Lontani sono i tempi in cui incontravi in giro Paolo Alberto Monachetti, alias Charlie Charles, nel momento della sua esplosione come Re Mida della trap nostrana in quanto a produzioni, e sì, facevi veramente fatica a levargli più di quattro o cinque parole di bocca mediamente cortesi e ti faceva chiaramente capire che non era interessato a fare conversazione. Ma sono anche lontani i tempi di quel Charlie Charles tout court: l’album solista con cui è uscito in queste settimane, dopo – come ci racconta – lunghi momenti di crisi e di ripensamenti non è esattamente il classico producer album da maghetto della trap che lucra sul suo status.
Sì, come da prassi e come da manuale ne La bella confusione, questo il titolo, ci sono gli ospiti di peso (Sfera Ebbasta, Ernia, Mahmood, Madame, Elisa, Bresh, Nayt, Massimo Pericolo), ma il risultato in realtà è diverso da quello che ci si potrebbe aspettare. Un risultato imperfetto, come abbiamo scritto recensendolo. Ma anche interessante. E che disegna un essere umano in evoluzione: che non risparmia di mettersi alla prova come artista, ma pure che ha messo su una bella scorza di saggezza e anche ironia come persona. Doti, queste ultime, che nel magico mondo della musica italiana di taglio urban da sempre mancano sinistramente, almeno quando ci si ha a che fare da un punto di vista giornalistico: perché è un mondo dove spesso incontri artisti che parlano malvolentieri e, soprattutto, grazie ai pressanti consigli di chi ruota loro attorno, preferiscono comunicare attraverso i loro profili Instagram con discorsetti asettici, stucchevoli e pre-confezionati. Nulla di tutto questo è successo parlando con Paolo Alberto Monachetti. Se questa sua confusione è bella, beh, lo lasciamo giudicare a chi il suo album lo ascolta; ma di sicuro è oggettivamente interessante, a tutto tondo. E confrontarsi con essa è piacevolissimo, come abbiamo scoperto passando un’oretta assieme a lui negli uffici della Island a Milano.
Oh, ma sai che ti vedo super rilassato?
Vorrei morire in realtà. Ma sono serenissimo (ride).
Guarda, la prima volta che ci siamo fatti una chiacchierata assieme – anche se c’era uno schermo di mezzo, non era di persona – era stato due anni fa: e tu, a dirla tutta, eri in una fase un po’ così. Però la chiacchierata in sé era stata molto bella.
Oh, sai che avevo proprio detto arrivando qui alla mia ufficio stampa: «Devo fare Rolling, come intervista? Speriamo mi mandino quello dell’altra volta, mi ero trovato bene».
Ed eccomi qua; poi appunto, mi ero trovato bene pure io. Anche perché in quella intervista lì ti eri aperto molto. In modo anche non scontato. Non potevo che apprezzarlo, non eri tenuto a farlo. Però davvero: ora hai proprio un’altra faccia. Molto più distesa.
Parlare con te così apertamente quella volta lì mi aveva fatto bene, sai? Mi ero proprio tolto un peso. Anche perché, ora te lo posso dire chiaramente, in quel momento lì, mentre ti stavo parlando, io l’idea di fare un album l’avevo quasi abbandonata. Sai perché? Perché volerlo fare, questo album, mi stava facendo del male. In quel momento mi stava facendo del male.
Troppe aspettative?
Non quelle del pubblico: di quelle non me ne è mai importato. Credo che l’album così come è venuto fuori lo dimostri.
Beh, per certi versi sì.
Ci ho messo tempo, a un certo punto appunto avevo il dubbio di potercela fare o meno, ma alla fine ci sono riuscito. Era questione di sentirsi libero di essere me stesso, facendo la musica che avevo voglia di fare, senza preoccuparmi più di trovare qualche legame col passato. Arrivarci non è stato semplice. È stato complesso. Devi lavorare prima di tutto su te come persona, non è solo questione di scelte musicali.
