Charlie Watts: Io, il cancro e i Rolling Stones | Rolling Stone Italia
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Charlie Watts: Io, il cancro e i Rolling Stones

Per festeggiare i 78 anni del batterista degli Stones, abbiamo recuperato la nostra ultima intervista con lui realizzata nel 2005 in occasione del tour 'A Bigger Bang'

Charlie Watts: Io, il cancro e i Rolling Stones

Charlie Watts

Foto: Richard Ecclestone/Redferns/Getty

Come ti senti?
Bene. Sono stato molto fortunato, hanno preso il cancro in tempo. C’è voluto solo un sacco di lavoro per rimettere a posto i muscoli. Il personal trainer di Mick (Jagger) si prende cura di me.

Che esercizi stai facendo per rimetterti in forma?
Faccio stretching e sit-up. Hanno rimosso tutti i linfonodi (indica i punti alla gola). Appena lo fanno, i muscoli partono. Quindi fai otto settimane in terapia. Non puoi sollevare il braccio, è come essere un po’ paralizzato. Ero preoccupato, visto quello che faccio per vivere. Abbiamo un tour, e non sapevo se avrei potuto arrivare alla fine della prima canzone. Se sei un batterista, non puoi mollare una volta che sei partito. Un chitarrista può rilassarsi nel mezzo, mentre un batterista deve essere sul pezzo tutto il tempo. Non sapevo se ci sarei riuscito. Ero al cinquanta per cento della forma quando sono arrivato a Toronto. Ma è incredibile quanto il corpo sia in grado di guarire velocemente.

Hai avuto il cancro alla gola anche se hai smesso di fumare decenni fa. Ti sorprende che, dopo tutto quello che Keith ha fatto a se stesso, continui ad avere una salute di ferro?
Ha una costituzione straordinaria ed è molto severo con se stesso, anche se in maniera singolare divertente. Non ha mai esagerato con le droghe: ha sempre avuto una quantità oltre la quale non andare, che non si è mai fatto tutta in una volta. La maggior parte delle persone che lo fanno sono morte. Poteva sprofondare, e non l’ha mai fatto. Ha una grandissima voglia di vivere. È diverso da Ronnie, per lui è difficile. Ha un’energia nervosa. Finché ti parla o suona la chitarra, sta bene. Ma non può suonare tutto il giorno. E quando mette giù la strumento, sopraggiunge il desiderio di una sigaretta o di un drink.

Mick e Keith avevano iniziato a scrivere per il nuovo album quando ti è stato diagnosticato il cancro. Eri preoccupato di come la malattia avrebbe interferito con il disco e il tour?
Non pensavo affatto ai Rolling Stones. Mick mi ha chiamato alcune volte: “Devi guarire. Non preoccuparti per noi”. Mi è dispiaciuto non essere lì mentre Mick e Keith stavano scrivendo. In un certo senso, è stato un caso che fossero da soli. Per loro è stato molto divertente stare insieme.

Riesci a immaginare gli Stones senza di te?
Potrebbe succedere, se lo volessero. Se non fossi stato abbastanza bene da fare questo tour, sarebbe partito qualcun altro al mio posto – se Mick e Keith avessero deciso. Non c’è motivo per cui non dovrebbero, visto che la gente continua ad andare a vederli. Ci sono ragazzi nella nostra crew in grado di fare quello che faccio io. Mi vedono suonare ogni notte. Tipo il roadie di Buddy Rich, che era solito fare tutte le prove con la band. Credo che la vera forza sia la combinazione di noi quattro. Gli Stones sono quello. L’abilità tecnica è un’altra cosa. Come nel caso degli Who: hanno avuto alcuni bravi batteristi, ora ne hanno uno – il figlio di Ringo Starr, Zak, che è un grande, ma non è Keith Moon. Lui era una personaggio. Pete Townshend e Keith erano incredibili quando facevano i pazzi sul palco. Lo stesso valeva per John Bonham con i Led Zeppelin – era una specie di tuono. E non potevi avere Cream senza Ginger Baker.

