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Bryan “Brain” Mantia: ecco com’è stato suonare coi Guns N’ Roses “sbagliati”

Veniva dal jazz e dal funk, s’è trovato a fronteggiare Axl Rose nel periodo di ‘Chinese Democracy’. I casini scoppiati a Philadelphia, le session, il pollaio costruito in studio, i concerti notturni: intervista al batterista che amava «l’aura da Led Zeppelin» e la vita senza regole dei Guns

Foto: Jeff Kravitz/FilmMagic/Getty Images

Il tour di Chinese Democracy dei Guns N’ Roses del 2002 e quello di Real Gone di Tom Waits del 2004 hanno ben poco in comune. I Guns suonavano in posti giganteschi sulla scia di un album attesissimo che sarebbe uscito solo sei anni dopo. Erano concerti caotici, compreso quello a Philadelphia finito in una mezza sommossa quando la band non è salita sul palco, tanto da convincere i promoter a cancellare le altre date. Waits, invece, fece 11 concerti in piccoli teatri europei e nordamericani, senza alcun problema. Una cosa però unisce i due tour: alla batteria c’era Bryan “Brain” Mantia, musicista che ha suonato anche con Primus, Serj Tankian, Bootsy Collins, Bernie Worrell, Buckethead e altri.

Cresciuto nella California settentrionale, batterista dai 16 anni d’età anche se sognava di diventare uno skater professionista, s’è appassionato dello stile fusion della Mahavishnu Orchestra e delle band anni ’70 di Miles Davis. Non che il rock fosse assente dalla sia vita: ha visto una sera del 1977 l’ultimo concerto americano dei Led Zeppelin, all’Oakland Coliseum. «Un gran macello, la qual cosa m’è stata d’aiuto quando sono entrato nei Guns», ricorda. «“Arrivi in ritardo e pensi che ti renda figo?”. Le scuse erano del tipo: “La chitarra di Jimmy Page non va”. Secondo me invece si menavano nel backstage».

Dopo aver lasciato la band di Axl Rose più di 10 anni fa, Mantia ha creato musica per il cinema, la tv, i videogame con l’attuale tastierista/corista dei Guns, Melissa Reese. Gli resta un po’ di nostalgia per la vita imprevedibile nei Guns ai tempi di Chinese Democracy. Non gli dispiace condividere qualche storia di quel periodo e delle session dell’album. «Axl vuole che ogni cosa sia al massimo livello e quindi si mette pressione da solo. Ecco perché lo ammiro».

Che nei sapevi dei Guns negli anni ’80 e ’90? Eri un fan?
Non particolarmente. Lo ero di Axl, della sua aura. Ricordo di averlo visto su MTV col boa di piume, anche se Melissa non fa che ripetermi che non era un boa di piume. Comunque, era una di quelle robe che mette anche Dave Navarro quand’è a petto nudo. E insomma c’è questo video di Axl che se la prende con qualcuno del pubblico e si butta di sotto.  Mi sono detto: che figo quel tizio. Quando Buckethead (con cui Mantia aveva suonato, ndr) è entrato nei Guns mi ha detto: «Josh Freese è fuori. Ho parlato di te ad Axl. Interessa?». Oh, cazzo.

Era il 2000 e già stavano dentro Chinese Democracy fino al collo.
Josh aveva già registrato quasi tutti i pezzi.

È un gran batterista, eppure nel disco non c’è. Ci sei soprattutto tu. Come hai affrontato le sue parti?
Abbiamo stili parecchio differenti, un po’ come con Tim [Alexander]. Non sai che mi scrivevano i fan dei Primus: «Hai rovinato la band, l’hai troppo semplificata» oppure «troppo funky» o «Tim è meglio di te». Ok, è un batterista migliore per lo stile del gruppo, siamo amici, lui fa le sue cose. E con Josh è lo stesso. L’ho visto suonare coi Devo. Tecnicamente è notevole. E coi Nine Inch Nails. Suona cose tecniche con una fluidità notevole. Io sono più hip hop, più funk. Ho una buona tecnica, ma un altro stile.

Axl m’ha detto: «Brain, riregistra le canzoni nel tuo stile». Bene. C’è un pezzo pieno di sedicesimi. Ogni volta che Josh arriva al fill, suona gli ottavi con la grancassa, alla Keith Moon. Io sono più Wu-Tang. Quando suono quel ritmo lo faccio alla GZA, periodo Liquid Swords. Lui torna e fa: «Mmm, mi sa che il tuo stile non va bene. Perché non lo fai a modo tuo, ma copiando le parti di Josh?». E io: «Mica mi metto a trascrivere tutta quella roba», anche se effettivamente avrei potuto farlo. Alla fine abbiamo preso una pila di CD e l’abbiamo portata in Sony da un tizio che è mostro nelle trascrizioni.

