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Cat Power: «Riprendiamoci le canzoni, sono nostre, non delle case discografiche»

Non sottovalutate chi interpreta i pezzi altrui, dice Chan Marshall, che venerdì pubblicherà l'album 'Covers'. «Ci ricordano che le canzoni sono opere da tramandare, non semplici prodotti di consumo»

Foto: Mario Sorrenti

Ha sempre avuto un debole per le cover, Cat Power. Specie in tempi di restrizioni pandemiche, non stupisce che la songwriter di Atlanta si sia buttata sulla rivisitazione di alcune delle sue canzoni preferite, arrivando ad assemblare l’album Covers, in uscita il 14 gennaio, il suo terzo in fatto di riletture musicali dopo Jukebox del 2008 e The Covers Record, del 2000. Ed è brava, Chan Marshall, a fare propri pezzi di altri, a personalizzarli, a destrutturarli, decomporli e ricomporli, a sviscerarli fino a catturarne il cuore e farlo battere a ritmo con il proprio.

Lo ha fatto in passato con capolavori come I Found a Reason dei Velvet Underground e Paths of Victory di Bob Dylan. Lo rifà oggi, nella sua seconda pubblicazione Domino dopo il divorzio dalla Matador, frugando tra i suoi ricordi più intimi per regalarci nuove versioni, intime e sensuali, di I’ll Be Seeing You, canzone amata dalla nonna nella versione di Billie Holiday, di Endless Sea di Iggy Pop, scoperta da Chan guardando il film del 1986 con Michael Hutchence Dogs in Space quando era una giovane squattrinata in quel di New York, di Here Comes a Regular dei Replacements, tra i pezzi che da ragazza selezionava più di frequente al jukebox. Nella tracklist anche A Pair of Brown Eyes dei Pogues, A White Mustang della collega e amica Lana Del Rey (con cui ha duettato in Woman nel 2018), I Had a Dream Joe di Nick Cave and The Bad Seeds, Bad Religion”di Frank Ocean, brani che Cat Power riporta a galla con quell’atteggiamento da eterna adolescente inquieta che non può fare a meno di scavare nella vulnerabilità umana e con arrangiamenti che rispecchiano il suo percorso di indie rocker cresciuta nel solco dei Sonic Youth e in grado, poi, di misurarsi con il soul, il blues, le sfumature del jazz. Ma dietro a Covers non c’è solo questo, spiega al telefono: «Si tratta di uno scambio culturale».

Scambio culturale in che senso?
Sin da ragazzina ho sempre provato un grande affetto per le canzoni ascoltate e cantate per la prima volta con i genitori e con i nonni, e via via mi sono legata ad altri brani diventati per me significativi. In fondo amare delle canzoni, ritrovarsi a cantarle e condividerle coi propri figli e nipoti è un rituale che fa parte della nostra esperienza di esseri umani e nel mio caso è anche qualcosa che ha nutrito la mia esperienza di cantautrice: mi viene naturale interpretare pezzi scritti da altri, è come mettere in moto uno scambio di conoscenze. Nella musica classica qualcosa del genere è sempre avvenuto con l’esecuzione, da parte dei più svariati interpreti, di composizioni mai registrate dagli autori. È così che le tradizioni musicali si tramandano da una generazione all’altra. Lo si è fatto anche con il blues, il country, il punk. Purtroppo con l’avvento di MTV le cose sono cambiate.

Perché dici questo, a cosa ti riferisci?
Al fatto che MTV ha messo da parte questo tipo di atteggiamento per favorire un’altra tradizione ancora attuale, quella delle hit pop da classifica. A un certo punto le grandi etichette discografiche si sono rese conto che potevano fatturare centinaia di milioni di dollari all’anno puntando su pochi successi di pochi artisti, gente come Michael Jackson, Madonna, Prince. Da quel momento le canzoni hanno cessato di essere opere da tramandare e sono diventate prodotti di consumo. Il che vale ancora di più oggi, nell’epoca digitale che stiamo vivendo: si pensa unicamente a quale sarà il prossimo successo, nell’industria discografica si è perso il valore della cultura musicale. E lo so, i tempi cambiano, ma siamo sicuri che tutti i cambiamenti siano necessari?

Quindi pensi che le cover possano essere uno strumento per costruire una cultura musicale intergenerazionale?
Assolutamente, è così.

Questo significa che pensi che le tue riletture possano giungere anche a un pubblico giovane.
Bisogna essere ottimisti e del resto noi donne siamo abituate a dare molto indipendentemente da quel che otterremo, no? È la società che ci ha allenate a questo, ad avere speranza, a essere coraggiose, a sfidare di continuo noi stesse. È così che nel tempo abbiamo migliorato le nostra condizione.

Hai dedicato I’ll Be Seeing You a Philippe Zdar dei Cassius, morto nel 2019 a 52 anni, al tuo fianco in Sun.
Sì, perché quella canzone mi ricorda lui e talvolta le canzoni possono diventare un mezzo per tenersi in contatto con chi non c’è più, il che mi dà conforto. Tra l’altro Billie Holiday, che cantò I’ll Be Seeing You negli anni ’40, è un ottimo esempio di ciò di cui parlavamo prima, visto che molti brani sono stati scoperti grazie alle sue interpretazioni per poi essere ripresi da altri, così come io in Jukebox ho rivisitato un pezzo che lei scrisse con Arthur Herzog Jr., Don’t Explain, partendo, però, da una cover, quella di Nikki Sudden e Rowland S. Howard. Quello che sto cercando di dire è che le canzoni appartengono all’umanità, non alle case discografiche.

