Capossela: «Lo Sponz Fest è un festival contro la domiciliarizzazione della vita» | Rolling Stone Italia
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Capossela: «Lo Sponz Fest è un festival contro la domiciliarizzazione della vita»

Dal 25 al 30 agosto il cantautore e i suoi complici cercheranno di restituire alla musica la sua dimensione fisica. «Celebriamo suoni che provocano fusione. Si sentiranno le sirene dello spirito dopo quelle delle ambulanze»

Capossela: «Lo Sponz Fest è un festival contro la domiciliarizzazione della vita»

Capossela allo Sponz Fest del 2019

Foto: Simone Cecchetti

Sarà un’edizione limitata, l’ottava dello Sponz Fest: la pandemia non lascia scampo, dal 25 al 30 agosto l’evento ideato e diretto da Vinicio Capossela si svolgerà a Calitri e in altri comuni vicini nel rispetto delle norme anti Covid. A ogni concerto e incontro potranno assistere non più di 200 persone, ma limitazioni a parte la filosofia di fondo resterà la stessa di sempre: quella di una manifestazione concepita da Capossela per celebrare le proprie radici – quell’Alta Irpinia terra d’origine dei suoi genitori, che ancora oggi porta le ferite del terremoto del 1980 – e il piacere dello sponzamento, laddove il termine sponz, spiega lo stesso Capossela, deriva da «un’espressione paesana cui si ricorreva durante i riti comunitari degli sposalizi e che significa ammollarsi, perdere forma e rigidità, fondere l’individualità nel gruppo fino a perderla».

Se Calitri resta il cuore del festival, le altre località coinvolte saranno Caposele e Torella dei Lombardi in provincia di Avellino, Paestum, Eboli, Serre, Valva e Contursi Terme fuori Salerno: luoghi segnati dall’acqua, in particolare dai fiumi Ofanto e Sele, perché l’acqua è il tema di questa edizione dello Sponz Fest, appuntamento che sfugge per sua natura alla formalità di certe rassegne per proporsi al pubblico come un festoso pellegrinaggio tra musica e parole. «Un modo per tornare a sentire le sirene dello spirito dopo quelle delle ambulanze», sintetizza Capossela, protagonista errante, con la sua Rolling Sponzing Review (un riferimento alla Rolling Thunder Review di Bob Dylan, ndr), di un programma che lo vede affiancato a Vasco Brondi e Massimo Zamboni, Goffredo Fofi, Vincenzo Mollica, Piero Negri, Jimmy Villotti, Guano Padano e molti altri.

Parli di spirito e di fusione del singolo nel gruppo in un mondo dominato da materialismo e individualismo: che ruolo attribuisci alla musica in un’epoca come questa?
Il termine sponz è una eco degli antichi riti dissipatori che facevano della festa il momento in cui si andava a bruciare quanto si era accumulato, per non esserne succubi: il tempo della festa era anche il tempo della celebrazione del corpo, dei sensi, il simposio che passa anche per il banchetto, e la musica era parte del rito. La musica come fatto rituale, però, si è modificata e non sfugge all’atomizzazione del nostro stile di vita; ha avuto ragione Glenn Gould, che preferiva cercare la maggiore intimità possibile nella più rigorosa distanza. Oggi non possiamo non riconoscere che la musica che più amiamo è priva di fisicità, gli artisti che l’hanno incisa non ci sono più o sono distanti, quindi il processo rituale può valere solo nel caso di particolari coincidenze. Personalmente l’ho vissuto poche volte, quando ho visto dal vivo Jeff Buckley nel 1995 o gli Almamegretta di Sanacore; la maggior parte della musica che amo me l’ascolto in solitudine in vere e proprie sedute spiritiche oppure fa da colonna sonora ai viaggi, ma raramente ha qualcosa di fondante o rituale. Per questo allo Sponz Fest si celebrano più che altro musiche che provocavano fusione al di là della notorietà degli artisti: parliamo di un evento che si è proposto e si propone come un’occasione di esperienza abbastanza lontana dalle dinamiche di festivalizzazione che, all’interno di uno spazio delimitato e fisso, dividono con un palco attivi e passivi.