E quindi mi sono trovato con cinque leggii con su le esatte trascrizioni di quel che suonava Josh. L’ho fatto col mio stile, ma le parti erano le sue. Alla fine abbiamo buttato via gli spartiti e mi sono rimesso a fare le cose a modo mio.

All’epoca quasi tutti trovavano Axl intimidente. Che impressione t’ha fatto la prima volta?
Metteva paura, sì. Il mio sogno era suonare con Miles Davis o Prince, sono finito coi Primus, Tom Waits e Guns, quindi non è che fosse al centro dei miei pensieri. Io gli parlavo dei Wu-Tang, a lui piaceva, credo. Gli sono sempre piaciuti tanti tipi di musica. E forse i miei modi naïf hanno fatto funzionare il rapporto.

Hai cominciato a suonare dal vivo coi Guns nel 2001. Come ti sei rapportato alle parti originali?
Ascoltando vecchi pezzi mi sono accorto che erano più complicati di quel che sembrava. Adler suonava come Alex Van Halen. Faceva le parti di chitarra sui piatti o faceva i bassi, non si occupava solo del groove. Faceva cose complicate, con anche cinque sezioni diverse. Sorum era più un metronomo. E gli interessava sapere come gli stavano i capelli, come cadevano le catene. Non ho nulla contro di lui, eh? Immagino sia un bel tipo. Ma sono più simile ad Adler, al suo amore per lo strumento.

Erano i primi concerti che facevano dal 1993. C’era un sacco di attenzione. Anche di pressione?
Io di sicuro ero nervoso: era un sacco di musica da ricordare e non era esattamente lo stile mio. Non c’era la libertà dei Primus, con loro era un po’ come fare del jazz, non c’era neanche la setlist, le canzoni le chiamava Les Claypool e noi attaccavamo. In quanto ai Guns, ero nervoso per motivi tecnici, speravo di fare bene, di dare il mio apporto. Non capivo le proporzioni della cosa, del fatto che senza Slash e Duff era tutto sulle spalle di Axl. Mi premeva fare le cose per bene. Solo in seguito ho realizzato: cazzo, sono uscito vivo da quella roba lì.

I fan erano incazzati. Volevano la vecchia band.
Al 100%.

Te li ricordi i casini a Philadelphia?
Di brutto. Sono entrato nella band per l’aura tipo Led Zeppelin. Mi piaceva. Tutt’attorno la gente era schizzata: «Oddio, Axl è in ritardo di due ore». Io invece me ne stavo lì col mio gelato: «E chi se ne frega? Magari non suoniamo nemmeno». La situazione era sempre caotica e a me piaceva. A volte sul palco era brillante, altre volte andava fuori di testa. Benissimo per me.

Ricordo perfettamente Philadelphia. Ero in hotel. Continuavo a chiamare il tour manager. «Devo venire? Si suona? Che succede?». Ma lui mi diceva di restare lì. La sera prima avevamo fatto il Madison Square Garden ed era stato grandioso. C’erano Beyonce, Jay-Z e Chris Rock che se la godevano. Il giorno dopo siamo a Philly e Axl è sparito. E sai cosa? A me piace. Sono lì che mi mangio un piatto di pasta bello tranquillo. Mi scrive la moglie di Mix Master Mike: «Ehi Brain, ma suonate o che? La gente sta lanciando cose e se la sta prendendo con Mix Master Mike, che sta facendo il suo dj set da tipo un’ora e mezza». Finalmente arriva la chiamata. Dicono: «Si va a casa, questo è l’ultimo show». Oh cazzo…

Sai cosa? Se non se la sentiva di cantare, non veniva. Sapeva che la cosa avrebbe avuto delle conseguenze, tipo una rivolta o la cancellazione del tour, ma non sembrava curarsene all’epoca. Non dico che sia giusto, ma è il tipo di storia che senti su Bernie Worrell e George Clinton. Ora però Melissa mi dice che Guns N’ Roses sono puntuali. Fanno concerti di quattro ore, bellissimi. A me restano le storie, le esperienze. Sennò sono solo un tizio che suona la batteria, sai che noia.

So che la risposta non è facile, ma detto in poche parole, semplicemente, perché ci sono voluti 10 anni per fare Chinese Democracy?
(Ride) Perché è partito come un progetto della vecchia band. Ci sono stati due o tre anni di caos, poi Slash, Duff e Matt Sorum hanno mollato. È arrivato Josh. Altri due anni. Hanno cambiato produttori. Quando sono arrivato io, era ancora da capire quale stile seguire, si trattava di una band nuova. E in ogni caso Axl ha i suoi tempi. Poi la cosa si è ingigantita fin a diventare una leggenda: 13 milioni di dollari, dieci anni (ride).

