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Charlie Watts è un batterista jazz: l’intervista inedita

Nel 2013 il musicista ha raccontato a Rolling Stone le sue radici jazz, cosa succede quando stai male e devi finire un concerto, l’origine dei litigi fra Mick e Keith, perché continuava a suonare. Ecco per la prima volta quella chiacchierata

Foto: Andy Sheppard/Redferns/Getty Images

Nel 2013 ho intervistato Charlie Watts dei Rolling Stones mentre la band preparava a riportare sui palchi il tour del cinquantesimo anniversario. In passato avevo parlato con Mick Jagger, Keith Richards e Ron Wood, mai con Charlie. L’idea di farlo era eccitante: da sempre desideravo chiacchierare di jazz con lui. L’ho fatto, ma quella parte dell’intervista è rimasta inedita.

Quando ho saputo che per problemi di salute il batterista non sarebbe salito sul palco con gli Stones nel prossimo tour, ho ripreso in mano il pezzo e l’ho espanso con altre dichiarazioni tratte dalla stessa intervista. Eccola, dopo la morte di Watts. Rileggendola, sorge la domanda: i Rolling Stones possono essere ancora tali senza Charlie Watts?

È chiaro che Mick Jagger e Keith Richards ne sentono la mancanza, amavano l’uomo e apprezzavano quel che il musicista ha portato per oltre mezzo secolo al sound e alla storia della band. La loro storia è piena di fantasmi, ma la perdita di Watts è particolarmente devastante. Era fondamentale per la storia, il suono, l’identità dei Rolling Stones.

Charlie Watts è un batterista jazz. Aveva poco più di 20 anni quando, nel 1963, è entrato a far parte dei Rolling Stones e aveva un sacco di dubbi su che cosa c’entrasse lui con una band che, pur definendosi blues, somigliava a un gruppo teen modello Beatles. Aveva bazzicato la scena blues londinese da cui erano emersi gli Stones e aveva suonato per Alexis Korner, ma si era sempre visto come un jazzista. Nel 1965 ha pubblicato un libro illustrato per bambini sul sassofonista bebop Charlie Parker Ode to a High Flying Bird (al grande jazzista dedicherà poi anche un disco). Come ha detto Keith Richards, i Rolling Stones sono un gruppo jazz – per lo meno dal vivo – grazie a Watts.

È stato Richards, così mi racconta il batterista, a insegnarli cos’è il rock. «Loro impazzivano per John Lee Hooker e Muddy Waters, io mettevo su Charlie Parker e Sonny Rollins. Era quel che ascoltavo all’epoca, quando entrai nel gruppo. È stato Keith a farmi ascoltare Elvis Presley, che giuro non avevo mai sentito prima. Cioè, sì, avevo sentito brani come Hound Dog, ma avevo mai prestato la giusta attenzione. È stato Keith a farmeli ascoltare per bene».

Watts ha cominciato ad ascoltare anche musicisti di New Orleans che facevano jazz, ma anche rock e r&b. «Gente come Earl Phillips, il batterista di Jimmy Reed. Suonava bene o male come un batterista jazz. Anche un altro di New Orleans, Earl Palmer, pensava a se stesso come a un jazzista e in fondo lo era».

E così ha cominciato a capire le radici comuni di jazz e rock, che a volte erano suonati dagli stessi musicisti, «cosa che a New Orleans è abbastanza normale». Ha registrato 10 dischi jazz a suo nome in una gran varietà di stili a partire da Live at Fulham Town Hall uscito nel 1986 a nome della Charlie Watts Orchestra, grande ensemble che comprendeva sette trombe, quattro tromboni, tre sassofoni alto, sei tenori, un sax baritono, un clarinetto, due vibrafoni, un pianoforte, due bassi, Jack Bruce al violoncello e tre batteristi. Ha poi inciso con formazioni di varia grandezza. Il suo lavoro più avventuroso è un tributo ai batteristi jazz fatto con Jim Keltner, uno che ha suonato con Eric Clapton, Ry Cooder, Delaney & Bonnie, Bob Dylan, George Harrison, John Lennon, Ringo Starr, Gábor Szabó, giusto per citarne qualcuno.

Ci incontriamo in un hotel di Beverly Hills. Indossa un bel completo grigio e un paio d’occhiali scuri. Accavalla le gambe e incrocia le mani all’altezza dei polsi. Gli spiego quanto ho apprezzato il Charlie Watts-Jim Keltner Project e il fatto che non abbiamo tentato di imitare i batteristi a cui rendevano omaggio, anche se nel caso di Airto Moreira ne hanno riprodotto il sound anni ’70. In un certosenso, i due hanno usato una tecnica impressionista cercando di catturare qualcosa dell’essenza dei batteristi, usando una strumentazione inusuale e all’occorrenza anche loop ed elettronica.