Rischio di contagio, distanziamento fisico, mascherine: come te la stai vivendo, questa pandemia?
Anni fa ho scritto una canzone, Fatalità. C’è sempre un momento legato alla fragilità dell’esistenza, al confine così labile tra vita, salute, malattia e morte. Lo sappiamo, ma d’un tratto ci sentiamo più vulnerabili. Di solito nella malattia si può contare sulla solidarietà e sulla cura, però quando uno ha corso dei rischi ecco che si trova fuori da questo cerchio: è da solo, “fuori dagli uomini, fuori dal cielo” (è un verso della canzone, nda). Vale soprattutto per le malattie per le quali è imputabile una nostra responsabilità. Era valido per l’Aids, ombra nera della mia generazione, e vale per il Covid. La sensazione di poter contagiare, di essere positivi, di essere pericolosi per gli altri, magari per non avere prestato abbastanza attenzione, e il pensiero di poter mettere in pericolo i propri anziani genitori sono devastanti. Vanno oltre il legittimo sentimento di timore per la propria vita. Ogni epidemia ha dei meccanismi fissi: all’inizio negazione della stessa, poi caccia all’untore, infine distruzione delle relazioni. La ricerca spasmodica dell’immunità spesso si contrappone al senso di comunità. Ci si dimentica subito, nel desiderio di salvarsi la pellaccia, che in natura non è il più forte a vincere, ma il gruppo che organizza meglio il mutuo aiuto. Per il resto le mascherine sono anche divertenti, rendono tutti misteriosi: un po’ banditi, un po’ circasse velate del sultanato, un po’ dentisti, un po’ astronauti. In generale ogni limitazione può riservare anche qualche nuova possibilità.

Capossela durante la presentazione del festival 2020. Foto di Mariano Di Cecilia

Filo conduttore di questa edizione dello Sponz Fest è il tema dell’acqua, simbolo di rinascita e purificazione, ma anche di resilienza, trattandosi di un elemento in grado di adattarsi a ogni contenitore.
L’acqua ha tanti simbolismi: il divenire, la fluidità. E poi la sorgente, la fonte, la mitologia. L’epica fluviale, Fitzcarraldo, Conrad, i fiumi infernali. Spesso è collegata alla salute, alle lotte contro la pestilenza. Io sono un po’ all’antica e al termine resilienza continuo a preferire il termine resistenza. Il resistere comporta un atto attivo, una volontà, una capacità di gettarsi nella lotta. Mi viene sempre in mente il principio speranza di Ernst Bloch, quando dice che la speranza richiede una volontà, un lavoro che desidera avere successo anziché fallire, un lavoro in opposizione alla paura che è, invece, paralizzante e passiva.

A proposito di musicisti e lavoratori dello spettacolo, in una recente intervista uscita sul Corriere della Sera Davide Toffolo dei Tre Allegri Ragazzi Morti ha invocato un «reddito di esistenza». «Dovremmo godere del surplus di ricchezza che il sistema produce», ha detto: che ne pensi?
Toffolo è sempre un grande. Non so. So che questo virus, come dice l’amico Daniele Sepe, deve essere molto colto, visto che frequenta soprattutto sale da teatro, da concerto, cinema, musei e scuole. Di sicuro ognuno di questi campi è fatto di persone che spesso compiono scelte radicali – vivere del settore culturale richiede sempre scelte coraggiose e appassionate – e che hanno pochissime tutele, a partire dal sistema previdenziale e assistenziale. Non è solo che gli artisti devono godere del surplus, è che la cultura deve smettere di essere una cosa elitaria, spesso governata dalla discriminazione, a partire dai baronati universitari finendo con l’occupazione del mercato musicale da parte di tre mostri onnivori che da soli detengono il 90 per cento del mercato.

