Caterina Barbieri: «La mia musica è un portale nello spazio-tempo» | Rolling Stone Italia
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Caterina Barbieri: «La mia musica è un portale nello spazio-tempo»

'Spirit Exit', l'album della compositrice bolognese che uscirà domani, nasce come reazione alla costrizione dei lockdown, tra ordine e caos, sotto la guida di tre figure mistiche

Caterina Barbieri: «La mia musica è un portale nello spazio-tempo»

Caterina Barbieri

Foto: Furmaan Ahmed

Caterina Barbieri è una delle artiste italiane di musica elettronica più amate e apprezzate all’estero. Ammirata da pubblico e addetti ai lavori, ha creato attorno a sé un entusiasmo senza geografie, in particolare grazie al successo del disco Ecstatic Computation, trascinato dal monolitico brano Fantas.

La sua figura aliena emana una sorta di implacabile magnetismo e a guardarla sul palco viene istintivo domandarsi se quella figura sia reale o un qualche ologramma ultra-tecnologico, una simulazione di una forma di intelligenza superiore che si diverte a registrare le nostre reazioni allibite. O forse quello che ci viene consegnato è solamente una visione magica dovuta alla stato di trance in cui la ripetitività ossessiva delle sue composizioni ci proietta, in un corto circuito elettrico di micro-cavetti che entrano ed escono dai pertugi del suo glorioso sintetizzatore modulare.

Quando la chiamo per farmi raccontare del suo ultimo lavoro, Spirit Exit, la prima pubblicazione ufficiale per la sua neonata etichetta Light-Years, sono su una piccola isola su cui un vulcano sbuffa baffi di fumo, giusto per aggiungere un’altra componente al limite del sovrannaturale sul piatto di questa conversazione. Ho sempre pensato che quel distante cyborg dai lineamenti tratteggiati da Hideaki Anno che tante volte ho visto dal vivo fosse silenzioso, quasi privo di parola, ma dall’altro capo del telefono trovo una persona umanissima, calorosa, disposta al dialogo. Un’altra visione completamente inaspettata.

A che punto della tua ricerca sonora e della tua carriera si posiziona Spirit Exit?
Spirit Exit è un’evoluzione che ha le proprie radici nei miei lavori precedenti ma si espande in maniera organica in un universo sonico più generoso dove ad affiancare il mio strumento, il modulare, si trova l’aggiunta timbrica di voce, chitarra, pianoforte. Con Ecstatic Computation mi sono sentita di essere arrivata un po’ al limite della mia pratica strumentale e quando padroneggi uno strumento rischi di poterti annoiare; le cose migliori nascono quando non c’è un controllo eccessivo.

Qual è la genesi di questo lavoro?
Il disco è stato scritto durante la pandemia, nei primi mesi del lockdown, quando ho potuto dedicarmi in maniera quasi ascetica al suonare dopo anni di dispersione centrifuga tra concerti e lavori in giro per il mondo. Da un lato è stato bellissimo potermi dedicare in maniera così totalizzante alla musica, dall’altra era una condizione di costrizione, di deprivazione sensoriale estrema. Questa musica nasce da questo stato di privazione e impossibilità di accedere alla vita reale. In quel periodo la musica è diventata un portale per trascendere questa costrizione fisica, un modo di viaggiare nel tempo e nello spazio in un momento in cui non era possibile. La musica per me è sempre una salvezza, un modo di analizzare e trasformare delle sensazioni difficili, tristi, complicate in qualcos’altro.

Le tue composizioni mi raccontano di luoghi giganteschi, di spazi immensi, in totale contrapposizione allo stato di costrizione di cui mi parli.
Nella mia musica c’è un certo desiderio di espansione, una ricerca di un altrove, una tensione cosmica, e cosmogonica, di creare un mondo in cui il punto di partenza è una vita costretta. Nella pandemia era un fatto oggettivo, ma in senso metaforico si può parlare anche di uno spazio di costrizione psicologica che la musica può fuggire.

È anche cambiato il tuo modo di comporre in questa pandemia?
Questo disco si differenzia molto dai precedenti perché è la prima volta che compongo un disco in studio. Finora i miei lavori nascevano mentre viaggiavo e suonavo. Erano dischi che vedevano la propria genesi in connessione con la fisicità della performance e nello scambio con il pubblico. In pratica scrivevo dei pattern sul mio sequencer, li provavo e li testavo durante i live e pian piano si cristallizzava la forma definitiva del pezzo in questa dinamica di scambio con il mondo esterno, con la fisicità della performance, dello spazio fisico, della venue, del feedback delle persone.

Tu sei un’esperta di sistemi modulari, una tecnologia che incorpora di per sé una certa imprevedibilità e che, anche nelle migliori delle ipotesi, si pone come una scatola nera con cui ci si relaziona. In quest’epoca di polarizzazioni tra tecno-futurismi e futuro-fobia, qual è il tuo rapporto con la macchina?
Ho un rapporto molto fisico con i modulari ed è proprio questa gestualità coreografica necessaria a suonarli ad affascinarmi. Il modulare è un’estensione del mio corpo, in particolare durante la performance. È una pratica tattile in relazione a sistemi molto sensibili in cui ogni minima variazione comporta un cambiamento di suono. Ciò che mi affascina è che sono delle macchine dove molto succede in modo caotico e al di là del tuo controllo. C’è un grande elemento di imprevedibilità ed è molto difficile dominarle completamente. Questo a livello creativo è molto stimolante ed è come la vita; ci si danna per controllarla, ma è troppo bella per essere dominata. Bisogna essere aperti per potersela davvero godere. E anche con questi strumenti bisogna aprirsi alla possibilità del caos.

