i modi possibili: l’Emanuele cattivo, quello che sta male, quello che fa il figo con le ragazze. Il normalissimo ragazzo di Napoli, insomma. Ci ho messo tutto me stesso, lavorandoci molto a lungo». Oggi per lui il rap non è solo una valvola di sfogo, ma «ciò che mette il pane in tavola. Ed è anche il modo migliore per capirmi e conoscermi». E per conoscere la sua Secondigliano, tristemente famosa per controversi fatti di cronaca e ritratti cinematografici impietosi. «Molta gente la guarda come se fosse il set di Gomorra. È difficile far capire com’è davvero vivere qui, perché c’è una visione distorta della realtà. Non ci sono solo pistole e criminalità, dall’area a Nord di Napoli sono usciti tantissimi artisti: Enzo Avitabile, i Co’Sang, Mario Musella… C’è un’immensa fame di arte».

Oggi che, dopo il disco di platino per Emanuele, sta lavorando all’album della consacrazione, quel famoso secondo disco che è sempre il più difficile nella carriera di un artista (cit.), ha le idee molto chiare: «Vorrei arrivare a sdoganare del tutto l’uso del napoletano nel mercato discografico. Non sono semplicemente un rapper napoletano, sono un rapper e basta», afferma. «Non penso che abbandonerò il dialetto: magari un domani farò qualche pezzo in italiano per dimostrare che lo so fare, ma c’è un altro sentimento quando scrivi nella tua lingua madre, quella in cui pensi e ragioni. Il mio cervello elabora le rime in napoletano, ed è un processo completamente diverso». D’altronde, ormai anche Sanremo accetta brani in dialetto da oltre 10 anni. «Per adesso non andrei mai al Festival. Ma magari chissà, tra dieci anni cambio idea. Il mio vero obbiettivo di vita è il Grammy Award, piuttosto: se mai lo vincerò posso anche smettere e darmi a qualcos’altro».

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