L’acqua può essere anche metafora della società liquida teorizzata da Zygmunt Bauman, una società in cui tutto è merce da consumare, incluse le relazioni umane. E in cui in questi mesi il Covid ha alimentato, in primis in termini di investimenti economici, una spinta verso una digitalizzazione dell’intrattenimento sempre più pervasiva: lo Sponz è un urlo ribelle contro tale processo?
Prima della pandemia ho realizzato un disco come Ballate per uomini e bestie, pieno di allegorie neo-medievali, proprio per raccontare questo tipo di società liquida. Ho impiegato l’allegoria della peste per illustrare l’oscenità in rete, quella che distrugge la vita delle persone, che produce tragedie come quella di Tiziana Cantone: la peste della Bestia dei manganellatori populisti, ma anche la piccola peste dell’individualismo collettivo in cui siamo dentro fino al collo, quel gigantismo dell’io, della gratificazione e del consenso che ognuno cerca ogni giorno dalla socialità online. L’epidemia non ha fatto che accelerare tutto questo, un processo di domiciliarizzazione della vita che era già in corso, così come ha accelerato l’iper sfruttamento dei lavoratori della distribuzione così ben descritto da Ken Loach nel suo ultimo film Sorry We Missed You. Era tutto già in atto, la rete non ha nulla di malvagio, anzi, può essere uno straordinario strumento di conoscenza, però dovremmo stare molto attenti a non delegargli interamente la vita.

Parlando dello Sponz, in quanto esperienza che richiede un trasferimento fisico in un paesaggio umano e geografico, va ed è sempre andata in direzione opposta, ma non fuori dalla contemporaneità: le location si trovano con una app, i contenuti circolano sul web e sui social, ma tutto questo al fine di favorire l’incontro. L’edizione limitata 2020 risentirà delle restrizioni in corso, oltre che delle diffidenze, dei sospetti e delle delazioni che sono i frutti avvelenati dell’epidemia, ma sarà anche un’occasione di adattamento, di senso civico e comunque di scambio. Purtroppo, viste le capienze autorizzate, davvero molto basse, sarà più facile da seguire con appositi streaming che non dal vivo.

Tra gli ospiti del festival, il giurista e docente Ugo Mattei, da anni in prima linea nella difesa dell’acqua pubblica. Nonostante il referendum del 2011, il servizio idrico continua a essere gestito secondo logiche di mercato…
La battaglia sull’acqua come bene pubblico è stata l’ultima grande battaglia civile di cui ho memoria. Ci è sembrato doveroso invitare uno dei suoi protagonisti, e proprio a Caposele, il paese da cui nasce l’acquedotto del Sele, che sorse negli anni ’30 come grande opera pubblica per rendere disponibile il bene più prezioso. Ogni volta che vedo una fontana pubblica mi commuovo. E lo stesso succede con i vespasiani. In un mondo che sta togliendo le panchine per non farci dormire sopra i senzatetto, un mondo che non smette di punire la povertà come maggiore crimine possibile, che produce torme di poveri cristi, ogni fontanella pubblica rinnova la parabola del samaritano.

Allo Sponz si parlerà anche di Mediterraneo e migranti con l’europarlamentare e medico di Lampedusa Pietro Bartolo. Mi viene in mente una frase da La grande scommessa, film sulla crisi finanziaria del 2008, pronunciata da uno dei protagonisti: «Ho la sensazione che tra qualche anno la gente dirà quello che dice sempre quando l’economia crolla. Daranno la colpa agli immigrati e alla povera gente». Credi stia accadendo di nuovo?
Questo succede sempre, da sempre. Il povero cristo è il capro espiatorio, è essenziale per distrarsi dall’essenziale. È più facile parlare degli immigrati che non della scuola, della giustizia, dell’impoverimento, dei servizi che non ci sono. Dispiace che la gente debole di coscienza e magari anche povera di mezzi ci caschi subito. È un trucco così vecchio, è da quando sono nato che ci dicono che siamo in crisi economica. E c’è sempre qualcuno con cui distrarsi. Per l’incontro con Bartolo potrebbero valere le parole di Leonard Cohen: “E Gesù fu marinaio finché camminò sull’acqua e poi, quando fu sicuro che solo agli annegati fosse dato di vederlo, disse ‘siate marinai finché il mare vi libererà’”» (il brano è Suzanne, tradotto in italiano nel ’72 da Fabrizio De André, nda).

