C’è un momento, mentre ascolti il nuovo disco di Caparezza, in cui sembra di galleggiare nello spazio, come se stessi davvero orbitando intorno a un’idea. Una sensazione che aiuta a raccontare Orbit Orbit, il suo progetto più ambizioso («il concept più concept che abbia mai fatto»). Si tratta di un disco-fumetto scritto, prodotto e sceneggiato interamente da Michele Salvemini, questo il suo vero nome, presentato a Lucca Comics & Games, dove tutto è cominciato. «Era tranquillamente sul tavolo l’ipotesi che non sarei più tornato a fare musica», premette in questa intervista spiegando di soffrire ancora di acufene al quale si è aggiunta l’ipoacusia, la riduzione dell’udito, dopo averci tenuti per oltre due ore ad ascoltare e spiegare l’album e il volume illustrato di 250 pagine. Cos’è successo, quindi? «È arrivato il fumetto e mi ha salvato».
Così, dopo la “reclusione” di Prisoner 709 e la “fuga” di Exuvia, i precedenti lavori discografici, sceglie la libertà di un viaggio nell’immaginazione, dove la space music (da Fluttuo, orbito con un sample dei Rockets a Gli occhi della mente con un sample di Delirio di Gianni Morandi) e la classica di una orchestra di 74 elementi (Perlificat) si fondono in brani che segnano la ripartenza dopo lo sconforto (Io sono il viaggio) e l’orgoglio della maturità (Come la musica elettronica), per diventare azione concreta (A Comic Book Saved My Life) nel ritrovato entusiasmo: «C’è un’incoscienza di fondo, che ho sempre avuto, ma adesso ancora di più. Sono libero dalle ansie da prestazione. Il disco uscirà, farà il suo, piacerà o non piacerà, ma non sarà più un mio problema. Sono pacificato con il mio mestiere».
Lo dice con la serenità di chi ha visto cambiare tutto intorno a sé, dagli algoritmi alle logiche radiofoniche, ma non si è lasciato cambiare: «L’aspettativa è nemica dell’arte». E tra un inno alla creazione e nuove ispirazioni date dalla collaborazione con nove fumettisti, nel 2026 tornerà anche dal vivo con oltre 20 date nei principali festival. Nel frattempo, a 52 anni, ha abbandonato i giochi di parole e il flow del rapper: «Volevo che tutto fosse più palese per rompere quella corteccia e per uscire con più veemenza». Un atteggiamento, però, non cambia. Quello dell’impegno sociale, come sulla Palestina: «È necessario esporsi. Nei cortei mi sono sentito vivo nella mia posizione politica». Ma attenzione, chi oggi cerca l’artista di Fuori dal tunnel o Vieni a ballare in Puglia rimarrà deluso: «Come Caparezza vecchio, io sono il nuovo Caparezza».
Nel presentare Orbit Orbit lo hai definito «il concept più concept che abbia mai fatto». Ma sei consapevole di tornare in un mondo della discografia completamente diverso?
C’è una incoscienza di fondo, che ho sempre avuto, ma adesso ancora di più, perché sono libero dalle ansie da prestazione. Il disco uscirà, farà il suo, piacerà, non piacerà, nonostante tutto non sarà più un mio problema. Sono pacificato con il mio mestiere. So quanto ci ho messo a farlo, quanta dedizione e quanta roba c’è dentro. Sono già soddisfatto così. Qualche anno fa non pensavo neanche che l’avrei fatto, in più con un fumetto di 250 pagine. Due lavori molto complessi e stratificati fra loro. È già una vittoria. So che nella discografia è cambiato tutto rispetto al passato, dal marketing ai singoli, ma neanche poi così tanto.
In che senso?
Che è un periodo in cui si generalizza molto nella musica. Io invece scopro ogni giorno gruppi e musicisti che mi piacciono, anche se non sono famosi. Certo, devo andarmeli a cercare, ma si trova in giro ottima musica. Basta uscire dalle gabbie delle playlist.
Hai spiegato che «il processo creativo è difficile da ricreare a tavolino». Oggi, però, oltre ai team di autori, si aggiunge anche l’intelligenza artificiale.
Ma non può sostituire l’esperienza, come in un concerto dove non compri niente di materiale. Paghi un’esperienza. Come quando vai a sentire lo stesso artista in due concerti differenti, cambia l’esperienza che farai e quelle vibrazioni non ti possono arrivare dal digitale. Sono incredibilmente ottimista in questo momento, anche se non lo sono di natura. Ma credo nel mondo della creatività, perché l’AI ha il limite dell’esperienza o si basa su quella pregressa. Con le ossa meno rotte ne usciranno i concerti dal vivo, oppure teatro e performance live.
Dopo Lucca Comics hai raccontato di aver ritrovato la voglia di fare musica, oltre che di cimentarti nella sceneggiatura di un fumetto. Se non ci fossi andato?