In un mondo di tecnologia predisposta per l’umano, i modulari sono una sorta di macchina senziente che reclama una propria indipendenza.
Sì, è vero, e noi siamo poco abituati a questo lato della tecnologia. Ci siamo abituati a una tecnologia efficiente, funzionale, senza attrito. Pensiamo ad esempio alla conformazione degli smartphone. L’etimologia della parola oggetto viene dal latino obicere e significa opporre resistenza. Il modulare è proprio questo, un’entità che ti oppone una resistenza, che non puoi completamente dominare. Questo riporta tantissima magia all’interno della tecnologia. Quando accendi i modulari, accendi una macchina che ha bisogno di una serie di operazioni per funzionare, una gestualità che crea una ritualità magica che abbiamo perso nel nostro rapporto della tecnologia, totalmente svuotata dalla natura esoterica. Ho un rapporto non solo fisico con i modulari, ma anche spirituale. Per me diventano degli oracoli, delle entità a cui far delle domande e ricevere delle risposte.

La tua musica è una ricerca sulla melodia e le sue possibili mutazioni. Quali sono le origini e le motivazioni di questa ricerca? Cosa ti ha portato ad indagare questo lato del suono e della composizione?
La melodia per me è un’ossessione. Nella vita sono tendenzialmente ossessiva e forse questa tendenza psicologia mi ha spinto in questa ricerca. La melodia è un enigma, un dilemma, un nodo da scegliere. Scriverne una bella è molto difficile. Passo molto tempo a cercarne una che trascini, che ipnotizzi, e perché succeda deve avere una dose di prevedibilità per l’ascoltatore, ma anche una piccola dose di caos per stimolare e non annoiare. È una tensione magnetica tra due poli di ordine e caos, una ferita che dialoga tra questi elementi. La melodia è quel miracolo che nasce dal viversi in maniera armoniosa questi due aspetti della vita. Io personalmente ne ho un rapporto materno perché ogni melodia è una genesi, un mondo nuovo, una moltiplicazione di significati.

Un altro concetto portante del tuo lavoro è la ripetizione.
Anche la ripetizione è fondamentale ed è legata all’idea di indurre uno stato di trance attraverso l’uso di elementi ricorsivi e ripetitivi creando una temporalità che diventa una sorta di stato fisico e mentale.

Nel tuo comunicato stampa vengono citate tre donne, tre pensatrici, artiste, mistiche. Come hanno influito queste figure nel tuo lavoro?
La mia musica è molto istintiva e parte sempre da un livello esperienziale del suono su cui attorno costruisco una mappa concettuale. La mia mappa concettuale questa volta ha coinvolto Santa Teresa D’Avila, mistica spagnola medievale, Emily Dickinson, poetessa americana, e Rosi Braidotti, filosofa dei nostri tempi. Ho riflettuto su come spesso queste donne abbiano avuto vite molto segregate. Scrivevano e concepivano i loro mondi in stati di grande repressione. Non potendo liberamente muoversi nel mondo esterno, riuscivano a indirizzare le loro energie nel mondo interiore e coltivare questo pensiero visionario e costruire castelli interiori proprio a causa di questa frizione, di quest’attrito con il mondo esterno. In pandemia mi sono sentita in una situazione molto simile.

Foto: Furmaan Ahmed

Qui su Rolling abbiamo spesso raccontato dei tuoi live. Che rapporto hai con la performance?
Nel momento della performance la musica si manifesta sempre in maniera differente. Per questo la genesi della musica in tempo reale – come ti dicevo – è sempre stata importante per me. D’altro canto registrare dischi è sempre stato traumatico e molto doloroso proprio perché per me la musica è un organismo vivente e mettere definitivamente un brano su disco significa dover scegliere una sola sua versione e abbandonare il legame che hai con tutte le altre possibilità. Rimane una sola delle versioni possibili, una versione di per sé morta.

Prima parlavi della tua musica come di una forza cosmogonica e a veder l’apparato visuale dei tuoi lavori mi pare che l’idea sia proprio quella di costruire una natura, una iper-natura, talmente vera da diventare irreale, una contrapposizione alla macchina o, forse, una simulazione della macchina. Mi ricorda in un certo modo la fantascienza new weird di scrittori come Jeff VanderMeer.
Sì, nella mia estetica c’è un elemento fantascientifico di una natura, come dicevi, di un’iper-natura in cui il sublime del paesaggio contrasta con quella sensazione di distopia e cupezza intrinseca nello sguardo che la macchina ha sulla natura. Ruben Spini, che cura la mia parte visiva, lavora con footage di camere di sorveglianza o di osservazione che spesso, per il loro posizionamento, distorcono le immagini in maniera quasi irreale. Nella nostra società turbo-capitalista è molto difficile avere esperienze di connessione con la natura e credo che la musica sia un portare per esprimere quelle sue emozioni ineffabili e bellissime.

Come ultima domanda, toglimi una curiosità. Tra i vari lockdown tu, Lorenzo Senni e Jim C. Nedd avete lanciato una band, i Forse Ora, esibendosi con una prova aperta all’interno di un evento di C2C Festival. Che fine ha fatto quel progetto? Verrà mai pubblicato qualcosa?
I Forse Ora sono una band nata durata la pandemia. Era da un po’ che parlavamo di fare qualcosa assieme e durante la pandemia ci sono state le condizioni per farlo. Abbiamo avuto l’occasione di presentare una primissima versione dei nostri lavori in un evento di C2C Festival che successivamente abbiamo sviluppato in una residenza a Milano. Ora siamo in fase di finalizzazione dei pezzi. Con la ripresa dei live post-pandemia è diventato un po’ tutto più complesso, abbiamo calendari molto pieni, ma speriamo di poter riuscire a concretizzare e suonare presto dal vivo assieme.

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