Ci voleva il coronavirus per ricordarci che siamo mortali?
Assieme alla malattia e alla povertà, la morte è l’ultimo vero tabù della società dei consumi. È grandemente rimossa perché danneggia la produzione. Il consumo si fonda sull’ottimismo illimitato, sulla immortalità presunta. Come accendere un mutuo se si fosse davvero consapevoli della propria mortalità? Come impegnarsi in un acquisto a rate? La consapevolezza della morte è temuta e rimossa. Se ognuno fosse pienamente consapevole che, come dicevano i greci antichi, ogni attimo è eterno perché è l’ultimo, ed è quello che ci invidiano gli dei, sarebbe disposto a vivere una vita il cui futuro è sempre rimandato? O non vorrebbe piuttosto vivere ora, alle proprie condizioni? Ci sono moltissime armi di distrazione di massa per distoglierci dalle cose essenziali, la morte è una di queste. Ma è proprio la consapevolezza della morte che deve spingerci a una vita piena, bella, affrontata coraggiosamente.

Calitri, in Irpinia

E nell’Italia dell’osso, quell’ampio entroterra ormai in gran parte spopolato di cui fa parte anche l’Alta Irpinia, intravedi un futuro possibile?
L’Italia guardata in verticale non si divide in nord e sud, ma in aree interne e aree urbane e costiere. Ci sono vocazioni geografiche che si sono imposte sulla storia e hanno determinato sorti simili a realtà diverse lungo lo scheletro appenninico: lo spopolamento, i terremoti, il saccheggio energetico, la perdita dei servizi. Sono le aree del vuoto, ma il vuoto può diventare risorsa, a patto che non si trasformi in degrado e abbandono. In questa stagione le aree interne, complice la difficoltà di viaggiare all’estero, sono piuttosto affollate, però assieme agli anelati visitatori riscoprono una diffidenza antica: improvvisamente il forestiero viene avvertito come minaccia, come possibile untore, persino il paesano rientrato dalle città. È una sensazione strana, che viviamo anche noi nel paese che per anni è stato messo al centro del festival: ci siamo resi quasi invisibili. Al di là di questa fase specifica di ripiegamento, io credo che le aree interne siano il grande polmone dell’Italia, la nostra unica possibilità di ritirata: perderle significa essere perduti. È una lotta che vale la pena combattere anche con una cosa voluttuaria come un festival.

Sponziamoci di musica, allora. Con cosa cominceresti?
Se verrete da queste parti consiglio il Dylan di Pat Garrett & Billy the Kid, colonna sonora dell’omonimo film di Sam Peckinpah. E poi tutto Morricone, naturalmente (il festival ospiterà un tributo a C’era una volta in America e una conversazione sull’opera di Sergio Leone, nda). Ma anche le fanfare rumene, albanesi e serbe, con le quali abbiamo aperto tutte le edizioni all’alba, e Flaco Jiménez, la quadriglia comandata, la scanna-polka e il batticulo. Tutte le musiche che stanno su una frontiera, come la Golondrina, l’immortale inno de Il mucchio selvaggio, altra pellicola di Peckinpah. E proprio una specie di mucchio selvaggio sarà il gruppo con cui percorrerò in carovana i fiumi e che con una certa spocchia abbiamo battezzato Rolling Sponzing Review. Yipaaaa!

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