Allora guarda, gioco a carte scoperte: a un certo punto, dopo aver scritto la recensione di La bella confusione per Rolling, proprio dalla redazione mi è arrivata qualche giorno dopo una mail che aveva scritto nel subject semplicemente “Charlie Charles”. Ora, io non so se tu questa mia recensione l’hai letta, o magari l’hai letta ma te la sei dimenticata subito, non è questo il punto… Il punto è che il mio primo pensiero è stato: ecco, Charlie sarà rimasto seccato dalla recensione e avrà chiesto ad etichetta o ufficio stampa di intervenire, di chiedere delle modifiche. E io già mi ero preparato in testa il discorso da fare: che quella recensione non era negativa, che raccontavo di un disco sì “sanremese” ma almeno in questo caso non era da intendersi come un insulto, che in realtà apprezzavo la tua onestà e la tua umiltà di volerti cimentare con un tipo di scrittura che fosse da canzone, qualcosa che in passato non avevi fatto.
Guarda che l’ho letta bene, quella recensione.
E?
E l’ho capita benissimo. Hai scritto che La bella confusione è un disco imperfetto: beh, hai ragione. Lo è.
Toh. Sei un raro caso di artista non permaloso.
È un disco assolutamente imperfetto. Basta un po’ di umiltà e, come dire?, umanità per capirlo e ammetterlo. Non sono mica divino, io: non vedo per quale motivo non dovrei accettare il fatto di aver fatto un disco imperfetto.
Oh, che bello sentire un discorso del genere.
Andando più nello specifico, per spiegare bene le cose dovremmo tornare un po’ indietro nel tempo.
Beh, siamo qui per questo. Vai.
Tutto nasce nel 2019.
Eh, sei anni fa. Sei andato indietro tanto.
Sì. Era un periodo per me di successi enormi. Probabilmente, l’apice della mia carriera: dischi di platino, i brani a Sanremo, il frutto del lavoro con Sfera, eccetera eccetera… Però mi ero reso conto che tutte quelle robe lì finivano con l’essere tossiche, per me.
Tossiche?
Non mi davano nulla. Semmai, mi prendevano, mi toglievano. Mi prosciugavano, ecco. Ok, non sul piano finanziario, ovvio, ma sul piano umano eccome. In quel momento mi sono reso conto che Charlie Charles, lì fuori nel mondo, non ero io, io per quello che sono, ma ero semmai io per quello che avevo fatto per Ghali, per Sfera, per Mahmood. Quello che di me veniva fuori non era quello che sono davvero nella mia complessità, ma quello che facevo io al servizio di altri. Come era giusto che fosse, sia chiaro: non mi sto lamentando di questo.
Ok.
Se a questo aggiungi il fatto che in quella fase della mia vita comunicavo pochissimo, stavo per lo più zitto, per i fatti miei, allora il quadro è completo. La gente mi beccava in giro e si aspettava di vedere in me l’immaginario di Sfera, o quello di Ghali, o quello di altri per cui avevo fatto le produzioni: questo mi ha fatto andare a un certo punto in crisi. Io non posso essere loro. Io non sono loro. Quindi se La bella confusione è come è, non è perché a un certo punto mi sono detto freddamente: qui devo dedicarmi più alla forma canzone, qui devo usare più la chitarra, qui invece la melodia la sistemo in questo caso. No. Le cose sono partite in un altro modo. Molto più traumatico e, se vuoi, confuso. Sai da cosa è partito tutto?
Da cosa?
Dal vuoto. Dal panico. Dalla voglia di tirarmi fuori da qualsiasi cosa, per risolvere questo equivoco che mi circondava. Anche perché mi sentivo un incapace. Un inetto. A furia di farmi prendere dal panico, continuavo a fermarmi, a tornare al punto di partenza… Pensi che quando ho iniziato a lavorare a La bella confusione sapevo come sarebbe venuto fuori? No. Zero. Anche perché mi sono fermato e ho ricominciato da capo più volte: appunto, il panico che ti dicevo, la responsabilità che mi buttavo addosso io, per la possibilità di essere finalmente me stesso… Non ero abituato a reggerla. E tu dirai: ma sei scemo? Come hai fatto a ridurti così? Perché sei arrivato a questo punto?