Sono convinto che i dischi jazz di Watts forniscano una chiave di lettura del suo ruolo negli Stones. Quando lo senti con un gruppi di 10 elementi su Watts at Scott’s, è come se i beat che ha disseminato in una vita col gruppo trovassero finalmente la giusta collocazione. Mi racconta di quando ha visto suonare Tony Williams. Gli dico che Williams ha detto una volta che ha scelto la batteria grazie a Keith Moon. «Accidenti!», dice Watts. «Non me l’aspettavo… Keith Moon era un gran personaggio. Lo adoravo. Unico. Mi manca. Era un bel tipo, ma anche…». Fa una pausa. «Ma anche difficile, ecco. In verità, non c’era un solo Keith. Ce n’erano almeno tre. Nei suoi giorni più matti ha vissuto qui a Los Angeles. Cercava di farmi mangiare formiche coperte di cioccolato. Era così, non un tipo regolare. Ma era uno buono in fin dei conti. Ci si andava d’accordo».

Scuote la testa e sorride. «Quando suonava con Pete era un gran batterista», dice, per poi aggiungere, ridendo: «Non so quanto grande fosse fuori dagli Who, però. Non so con quanta gente avrebbe potuto suonare. Non teneva il tempo in modo ordinario. Non era funky. Era un’altra roba e forse è per questo che a Tony piaceva tanto».

Molte delle cose che Watts mi dice hanno a che fare con la longevità. Gi dico che non conosco altri batteristi, per lo meno tra quelli famosi, che per mezzo secolo hanno suonato con la stessa band. Sembra sorpreso. «Tanta gente ha suonato per 50 anni, ma forse hai ragione. Quando la gente mi diceva “Ehi, siete assieme da vent’anni ormai”, rispondevo sempre: “Sì, ma Duke Ellington è andato avanti per quarant’anni”. Chiaro, non con la stessa band. Ma davvero, non so che significhi il fatto di stare con lo stesso gruppo per 50 anni».

Forse che ti piace? «Beh, sì. Amo stare nelle band. Non sono Buddy Rich. Non sono un turnista, uno di quelli che chiami e viene a suonare. Non ce la farei a suonare con gente che non conosco. Né sono così virtuoso da poterlo fare. Ci vogliono tre o quattro concerti prima che mi senta a mio agio. Molti dei batteristi che amo sono stati a lungo nelle band. Oggi non succede più tanto spesso, ma ai primi tempi dei Rolling Stones c’erano ancora tutti quegli ensemble jazz, ed erano belli famosi. Ora li abbiamo superati in longevità e non ha niente a che fare con la popolarità o la fortuna o la grandezza. È longevità, tutto qui».

Forse, ribatto, nessun batterista ha suonato tanto, e in modo così frenetico, quanto lui. «È il compito di un batterista. Prendi i concerti, chessò, di Otis Redding. Ogni tanto il cantante poteva fermarsi perché c’era un assolo di sax o qualcosa d’altro. Il batterista invece non si ferma mai. È il suo lavoro. È il motore. Ed è un guaio quando sei stanco e devi fare un sacco di concerti. Non c’è niente di peggio di rimanere senza fiato o avere le mani che ti fanno male e avere ancora un bel pezzo di concerto da fare. Per riuscirci, da giovane bevevo, ora non potrei più farlo. Voglio essere lucido e pronto a ogni evenienza. È una delle ragioni per le quali ho iniziato a fare jazz, oltre naturalmente al fatto che lo amavo: volevo tenere le mani allenate, perché magari andavamo in tour per due anni e poi per un anno non si faceva niente».

Racconti sulle tensioni fra Mick Jagger e Keith Richards non mancano. Il tour del cinquantenne è stato mai messo in dubbio? «Non da me, ma da altri sì. Sai, i due contendenti da ragazzi praticamente vivevano assieme. Cioè, vivevano in case vicine. È da lì che è nato tutto. Sono come fratelli che litigano sull’affitto da pagare. Mai intromettersi. Ma è normale quando stai assieme da 50 anni. Keith non avrebbe potuto raccontare certe cose nella sua autobiografia se non avesse conosciuto Mick tanto bene. In realtà non l’ho letta. Ma mi hanno riferito delle cose e questa è l’impressione che ne ho ricavato».

«Da parte mia, ho sempre pensato che avremmo dovuto fare qualcosa per i 50 anni – Bill Wyman mi ha detto che cadono quest’anno, non l’anno scorso. Ero per fare un concerto o qualche show, magari tre, ma ora che la cosa funzioni anche economicamente i tour degli Stones diventano colossali. Non siamo più io e Keith che ci divertiamo su un palco, anche se in realtà è proprio quella cosa lì, ma è una grande produzione e servono almeno due o tre show solo per ripagare il progetto».

«I concerti a Londra e New York sono stati buoni e ci hanno incitati ad andare avanti. Io però sono uno a cui piace sapere quando un tour finirà. Quando ha una lista infinita di date, tipo una cinquantina, ti spaventi. Ma una volta che hai cominciato, è facile farsi prendere e continuare. Come direbbe Keith, perché non facciamo qualche altro concerto? È anche logico, perché la parte peggiore, per il tuo corpo, è iniziare. Quindi andare avanti non stop è la cosa migliore. Vedremo».

