Calibro 35, indagine su un musicista al di sopra di ogni sospetto | Rolling Stone Italia
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Calibro 35, indagine su un musicista al di sopra di ogni sospetto

La band più figa d’Italia s’è spaccata la testa per reinterpretare le colonne sonore di Ennio Morricone. Non è un omaggio, ma una partita a scacchi col genio e difatti s’intitola ‘Scacco al Maestro’. Enrico Gabrielli e Massimo Martellotta fanno rapporto sulla loro indagine su M., uomo novecentesco, compositore anti-romantico, pensatore lucido

Foto: Attilio Marasco

Ennio Morricone aveva un desiderio irrealizzabile: diventare un campione di scacchi. Non un bravo giocatore, ma un fenomeno, un Kasparov. La sua fantastica corsa nel mondo della musica aveva qualcosa d’agonistico, raccontava il suo lavoro con l’understatement dello sportivo che rimarca l’importanza dell’allenamento sottacendo il talento. Guardava la scacchiera e vedeva il pentagramma. Il mondo di combinazioni aperte da una mossa gli ricordavano le possibilità del contrappunto e dell’armonia. Possibilità non infinte, dettate da leggi matematiche, ma comunque sempre aperte all’imprevisto. Gli scacchi, diceva, sono lo sport più violento che esista, sono una versione cavalleresca e sofisticata del pugilato.

Non stupisce perciò che l’album, primo dei due volumi, che i Calibro 35 hanno dedicato alle colonne sonore di Morricone s’intitoli Scacco al Maestro. Reinterpretare quei pezzi è stata una sfida, una partita col genio, un’indagine su un musicista al di sopra di ogni sospetto. Ovvero, forzando la citazione, su un artista amato in maniera ampia, trasversale, assoluta, apparentemente facile, in realtà rigoroso.

Abbiamo chiesto a Enrico Gabrielli e Massimo Martellotta di farci rapporto sulla loro indagine su M., uomo novecentesco, compositore anti-romantico, pensatore lucido che posava da semplice artigiano della musica.

Morricone è sempre stato nel vostro repertorio. Perché un disco interamente su di lui e perché adesso?
Massimo Martellotta: La take di Trafelato di Morricone che senti nel nostro debutto è il documento della primissima improvvisazione del gruppo. Sono i Calibro che si stringono per la prima volta la mano. Da allora Morricone ci ha sempre accompagnati, come ricerca personale e poi nello spettacolo Indagine sul cinema del brivido. Alla Church of Sound di Londra abbiamo affrontato un’altra parte del suo repertorio, quella più scura. A Materadio abbiamo fatto uno spettacolo sui pezzi più celebri, anche spaghetti western. Avendo tutto questo materiale c’è sembrato naturale registrare l’album, che abbiamo fatto un paio d’anni fa.

La vostra è un’indagine su un musicista al di sopra di ogni sospetto. Voglio dire, che cosa può mai andare storto facendo Morricone?
Enrico Gabrielli: Può andare storto tutto. C’era il rischio di aggiungere un oggetto inutile a un mondo già pieno di dischi su Morricone, per non dire degli originali, che basterebbero. Ci siamo spaccati la testa come avviene in una partita a scacchi, per di più con un grande giocatore come lui. Questo disco non è un omaggio, non è una commemorazione anche perché l’avevamo pensato prima della sua morte, non è nemmeno un’agiografia. È una sfida.

E qual è stato l’aspetto più sfidante?
Gabrielli: Morricone è un musicista di formazione classica, ha fatto gli studi con Petrassi, ha lavorato con Nicolai, è un compositore di musica scritta. Nulla è lasciato al caso. Abbiamo dovuto ricostruire, reinterpretare, restituire. È un disco che serve anche a noi.

Avete recuperato le partiture?
Gabrielli: Di Morricone non c’è quasi niente, si trovano poche partiture manoscritte, non c’è un archivio consultabile. È questa la cosa complessa. Non vale solo per lui. In quel periodo, negli anni ’60 e ’70, lui e colleghi come Piccioni, Umiliani, Trovajoli, Rustichelli, Ortolani, Bacalov scrivevano su carta a un ritmo incredibile.

Morricone ha detto a Tornatore: «Io quasi non sono responsabile di ciò che ho scritto, è solo quello che pensavo, che avevo dentro. Che poi susciti entusiasmi, condivisioni, nostalgia è bello, ma non saprei dire le ragioni». Voi le sapreste dire queste ragioni?
Martellotta: Da questa frase emerge il genere di musicista e di personaggio che era. «Ho fatto questa cosa perché l’ho fatta» è Morricone al 100%. Nelle interviste si racconta sempre come un artigiano al servizio del lavoro che deve fare, senza voli pindarici. Ma attenzione, non c’è una nota di Morricone che non sia motivata da un lucido pensiero concettuale. In quanto alle ragioni, penso che Morricone abbia un senso della melodia “epurato” da orpelli complessi, molto diretto. Ci arriva da un lavoro di cesello tipico di quelli bravi che, come scultori, tolgono per arrivare alla forma. Morricone ha vari livelli di lettura, prima i timbri e poi scavando il pensiero musicale che c’è dietro.