Mi hai anticipato, effettivamente stavo per dirtelo.
Immaginati me quando ho iniziato a 14 anni. Uno che fa musica col computer, muovendo un mouse. Gli unici strumenti che per anni ho usato erano quelli virtuali digitali, cazzo. Capisci che a un certo punto per me usare un pianoforte o una chitarra veri diventava la cosa più dirompente e avanguardistica? Per altri, no. Per te, no. Per me invece sì.
Ci sta.
Prendere un quartetto d’archi per risuonare un mio arrangiamento.
Molto più forte che usare un plug-in, avere un vero quartetto d’archi da gestire…
Lo dico sempre: non mi sono mai divertito così tanto, da un certo punto in poi, a fare musica come con questo album. La mia salvezza è stato accettare la mia curiosità. Perché a un certo punto ho pensato: ma io di questa roba voglio saperne di più, di come si fa la musica in un modo che non ho mai fatto finora. Mi ero fatto imprigionare da una dimensione in cui comunque stavo stretto. In cui non volevo stare, o che comunque da un certo punto in poi mi limitava. Il che però, attenzione, non significa che io ora non voglia fare più trap: non provate a mettermi in bocca questa cosa. Se domani mi prende bene e trovo una chiave che mi soddisfi, io sono felicissimo di tornare a fare cose puramente trap.
Ti credo sulla parola.
È che ora fare solo quella cosa lì non mi diverte, non mi stimola.
Una cosa che mi ha abbastanza impressionato del disco è che usi sì come ospiti persone di quello che è stato il tuo mondo, il tuo ambito, i soliti noti insomma, ma tutti sono in qualche modo molto attenti a entrare nel mood dell’album. Hai dovuto confrontarti molto con loro per arrivare a questo?
Sì e no. Diciamo che l’unico paletto che ho messo a tutti è che quello che finiva nell’album doveva essere vero, sincero, sentito. Questo significa che le persone che ho chiamato a darmi un contributo dovevano essere, in qualche modo, simili a me. Dovevano raccontare le loro storie, essere sinceri, essere loro stessi, ma le loro storie potevano e dovevano essere sovrapponibili anche alle mie.
Ci sta.
Questo però mi ha obbligato a fare una grossa cernita, rispetto agli ospiti che potevo coinvolgere.
Che poi erano praticamente tutti, visto che hai fatto cose un po’ per tutti, e a tutti potevi chiedere un favorino.
Esatto. E invece ho dovuto scegliere. Ho voluto scegliere. Qualcuno che volevo alla fine nel disco non c’è, com’è inevitabile che sia: oggi è un casino armonizzare le agende. Ma chi è stato coinvolto si è dovuto sentire prima di tutto la mia spiegazione su cosa rappresenta per me il concetto di confusione. Sai qual è la cosa divertente? C’è chi si è beccato la spiegazione nel 2021, chi un anno dopo, chi direttamente in questo 2025, e ovviamente io col tempo questa mia spiegazione l’ho cambiata, non è che era sempre uguale, andando avanti nel tempo ho messo molto meglio a fuoco certe cose e tralasciato altre. Ma cazzo, è anche questa è la magia di questo disco, sai? Cose pensate nel 2021 poi hanno trovato un contesto forse migliore nel 2025…
Ma quanto indirizzavi tu gli argomenti da trattare?
Nulla. Io spiegavo cosa sentivo io, cosa provavo io. Ma non ho mai detto a nessuno: «Bene, adesso tu scrivi di questo o quell’argomento, perché devi fare così, perché è il mio disco». Mai. Non ce n’è mai stato bisogno. Parlavamo, ci confrontavamo. Poi lasciavo a tutti la libertà di scrivere quello che volessero. Nayt ad esempio è stato eccezionale, in questo. Senza che io gli dicessi nulla in tal senso, ha scritto esattamente ciò di cui mi sarebbe piaciuto scrivesse.
Ti faccio però una domanda scomoda: ma con tutti questi colleghi/amici a disposizione e con cui hai fatto cose importanti negli anni, com’è possibile che a un certo punto tu sia andato in crisi? Cioè, non erano lì pronti ad aiutarti?