Pensi mai alla carriera nell’arte e nel jazz che avresti potuto avere se non ti fossi unito agli Stones? Qual era la cosa più gratificante degli Stones?
All’inizio sono venute a sentirmi suonare più persone rispetto a qualsiasi altra band in cui ero stato. Gli Stones hanno sempre avuto un seguito, che fossero quattro ragazze o quattrocento. Sono rimasto impressionato anche dal fanatismo di Keith e Brian (Jones) – la loro assoluta dedizione al blues di Chicago, a Elmore James, Jimmy Reed e Chuck Berry. Si sedevano per tutta la notte, a sentire i dischi più e più volte. Brian scriveva lettere di protesta alle riviste musicali. Keith era altrettanto fanatico, anche se non scriveva lettere. La parola ‘pop’ non era molto importante nelle nostre vite fino a quando non abbiamo visto i Beatles. Non erano quello che io volevo essere. Abbiamo fatto show insieme. Sul palco non facevano molto, non si muovevano un granché. E non avevano un grande sound. Non erano Eric Clapton e Cream o Jimi Hendrix. Ma i Beatles erano un fenomeno, era incredibile come la gente li guardava. Era questo che faceva presa, più di quando John Lennon faceva “la-la-la” o Paul McCartney scuoteva la testa. L’effetto è stato sorprendente.

Ti viene ancora la pelle d’oca all’urlo del pubblico quando si alza il sipario?
È passato molto tempo da quando si è alzato (sorride). Divento ancora molto nervoso: se non fosse così, sminuirei la cosa o la darei per scontata. E non do per scontato i Rolling Stones. Vorrei potermi rilassare e godermi lo spettacolo di più, invece di pensare: “A che punto siamo?”. Keith dà sempre l’impressione di essere felice, qualunque cosa stia suonando. Non è mai preoccupato per la prossima canzone. E quelle due ore passano in un lampo. Poi pensi, “Dio, quello era il concertone di Chicago”, e tutto quello che ho fatto è stato preoccuparmi di dove finisse una canzone.

Come descriveresti la relazione tra Mick e Keith oggi? Sembrano più vicini – nelle canzoni e nelle esibizioni di A Bigger Bang.
Sono come fratelli: sempre agli opposti, ma sempre d’accordo. È meglio non mettersi in mezzo, perché si finirebbero per allearsi e tu rimarresti da solo (ride).

Ci sono stati momenti in cui erano così distanti che sentivi il bisogno di mediare, di riunirli?
Quando si allontanano troppo, pensi: “Ne ho abbastanza”. Ma la maggior parte delle volte si riavvicinano da soli. Le cose vanno molto bene al momento. Credo che sia così che hanno fatto questo disco – semplicemente. Anche quando sono tornato, è stato semplice. Per un po’ eravamo solo noi tre.

Molti fan degli Stones probabilmente non sanno che gestisci insieme a Mick il graphic design degli Stones: allestimenti, artwork, merchandise. Cosa cerchi per la vostra immagine?
Qualcosa di accattivante e – si spera – esteticamente bello, ma mai pacchiano. La lingua è un classico esempio: fosse per me inseguirei sempre la bellezza. Ma a causa della posizione straordinaria in cui ci troviamo, ci deve essere qualcosa di accattivante che prende il sopravvento. Il gusto di Mick nella musica, ad esempio, non è così fighetto come il mio: è blues e orientato all’R&B. Durante l’ultimo tour, ha parlato parecchio di Crazy in Love di Beyoncé. Lo nominava continuamente e ballava al ritmo dei brani. Visivamente, è la stessa cosa. Io opto per il colore giusto, e Mick ci aggiunge un twist tagliente. Se scelgo qualcosa di troppo rosa o chartreuse, Mick riporta tutto al rosso vivo – che io trovo orribile (ride). Non amo molto il nome di questo tour e di questo disco. Ma quello che evoca è fantastico, ed è quello che Mick mi ha venduto.

Ho sempre amato il fumetto che hai disegnato sul retro di Between the Buttons: c’è un ragazzo bifronte che da un lato si lamenta che gli Stones non sono più quelli di una volta, e dall’altro dice: “Ciao, Mick! Ho amato il tuo ultimo album”. L’ipocrisia e l’adulazione, a quanto pare, risalgono al 1967.
È divertente, ma molto spesso lo dimentichi. Beh, Keith no (sorride). Ricordo di essere stato sbattuto fuori dagli alberghi, perché avevo i capelli lunghi. Incredibile, vero? Una volta sono andato in vacanza con mia moglie a Corfù. Abbiamo fatto il check-in nell’hotel più bello e stavamo andando al piano di sopra quando il manager ci ha fermato: “Non potete”. Ed era a causa dei miei capelli. Abbiamo alloggiato in un piccolo agriturismo, che alla fine era molto meglio. Ma oggi in quell’hotel, le persone entrano dalla porta principale in tuta. E io non potevo salire le scale perché i miei capelli erano troppo lunghi di qualche centimetro.

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