Era tranquillamente sul tavolo l’ipotesi che non sarei più tornato a fare musica. A ogni disco ripeto che è l’ultimo perché voglio che ogni mio ritorno sia considerato il primo disco, sempre una ripartenza da zero. Infatti, quando scrivo, faccio finta di non avere un pubblico che stia aspettando che faccia ritorno. L’aspettativa, per me, è nemica dell’arte. Stavolta, però, rispetto al passato ero molto vicino alla soluzione definitiva.
Il fumetto ti ha salvato, ma c’è chi ti ha dato la spinta per realizzare tutto questo?
L’illustratore Simone Bianchi. Mi ha attivato con questo input dicendomi: «Hai mai provato a disegnare una variazione della copertina del disco?». Per me era un’eresia, visto che ho sempre pubblicato dischi con un’unica copertina. Nella mia disperazione dell’epoca è riuscito ad aprire uno spiraglio, ed è stata una domanda foriera di un nuovo progetto così complesso.
Presentando il disco hai sottolineato che i tempi radiofonici e gli algoritmi non ti interessano. Eppure, in qualche modo, questo disco dovrà farci i conti. O no?
Gli algoritmi fanno parte di una visione del mondo che non è la mia visione. Non voglio essere determinato da un algoritmo. Quello che voglio io, come dovrebbero tutti, è agire in libertà senza preoccuparmi del parere che avrà il pubblico. Scegliere un mestiere creativo, e riuscire a portarlo avanti, è un grande privilegio che la vita ti offre. Nel momento in cui devi sottostare a regole degli algoritmi o radiofoniche, stai già snaturando l’idea di un concetto artistico.
Carmen Consoli ha raccontato dell’insegnamento di Franco Battiato sul «disattendere il pubblico».
Disattendere il pubblico è un modo per rispettarlo. Anzi, l’unico. Se un artista ragiona con la sua testa, e non con quella dell’audience, la sta rispettando in pieno. L’ho riportato anche nel fumetto: «Non scrivo per un pubblico, il miglior modo per scrivere per il pubblico».
Tiziano Ferro ha ammesso che negli ultimi tempi, con un nodulo alle corde vocali, è stato spinto dal suo precedente management a esibirsi e ha rischiato la voce. A te, che hai reso pubblico il tuo problema con l’acufene, è mai accaduto qualcosa di simile?
Non con le case discografiche, ero io stesso che mi costringevo a spingere sull’acceleratore perché convinto che quella fosse la mia missione. Ho sacrificato tutto per fare musica. E sono stato anche incauto. Infatti ne ho pagato le conseguenze e continuo a pagarle. A volte è stato anche il senso di responsabilità a spingermi, ma non solo verso il pubblico. Mi è successo, quando ho fatto dei tour molto lunghi per album con centinaia di date, di svegliarmi senza voce o con vari problemi, e comunque andare sul palco. Perché consapevole che quella data, se fosse saltata, avrebbe causato un casino, sia per il pubblico che per chi lavorava con me. Rischiando, un po’ come mi sembra nel caso di Tiziano Ferro. Ma sono stato soltanto io a deciderlo, nessuna casa discografica mi ha mai imposto nulla. Secondo me anche perché non sono uno così facile da codificare, quindi mi hanno sempre lasciato fare.
Ultimamente stanno uscendo diversi dischi che vengono definiti “terapeutici” dai loro stessi autori, da Tiziano Ferro ad Angelina Mango. Anche il tuo?
Forse è il contesto storico che stiamo vivendo, più che psicologico. Dal punto di vista psicologico non ho mai avuto grossi problemi a rapportarmi con me stesso. Il problema me lo crea il mondo quando non riesco a decifrarlo, lo subisco o mi sembra senza speranza. Queste condizioni mi danno più fastidio di tutte le battaglie interiori che ho fatto crescendo. Per me questo disco non è stato terapeutico, lo è stato di più quello precedente, Exuvia. Questo è più consapevole. L’ho voluto perché mi è piaciuta tantissimo la scrittura del fumetto e per raggiungere qualcosa di più grande. Per cui lo definirei motivante. Non per guarire da un male interiore, ma per l’entusiasmo di vedere come sarebbe andata a finire.
Non manca anche un omaggio alla tua terra, con la prima cover che hai mai realizzato. E hai scelto Il banditore di Enzo Del Re, un brano con logiche non proprio sanremesi…
Perché io non ho una logica, per cui mi baso su quello che mi stravolge a livello emotivo. Quando ho sentito questo brano, grazie alla giornalista Timisoara Pinto che organizza il Maul – Molese Anarchico Uomo Libero, il concerto-tributo per ricordare Enzo Del Re, sono letteralmente impazzito. Mi ha stregato, perché mi sono ritrovato di fronte a un artista che, chiaramente, faceva quello che voleva senza nessunissimo intervento esterno. Ho sognato di farne una mia versione, ma non è stato facile perché la sua era perfetta così, con il suo tipico minimalismo. Allora ho pensato di giocare all’opposto, caricandola tantissimo con una forte atmosfera cinematografica.
