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Camille canta la libertà

Abbiamo incontrato la cantautrice francese, fresca di pubblicazione di 'OUÏ'. Un lavoro per niente politico, ma decisamente poetico. Parola sua
camille oui 2017

Non sono molte le chansonnière francesi che riescono ad arrivare nel nostro paese. Camille ce l’ha fatta. Da sola, con i Nouvelle Vague, con Raphael Gualazzi e anche grazie a Elisa, che ha realizzato una cover della sua Pour Que L’Amour Me Quitte, in coppia con Giorgia. Per raccontarvi il suo personaggio bisogna parlare di musica, di cinema e di poesia: elementi che si trovano nel suo nuovo disco, OUÏ, già definito il seguito ideale di Le Fil , suo album di maggior successo uscito nel 2005.

Nelle 11 tracce che lo compongono si parla di famiglia, di rispetto per la terra, di maternità. Tutto lasciato alla libera interpretazione dell’ascoltatore. Un lavoro diverso dai precedenti, perché Camille è tornata a cantare in francese, ma soprattutto perché OUÏ è un’opera ‘libera’. Nelle strutture, nella scelta degli arrangiamenti (spesso solo vocali), e nello stile, tra rime e qualcosa che si avvicina alla sua personale visione di canto spirituale. Ma attenti, perché Dio non c’entra nulla (o quasi). L’abbiamo incontrata.

Sei anni dal tuo ultimo disco di inediti. Che hai combinato in tutto questo tempo?
Ho fatto la mamma. Sono stata in tour per un po’, fino al 2013, e poi ho avuto il mio secondo figlio. Però non mi sono mai fermata del tutto. Ho lavorato alle musiche della versione cinematografica de Il Piccolo Principe, con Hans Zimmer. Poi l’anno scorso ho iniziato a scrivere OUÏ.

Immagino che essere madre sia un po’ totalizzante, in effetti.

È impegnativo, sì. Richiede praticamente tutto il tuo tempo, ma è una cosa bellissima.

Non a caso sei andata in un monastero per registrare le voci. Bisogno di un po’ di relax?
Qualcosa del genere. Sono andata in un posto meraviglioso, nel sud della Francia. Non ti immaginare però una cosa buia e umida, non è quel tipo di monastero. Questo è un luogo luogo luminoso e dinamico, dove si fa tantissimo teatro. È stato costruito nel XII secolo e negli anni ’70 è diventato un luogo ai aggregazione culturale. Un posto bellissimo.

Ascoltando il disco qualcosa che ricorda i canti religiosi c’è. Parlo delle armonie soprattutto.
Non direi religioso, non sono credente, ma capisco che vuoi dire. Mi piace pensare che la musica sia il link tra quello che si vede e quello che non si vede. Ho scelto quel luogo perché adoravo le acustiche. Riverberi pazzeschi. Un luogo edificante.

E infatti, protagonista indiscussa del disco è la voce.
Voce e percussioni, esatto. Volevo proprio fare qualcosa del genere, mi sono ispirata ai suoni africani, quelli che uniscono le comunità. Le percussioni sono come il battito del cuore e quello che sento, oggi, è che dobbiamo stare insieme. Il senso di OUÏ è proprio questo. Dobbiamo ascoltarci, essere positivi, ballare e cantare insieme. Cose semplici ma con che hanno un enorme potere.

Cosa rispondi a quelli che dicono che questo sia un disco politico?
Che è poetico, più che politico. Cerco solo di usare parole vere, non ho idea se siano giuste o sbagliate. L’unica cosa che voglio fare è veicolare tanti messaggi e creare un mondo in cui le persone possano identificarsi, viaggiare, sentirsi liberi. Voglio trasformare le mie paure e la mia rabbia in gioia. La musica viaggia sempre a un livello superiore, ed è lì che voglio arrivare.

Qui potete ascoltare OUÏ:

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