I rapporti sono ottimi con tutti, ma quello degli amici veri è un gruppo molto ristretto. Non sto recriminando: non mi sono mai sentito tradito o abbandonato dalle persone con cui ho collaborato negli anni. Non avrebbero potuto fare nulla comunque. Perché io sono uno che, quando si prende male, è un po’ masochista. O comunque sono uno che certe cose le vuole affrontare da solo: voglio averci a che fare io, non chiedo e non voglio l’aiuto di altri, devo risolverle prima di tutto io.

Foto: Enea Colombi
Hai mai avuto la tentazione di eliminare Charlie Charles e di iniziare a fare musica con un altro nome, un’altra identità artistica? Sarebbe stato volendo più semplice.
Ovvio. Banalmente, anche La bella confusione sarebbe potuto uscire così, magari col mio nome vero, Paolo Monachetti, che quasi nessuno collega a Charlie Charles… Però poi mi sono detto: ho qualcosa da nascondere? No. Mi andava di fare un disco diverso, con un certo tipo di scrittura più legato alla canzone, con strumenti veri dentro? Bene, posso farlo, lo faccio! Non c’è nulla e nessuno che me lo possa impedire. E mi sta bene, in questo momento, che tutto questo sia legato a Charlie Charles. Che poi, le cose sono in continua evoluzione: già oggi Charlie Charles è qualcosa di diverso rispetto a quello che ha fatto La bella confusione. E va benissimo così.
Chi è oggi Charlie Charles?
Un padre.
Sì?
Non ancora, in realtà, ma lo sto per diventare. Ma sento già mio questo ruolo. Sento già che la paternità è una cosa in cui mi voglio immergere, a cui voglio prestare molta attenzione: è un tipo di amore che ho bisogno di dare, e sicuramente mi porterà via molto tempo.
Cambiando anche la tua musica?
Ormai dovresti aver capito che quella è destinata a cambiare sempre. Già in La bella confusione la trap non c’è. E lo so che per molti io invece sono indissolubilmente legato a quella roba lì, con tutto quello che ha fatto per l’ondata del 2016 e le hit che da lì sono state generate. Ma se mi vedete solo come il king della trap, beh, mi dispiace: perché io sono molto di più di quella roba lì. Cioè, vi perdete qualcosa a vedermi solo in un modo. Detto questo, io capisco che per chi ascolta, per chi segue la musica un cambiamento possa essere traumatico. Tu vuoi da un artista un certo tipo di suono, di scelte, di attitudine, e improvvisamente vedi che questo artista non te le dà più. Capisco che ti possa irritare, che per te possa essere disturbante. Sai quante cose incazzate mi hanno scritto, dopo aver sentito il disco? Ma io non mi sento di giudicare chi si è preso male. Al tempo stesso, ho anche ricevuto dei feedback bellissimi, di appoggio o che in generale mi hanno fatto riflettere molto. È questo il bello della musica, no? Che smuova le coscienze. Può essere rabbia, può essere rifiuto, può essere sostegno, può essere curiosità, ma almeno smuove qualcosa di forte. E quando vedo tutto ciò, mi ricordo del perché faccio musica.
E a proposito del fare musica, porterai in giro dal vivo La bella confusione?
No.
Risposta bella secca.
Assolutamente.
Pensa a quanti soldi stai rinunciando, non portandolo in giro dal vivo…
Pensa a quanti ne ho già fatti negli anni passati (scoppia a ridere, nda)… No, scherzi a parte, penso non ci siano le condizioni. Dovrei portare in giro per tutte le date tutti gli ospiti dell’album, e non è possibile. Poi che faccio, un concerto di 32 minuti? Perché quella è la durata dell’album.
Allunga il brodo, mettendo in ogni brano almeno due o tre assoli lunghissimi.
Ma guarda, potrei anche farlo, perché no? Io posso fare tutto, ho la massima libertà. Ma sai qual è il punto? A breve nasce mio figlio: di tutto il resto, non me ne frega niente.