Foto: Alberto D’Andrea
Tornando al disattendere il pubblico, hai voluto chiarire che i fan in cerca di revival di pezzi come Fuori dal tunnel o Vieni a ballare in Puglia rimarranno delusi.
Come Caparezza vecchio, io sono il nuovo Caparezza. La novità è questa. Ogni volta noi siamo nuovi perché siamo diversi. Se si inceppa questo meccanismo c’è un problema. Essere identici a 20 e a 50 anni vuol dire non accettare la vita stessa. Teoricamente, se facessi sport, dovrei essere un allenatore. Invece è tanto che io stia ancora giocando. Ma chi mi segue lo sa che faccio quello che mi viene in mente, non quello che gli altri si aspettano.
Il disco è rappato, ma hai rinunciato al flow per tornare al «Michele in purezza».
È vero, anche per i temi che affronto e per come li affronto. Ho cercato di bucare una certa superficialità. Non che consideri quello che ho realizzato prima come superficiale, ma perché, spesso, tutti i giochi di parole e le sotto-letture creavano una sorta di barriera rispetto al significato che volevo trasmettere. Ora volevo che tutto fosse più palese. Per cui ho cercato di rompere quella corteccia, che è la sovrastruttura dell’interpretazione vocale, per uscire con più veemenza. Come se stessi ricominciando a rappare senza aver già costruito un flow.
Ghali ha criticato la scena hip hop di essersi poco impegnata per la questione palestinese. Ti sei sentito chiamato in causa?
No, perché è necessario esporsi e l’ho sempre fatto. Ne ho anche pagato le conseguenze. Ho detto la mia più volte e in questo caso, dopo aver contribuito alla raccolta fondi per la Global Sumud Flotilla, ho partecipato al corteo, che è stata la gioia più grande. Perché nei cortei mi sento veramente vivo nella mia posizione politica. Fatico ancora a capire i social, ho dei preconcetti, ma è anche vero che nella questione palestinese sono stati molto importanti. Ci sono divulgatori ai quali dobbiamo la controinformazione di cui avevamo bisogno. E se c’è stato un movimento a favore della causa palestinese, il ruolo fondamentale è stato di questi divulgatori. Come Carla Monteforte, Karem Rohana e Marianna Lentini, che mi ha coinvolto. Poi gli artisti è giusto che si espongano, basta però che lo facciano con sincerità o onestà.
Del brano Perlificat mi hanno colpito due cose. La prima è che per il pezzo che chiude il disco e che non diventerà neanche un singolo, hai utilizzato ben 74 elementi d’orchestra e specificato che è costato forse più di tutto il il resto del progetto. E quindi, perché?
È il mio inno alla creazione. A concretizzare l’idea, costi quel che costi. Perché tutto il lavoro parte da un’idea che vuole diventare corpo. Una volta che ci sono riuscito, la cosa più giusta era di invitare le altre persone a perlificare, a creare a loro volta. Abbiamo bisogno di idee oggi che siamo in stallo. Soprattutto politico. C’è tanta voglia di ribellione, ma non c’è qualcuno in grado di incanalarla. Le idee non devono stare campate per aria, altrimenti restano spiriti come nel fumetto. Perlificat è un invito a tutti a dare corpo alle proprie idee.
La seconda cosa che mi ha colpito è che, come sempre, un tuo nuovo album si apre con un collegamento all’ultimo brano del disco precedente. Ora, visto com’è costruita Perlificat, nel prossimo disco ci dovremo aspettare un viaggio nella musica classica?
(Ride) Sai che mentre ascoltavamo il disco insieme ci ho pensato? Non credo che la musica classica diventerà il mio mestiere, non ho studiato così tanto la musica. Però mi fa ridere la conclusione con l’orchestra e con quello stile, ma calcola che questo è l’ultimo disco…
Certo, come i precedenti?
Chissà… Comunque, se ce ne sarà un altro, attingerà sicuramente da quel brano.
Chiuderei con un aspetto legato alla salute che stava per non farti tornare alla musica. Oltre all’acufene, hai rivelato che da qualche tempo soffri anche di ipoacusia, la riduzione dell’udito, ma che non ti vergogni più a utilizzare un apparecchio.
È ancora un tabù utilizzare un apparecchio per l’ipoacusia, eppure ne soffre tantissima gente. Compresi molti musicisti per il lavoro che facciamo. Non so come mai, anch’io ce l’avevo. Da bambino, quando vedevo delle persone con gli apparecchi all’orecchio mi mettevano ansia. Forse immaginavo già cosa mi sarebbe successo… Oggi, però, sono talmente poco visibili e così performanti che, se ce n’è bisogno, consiglio di usarli. Il grande paradosso è che tanti girano per le città con gli auricolari o delle cuffie molto evidenti per ascoltare la musica, e poi hanno timore a utilizzare un apparecchio acustico. Invece è molto importante usarlo, perché quando non senti bene finisci per isolarti.