Hai detto che si poneva come artigiano ed effettivamente pensando alle musiche di Scacco al Maestro fatte su commissione vien da dire che gli autori mediocri, persino i ragazzi che escono freschi freschi da X Factor posano da grandi artisti che rispondono solo alla loro musa. Lui riusciva a creare grande musica su commissione. Redime, insomma, l’idea del fare musica come mestiere.
Martellotta: C’è un livello in più. Non è solo una questione d’umiltà, ma di talento. Enorme. Lavorava sotto le sue possibilità. Il Morricone famoso è un incidente di percorso, questo lo diceva lui. Solo a fine carriera ha accettato di essere anche il Morricone delle colonne sonore. Forse la sua ritrosia era un modo per prendere le distanze da chi voleva costruire degli altarini.

Lui parlava di musica per il cinema e di musica assoluta.
Gabrielli: Era figlio del post Darmstadt, della dodecafonia anni ’50. C’era una demarcazione nettissima tra musica alta e musica bassa. A un certo punto, la musica contemporanea è diventata ricerca scientifica. Chi fa musica colta – non la chiamerei assoluta, che vuol dire tanto ma forse un po’ troppo – aveva una autorevolezza che chi fa musica da film non aveva. È una cosa che io stesso ho visto nei conservatori, dov’era difficile parlare di popular music. Inoltre, nella musica contemporanea, esattamente come nella scienza, non puoi prescindere da quello che c’è stato prima di te. Lui questa cosa la sentiva e gli ha creato un conflitto micidiale, eppure applicandosi con nonchalance è riuscito a fare cose incredibili nel campo della musica funzionale. Però aveva aspettative sull’altro mondo, non su quello della musica da film a cui si poteva approcciare quindi con leggerezza e capacità di gioco. Era un agonista: prima calciatore, poi scacchista. In un certo senso ha sempre giocato. Per certi aspetti la sua musica è un’incredibile carriera agonistica o da scacchista. Ma il suo cuore e il suo cervello erano altrove.

Aspirava alla musica assoluta, però in definitiva la vastità del suo repertorio, dal lavoro di arrangiatore per la canzone italiana…
Gabrielli: Che per lui era il sudoku.

Eh, ha spaziato dal sudoku agli enigmi per solutori più che abili del Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza fino alle colonne sonore insegnandoci, come pare abbia detto Alban Berg a un George Gershwin intimidito, che la musica è musica.
Gabrielli: Solo che Morricone ci soffriva. Ricordo quel che mi diceva Danilo Lorenzini, il mio maestro di composizione che aveva partecipato ai suoi corsi di musica da film negli anni ’90. Se gli facevi i complimenti per le colonne sonore, Morricone s’incazzava. Non lo tollerava, anche se ha fatto un lavoro incredibile, anche se ha alzato l’asticella dello spessore compositivo.

Foto: Attilio Marasco

Nelle colonne sonore di Morricone i timbri sono importanti. Voi per vari motivi non siete stati fedeli alla scelta della strumentazione originale.
Martellotta: Morricone è molto nei timbri, basti pensare al fischio o all’ocarina che fa il coyote o alla frusta: ormai ci siamo abituati, ma sono invenzioni enormi. Abbiamo interpretato la sua musica in modo genuino, senza troppo pensiero, in modo istintivo. Non ci siamo seduti a tavolino a pensare: ora facciamo il disco antologico di Morricone. È frutto di una frequentazione col suo lavoro sana, costante, viva.
Gabrielli: Nei Calibro non c’è una partitura che uno scrive per tutti. Ci dividiamo i compiti in base a quello che, a naso, è il ruolo di ognuno. Se guardi i nostri appunti, vedi quattro tipologie differenti: io ho le notine a cacca di gallina, Luca ha una serie di grafici che sembrano un tangram allucinato, Max scrive parole, Fabio ha i puntini ritmici. A modo nostro abbiamo smembrato in quattro parti il lavoro di Morricone, trovando ognuno un suo ruolo, una sua posizione nella musica. È una partita a quattro – a cinque con Tommaso Colliva – contro uno. È tutto molto empirico.
Martellotta: Nelle musiche di Morricone vedi il mestiere anche nel fatto che, come in tutti i brani scritti bene, se cambi gli strumenti assegnati alle parti tendenzialmente il concetto, l’intenzione, il suono, la fruizione del brano funzionano comunque. Succede coi grandi, con Morricone e, senza andare troppo in alto, coi Beatles. Morricone è talmente solido che, come lo fai, resta sempre Morricone.