E i Rolling Stones danno il meglio in tour o in studio? «Siamo una live band. Lo siamo sempre stati, anche agli inizi. I Beatles erano formidabili in studio, nella fase in cui mettevano assieme i pezzi, ma noi sul palco eravamo meglio. Facevamo davvero un macello. Sono convinto che siamo una live band migliore di tante in circolazione. Non c’è niente di meglio per il tuo ego che guidare a Santa Monica e sentire un tuo pezzo alla radio, specialmente se è del disco nuovo, ma la parte divertente avviene sul palco».

«Ecco perché preferisco il jazz e i club, perché c’è più immediatezza. E credo che tutti sarebbero d’accordo con me, tranne forse Mick, che è più orientato al songwriting. Sono certo che anche Keith ami suonare più di ogni altra cosa». Ride. «Probabilmente la gente ci guarda e ci ascolta e pensa: “Servono prove per suonare questa roba?”. Ma le facciamo, davvero, le abbiamo sempre fatte».

Ogni sera, gli dico, c’è spazio affinché avvenga qualcosa di speciale. «Ed è merito di Keith. In questo senso somiglia a un jazzista, è molto rilassato, senza regole. Può prendere qualunque direzione, tu lo segui e qualcosa di speciale accade, un po’ come nel jazz. Suonarci assieme è facile. Una volta Roy Haynes mi ha detto che con Charlie Parker dovevi essere pronto a tutto, perché sul palco pensava molto velocemente. Anche Keith è così. Non voglio dire che sia come Parker, ma il feeling è quello. Mentre suona improvvisamente prende una direzione e quando lo segui inizia il divertimento. Quando non succede, crolla tutto».

Farlo è più facile o difficile su un grande palco in un palasport? «In un posto piccolo senti meglio, ma ora la strumentazione è molto avanzata. Nei primi giorni Keith teneva il suo ampli Vox su una sedia in modo da sentirlo. Lo fa ancora, lo tiene vicino al mio charleston, affinché riesca a sentirlo anch’io. All’inizio, in quelli che chiamo il nostro periodo Beatles, con tutte quelle ragazzine urlanti non sentivi un bel niente, ma io dovevo assolutamente capire che cosa stava facendo Keith, per sapere a che punto eravamo del pezzo. Mick proprio non lo si sentiva. Ora è tutta un’altra cosa: è più sofisticato e con tutt’altro volume. Quando suoniamo in un club ci portiamo metà della roba che di solito abbiamo sul palco e comunque il volume è assurdo. Non è facile tornare a suonare in un posto piccolo dopo avere suonato su palchi enormi».

Keith Richards mi ha detto spesso che in fin dei conti è Watts la ragione per la quale suona ancora con Mick, nonché il motivo della longevità e della solidità degli Rolling Stones. Anche Jagger ha detto che non riesce a immaginare la band senza Watts. Gli Stones sono sopravvissuti all’uscita di scena di Brian Jones e Mick Taylor, e anche del bassista Bill Wyman, sono in grado di stare separati per anni, ma hanno difficoltà a immaginarsi senza Watts. Il sentimento è reciproco: «Sono gli unici con cui mi va di suonare rock’n’roll», dice Watts.

Questo per dire che quando i membri dei Rolling Stones salgono sul palco per suonare sono un concentrato di storia, talento musicale, personalità, dolore, perdita, gioia, audacia, cambiamento e, cosa fondamentale, vera amicizia.

La longevità è diventata una caratteristica fondamentale della storia del gruppo tanto quanto le radici blues, la notorietà e il ribellismo che li hanno resi famosi in principio. Longevità che ovviamente ha un prezzo: ci sono stati momenti in cui le fratture interne al gruppo sembravano irreparabili. Loro però lo sanno che c’è una chimica speciale che li unisce, un mistero collettivo che trascende i talenti e le reputazioni dei singoli.

Detto questo, nessuno dei tre membri originali, vale a dire Watts, Jagger e Richards, sembra avere una buona spiegazione del perché la loro leggenda è durata tanto a lungo e in modo così potente. Sanno che sarà tale finché resteranno assieme, specialmente davanti a un pubblico.

«Siamo tanto, ma tanto fortunati», dice Watts. «Ho sempre pensato che alla gente piacesse la combinazione di caratteri. La gente veniva a vedere Mick, Keith, Brian e Bill. Prima erano 100, poi 200, poi molti di più. Alla gente piace vedere Mick e Keith all’opera. Non so perché, ma è così. Cioè, so quant’è bravo Keith e so che Mick è il migliore frontman vivente ora che James Brown e Michael Jackson non ci sono più. E prende la cosa maledettamente sul serio. Ha tutto, anche l’aspetto fisico. Ma la gente non viene per me. Voglio dire, ci sono più persone fuori dal locale in cui i Rolling Stones fanno le prove, nella speranza di origliare qualcosa, di quelle che vengono a vedere me in concerto in un club. Ma non chiedermi il motivo».

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.

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