Tra le tracce di questo nuovo album c’è anche la tua Hate, da The Greatest del 2006, in cui evocando Kurt Cobain cantavi “I hate myself and I want to die”. L’hai reintitolata Unhate, come mai?
È una canzone che ho scritto in un brutto periodo e mi ha sempre messo ansia, volevo e dovevo rimediare. Ho iniziato a pensarci quando ho scoperto di essere incinta (è diventata mamma nel 2015, nda), a quel punto c’era un’anima che cresceva dentro di me, nella mia pancia, non potevo più esimermi dal confronto con quel brano che ho poi tramutato in Unhate per non guardarmi più indietro, per dire a me stessa che il dolore si può sempre superare, per dare speranza. Oggi si parla di più di salute mentale, quando ero giovane e stavo male non sapevo a chi rivolgermi.

Capisco cosa intendi, benché l’espressione “salute mentale” non mi sia mai piaciuta.
Forse perché si dovrebbe parlare maggiormente di come quella salute dipenda dal fatto che sin da piccoli siamo scaraventati in un mondo fatto di costrutti sociali che ci condizionano.

Già. Ma torniamo al disco: sono contenta tu abbia rifatto Pa Pa Power dei Dead Man’s Bones, la band di Ryan Gosling; il loro album del 2009, purtroppo l’unico, è bellissimo.
Ho scoperto quella canzone ai tempi di Sun, verso il 2012; ricordo che chiesi a Zach Shields, co-fondatore dei Dead Man’s Bones, se volevano aprire il mio tour, ma mi disse che Ryan era troppo preso dagli impegni cinematografici, così non se ne fece niente. In compenso incominciai a suonarmi Pa Pa Power per i fatti miei, per poi proporla durante il tour di Wanderer (l’album di inediti più recente di Cat Power, del 2018, nda).

Hai dichiarato di seguire, nella realizzazione delle tue raccolte di di cover, un approccio elementare, non tecnico, né accademico: che cosa intendi?
Che non mi interessa tanto imparare gli accordi di una canzone, quanto esprimere il più possibile le sensazioni che quella canzone mi trasmette, le emozioni che mi fa provare, ed è una cosa che riesco a ottenere solo stando sempre sul limite dell’improvvisazione. Ho scelto di non essere ignorante, come musicista, ho anche studiato jazz, ma al tempo stesso per me la musica è immediatezza, vibrazioni.

In tutto ciò per Covers hai utilizzato lo stesso effetto tipo Auto-Tune sulla voce cui eri ricorsa per la prima volta in Sun, tuo disco di 10 anni fa.
Perché il suono della voce ottenuto con quell’effetto crea un’atmosfera senza tempo, qualcosa di ancestrale e lontano, ma che nonostante la distanza in un certo senso mi appartiene. Se i miei avi potessero cantare, probabilmente lo farebbero con quel suono, un suono che crea uno spazio attorno alla voce, conferendole una dimensione atemporale. Quando canto senza quell’effetto, che per la precisione è dato da un pedale per chitarra, percepisco la mia voce immersa nel presente, mentre con quell’effetto è come se viaggiassi nel tempo. Tecnicamente è simile all’Auto-Tune, è vero, ma per me significa altro: apertura, atemporalità, universalità.

Come hai vissuto e stai vivendo la pandemia?
In tanti modi diversi, come tutti, credo. Però tra le molte cose ho pensato, da cittadina americana, che forse questa pandemia è esplosa per un motivo. Forse senza il Covid Trump sarebbe ancora al potere, forse i movimenti per i diritti civili non sarebbero cresciuto così tanto. Senza contare l’impatto della pandemia sulle coscienze di molti americani, che si sono resi conto di quanto il modello di sviluppo statunitense, basato su un capitalismo e un consumismo estremi e su sprechi enormi non sia affatto qualcosa di cui andare fieri. Non che abbia già visto dei cambiamenti, ma sono speranzosa, c’è più resilienza, mi sembra che tanti abbiano capito dove sta il problema e stiano modificando le proprie abitudini rispetto al passato.

Qual è stata la prima canzone che ha conquistato la tua attenzione, nell’infanzia?
Un inno religioso che sentivo quando andavo in chiesa con mia nonna. Faceva così (si mette a cantare, nda). Vedevo tutta questa gente attorno a me – gente mai vista prima – cantare in coro, battere le mani a tempo, sorridere. Ero una bambina, ma in quel rituale avvertivo un senso di comunità e di condivisione collettiva che ancora oggi, se ci penso, mi riempie il cuore.

Nella tua discografia c’è un album, You Are Free del 2003, con Dave Grohl, Warren Ellis ed Eddie Vedder, che credo sia stato catartico per molte donne: che ne pensi?
Sono contenta che tu dica questa cosa. Durante i lockdown, a casa con mio figlio, ho riascoltato i miei vecchi lavori e mi sono resa conto di quanto fino a The Greatest incluso siano stati il frutto di una lotta per la salute mentale che ho combattuto per anni. Ho avuto parecchi problemi da questo punto di vista, problemi che mi spingevano a bere alcol abusandone per trasformare il dolore e i traumi in qualcos’altro. Ora sono sobria da tempo, sono stata in terapia più volte e i dischi più recenti, da Sun in avanti, rappresentano per me un secondo capitolo della mia vita, che ho iniziato a scrivere dopo aver realizzato che non era più il caso di guardarmi indietro, come dicevo prima, e che dovevo essere presente a me stessa, consapevole e guardare avanti. Solo una volta compreso questo – e mi ci sono voluti anni – sono riuscita ad assumermi le mie responsabilità rispetto alla mia stessa esistenza, alla mia felicità e infelicità.

Dato che si parla di cover, hai sentito la versione della tua Metal Heart appena pubblicata da Dave Gahan & Soulsavers?
L’ho ascoltata proprio oggi. E sono scoppiata a piangere, mi ha dato qualcosa di cui avevo bisogno.

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