Affidare a una voce maschile la parte di Edda Dell’Orso in C’era una volta il West è come affidare a un uomo la parte di The Great Gig in the Sky dei Pink Floyd?
Martellotta: (Risate) È difficile toccare un’icona, meglio cambiare completamente. In realtà, Diodato da sempre mette nei suoi concerti qualche pezzetto in cui canta Morricone. E sfido a trovare un’altra voce in Italia che possa reggere quella parte. Diodato ha una facilità melodica impressionante. Sembra una theremin.

Ci sta che nell’Arena, dal film Il mercenario, ci sia Matt Bellamy. È un pezzo con una certa enfasi, un’epica che s’addice alla musica dei Muse più che alla vostra, no?
Gabrielli: È un pezzo più americano. È un brano di quelli secondo me fatti in quattro minuti, con pochi accordi che girano. Sono stati gli americani che hanno riscoperto tante produzioni di musica per il cinema italiano, pensa a Crime and Dissonance, John Zorn, Mike Patton, Tarantino, Rodriguez. Ci hanno restituito questa roba a cui noi non facevamo più caso, se non nella forma più lounge. È stato grazie a Tarantino che si è ritornati a sentire l’Arena, un pezzo con cui gli americani e gli inglesi vanno a nozze perché parla un linguaggio internazionale, ha un piglio da national anthem. Ed è un caso raro di pezzo western in maggiore. Solo Bellamy poteva farlo.

Per dare scacco al Maestro questo disco si gioca la vividezza dei suoni rispetto a quelli dell’epoca, parliamo degli anni ’60 e ’70. Quando si fa un album del genere la produzione, il mix, il mastering sono uno strumento in più?
Gabrielli: È un lavoro in HD. Viviamo in un’epoca in cui l’ascolto del cinema è immersivo, in cui la colonna sonora diventa sound design. Ai tempi di Morricone c’era la stereofonia e basta. Oggi tendiamo ad essere più spazializzati, immersivi, con frequenze adatte ai sistemi digitali. All’epoca il nastro faceva le scelte per i musicisti, tenendo a bada il suono di un ottavino molto alto o di uno strumento particolarmente ruvido. Noi abbiamo scelto una via di mezzo fra la timbrica acustica che Morricone esige e l’immaginario sonoro più recente.

Calibro 35 - La classe operaia va in paradiso

Ci cono particolari che sono molto forti, come gli staccati di La classe operaia va in paradiso che sembrano voler evocare ancora di più la fatica del lavoro operaio e il rumore dei macchinari.
Gabrielli: Ho sempre pensato che non c’è un film in Italia, oggi, che potrebbe sostenere il peso specifico di una musica come quella, il peso di quei macigni. Non c’è, neanche all’estero. Vale anche per le canzoni pop: non ce n’è una che potrebbe sostenere l’impianto di Sapore di sale (che fu arrangiata da Morricone, nda).

Enrico, l’altra sera nel presentare l’album a Milano non hai citato Morricone per nome, l’hai chiamato M. Per un’associazione di idee un po’ malata m’è venuto in mente il libro di Scurati su Mussolini, M. il figlio del secolo. Anche quest’altro M., quello buono, è stato figlio e uomo del secolo scorso. Ha fatto musica in modo novecentesco. Ci stiamo mettendo alle spalle un modo di concepire e fare musica?
Gabrielli: Nei ventenni di oggi il Novecento non c’è più, è sparito. E Morricone è decisamente rappresentante del secondo Novecento. È figlio del dopoguerra e della Democrazia Cristiana come diceva lui stesso, che fu raccomandato alla RCA dalla DC. La sua concezione è secondo-novecentesca. Non è romantico. La sua generazione non aveva l’afflato romantico che hanno oggi quelli che parlano d’arte di cui dicevi prima. La sua generazione ha fatto tabula rasa del romanticismo dell’Ottocento. E difatti la fase migliore di Morricone è quella che va da fine anni ’50 a inizio ’80, quando la musica colta ha fatto i conti col Novecento in maniera totalmente anti-romantica. Ma devi avere delle competenze per essere anti-romantico. Il romanticismo è anche un modo per lanciare sabbia negli occhi. Per far emozionare le persone senza usare quei mezzi devi conoscere la materia musicale in modo spaventoso. E questa è una cosa che oggi è impossibile trovare.

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