Mentre i soldi andavano, a milioni, le canzoni uscivano di straforo. Com’era starci in mezzo?
Una follia. Il periodo più lungo l’ho passato registrando al Village Recorder, dove i Fleetwood Mac hanno fatto Tusk. Credo che la mia batteria sia stata montata in quello studio per tipo quattro anni. Nel frattempo ho fatto il tour con Tom Waits e Real Gone. Adoravo stare coi Guns, ma facevo anche altro, tra cui prendere lezioni di golf e imparare teoria musicale e programmazione. E mentre sei lì arriva la chiamata: «Axl ti vuole». E io, che avevo deciso che avrei fatto musica dopo aver visto The Song Remains the Same: «È la cosa più simile ai Led Zeppelin che mi sia mai capitata. Cazzo mi frega, che vada avanti tutta la vita, che figata che ci sono voluti 10 anni».

I Beatles hanno fatto Please Please Me in un giorno e non è male, no?
(Ride).

Molti fan pensano che Chinese Democracy sia un bel disco, ma che sia stato rovinato dal troppo lavoro che è stato fatto. Come la vedi?
Una volta in studio mentre riascoltavamo per l’ennesima volta un pezzo ho detto per ridere: «A forza di risentirlo, gli zero e gli uno si stanno consumando». Insomma, sono d’accordo, ma fino a un certo punto. Se lo riascolto, qualcosa ha. Come Appetite? No. Come Use Your Illusion o The Spaghetti Incident? No. Ma ha qualcosa. È molto denso, elettronico, metronomico.

È vero che Buckethead fece costruire un pollaio nello studio?
Vero. Gli pareva di suonare meglio nel pollaio e quindi gliene hanno costruito uno apposta. È il bello di questa band.

Com’è che poi ha mollato gruppo?
Voleva suonare e basta. Diceva: «Perché dev’essere così difficile? Perché non pubblicare l’album e basta?».

I Guns sono tornati a fare concerti nel 2006, in qualche occasione con Izzy. L’atmosfera sembrava buona.
Ogni tour era diverso, ma una cosa li accomuna: il caos. Non sapevi mai cosa sarebbe accaduto dopo pochi giorni. Abbiamo fatto i concerti migliori e quelli peggiori. Era come stare sulle montagne russe. Ma è quello che rendeva interessante il lavoro.

Alcuni concerti cominciavano dopo mezzanotte. Incredibile.
Però quando iniziavamo all’una finivamo alle 4 del mattino e Axl dava tutto. Non l’ho mai visto tirarsi indietro. Magari alle 4 e mezza sei morto dal sonno e lui è lì che urla come un dannato.

Perché te ne sei andato?
Dopo che è nata mia figlia non ero più sicuro di volere stare in giro. Mi piaceva passare del tempo con Tommy [Stinson], ma con Robin [Finck] o Dizzy [Reed] o altri nella band non c’era più quell’atmosfera folle. Sentivo che quell’attitudine era andata e non era più il mio posto. La gente mi chiede: erano degli stronzi? Ma no, ero io che volevo fare altro.

È in quel periodo che hai incontrato Melissa. Tu hai lasciato i Guns nel 2006 e dieci anni dopo la tua partner entra a far parte del gruppo.
Sì, pazzesco. Era l’ultima cosa che ci aspettavamo, ma è stato perfetto.

Avete entrambi parlato dei remix di Chinese Democracy che Axl vi ha chiesto di fare anni fa. Li sentiremo mai?
Me lo auguro. Axl ci ha dato la libertà di prendere quei pezzi, anche la sua voce, e fare quel cazzo che ci pareva. Ci abbiamo messo dentro techno, electro, beat alla Wu-Tang, e ci ha dato la possibilità di fare gli halftime show. Verranno mai pubblicati? È una questione di business. Sono tornati Slash e Duff: gli interessa quella roba?

La gente si riferisce a te come «l’ex batterista dei Guns N’ Roses». Ti dispiace?
Ma no, non me ne preoccupo. Una volta mi spiaceva. Ora, quando ci penso, sono orgoglioso di avere fatto parte di questa storia, di una band ai massimi livelli. Non suonerò mai con Mick Jagger o Miles… Non che li stia paragonando, ma dal punto di vista del rock’n’roll è il massimo a cui si può aspirare. E parlando di cantautori, non riuscirò mai a suonare con Dylan. Però, cazzo, ho suonato con Tom Waits.

Tradotto da Rolling Stone US.

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