Brunori: «Tutti abbiamo dentro un vecchio disilluso e un giovane che cerca verità» | Rolling Stone Italia
Avere vent’anni o cento

Brunori: «Tutti abbiamo dentro un vecchio disilluso e un giovane che cerca verità»

La canzone tratta dal film con Castellitto e Lundini ‘Il più bel secolo della mia vita’, il mercato musicale che va veloce, il pericolo dei megaconcerti, i trapper non così diversi dai CCCP: intervista al cantautore di ‘La vita com’è’

Brunori: «Tutti abbiamo dentro un vecchio disilluso e un giovane che cerca verità»

Brunori

Foto: Bianca Burgo

È possibile racchiudere il senso di un film che dura un’ora e mezza e attraversa cento anni di vita in soli quattro versi? Se ti chiami Brunori Sas, probabilmente sì. Solo che nei titoli di testa andrebbe aggiunta una segnalazione, come in quei video che rischiano di spingere all’emulazione troppe persone: “Don’t try this at home”. O almeno, se ci provate, cercate di avere gli strumenti per farlo e prendetevi un po’ di tempo, altrimenti «sembrano dei post su Facebook». Con altrettante poche parole si spiega l’impresa che ha compiuto il cantautore calabrese nel realizzare una canzone che è diventata il manifesto di una pellicola molto attesa. E non solo per il debutto da attore di Valerio Lundini.

Parliamo de Il più bel secolo della mia vita di Alessandro Bardani (al cinema dal 7 settembre, distribuito da Lucky Red), con Sergio Castellitto e – appunto – Lundini. Il brano che apre e chiude il film parte con questo incipit: “Avere vent’anni o cento non cambia poi mica tanto, se non riesci a vivere la vita com’è” e permette allo spettatore di avere fin da subito a disposizione l’impianto “morale” su cui si basa l’intera storia. Si intitola non a caso La vita com’è e la genesi ce l’ha raccontata il suo autore allargando il tiro a tanto altro: al mercato musicale che va troppo di fretta e «artisticamente è frustrante» e all’accettazione di un cambiamento inevitabile perché «fare il giovanilista è una cazzata, ma anche criticare aprioristicamente». Così come i timori sui megaconcerti che considera «un pericolo dal punto di vista culturale» e la trap che, al contrario, oltre ad ascoltarla grazie ai nipoti, ritiene vitale per la riscoperta dei dialetti e non è distante dalla musica che lo ha formato. «Io ascoltavo i CCCP e paragonarli ai trapper farebbe scandalizzare in molti, ma l’attitudine è la stessa». E a provocazione, rilancia: «Cantare con l’Auto-Tune? Perché no». Ma rivendica il diritto al dissenso: «Tante cose non mi piacciono ed è importante che non mi piacciano».

Che periodo stai attraversando?
Negli ultimi due anni dopo la nascita della bimba sono stato preso da quello. E ha avuto una influenza su ciò che sto immaginando e scrivendo. Anche questa estate mi sono preso il tempo di godermi gli anni belli, visto che tutti mi dicevano: «Mi raccomando, non perderli, che poi non tornano». Sto seguendo alla lettera il consiglio.

Sono reduce dal Not Film Fest di Santarcangelo di Romagna dove si è parlato molto delle colonne sonore. Tu con il regista Alessandro Bardani come hai lavorato?
Di solito il coinvolgimento con i registi nasce dall’amore per una mia canzone. In questo caso ho scritto il pezzo, in altri casi, come con Aldo, Giovanni e Giacomo, ero partito dalle canzoni e il mio impegno si è poi esteso a tutte le parti musicali. Non mi reputo un autore di colonne sonore, anche se mi sono paragonato ad Ennio Morricone. Ma era una battuta che di questi tempi è meglio non fare.

Quindi il tuo approccio rimane sempre quello del cantautore?
Del canzonettaro che nel film cerca di completare il lavoro del regista. Mi sono fatto mandare la sceneggiatura e diverse parti di pre-montato per entrare nella storia ancora prima del montaggio finale e mi hanno aiutato molto nella stesura del pezzo. Mi piace l’idea che la canzone sia collegata alla pellicola e aiuti a comprendere quello che si vede al cinema. Non solo che sia un sottofondo o un accompagnamento, ma che diventi parte della sceneggiatura.

E secondo te ci sei riuscito?
Sono contento perché è all’inizio di una scena importante che racconta il passaggio del tempo. La canzone è come una sorta di premessa di base dell’intero film. Cerco quindi non solo di accompagnare, ma di integrare. È bello quando scrivi per altri perché ti metti al loro servizio. Quando scrivi per te stesso hai un unico giudice o referente. Nel cinema, invece, l’artista è il regista e tu devi aderire alla sua visione salvaguardando anche la tua.

Il brano inizia così: “Avere vent’anni o cento non cambia poi mica tanto, se non riesci a vivere la vita com’è”. È la sintesi perfetta delle vicende umane dei protagonisti. Quanto è difficile condensare così tanto in pochi versi?
Di lavoro ce n’è stato molto. Un aspetto fondamentale di me in questo periodo è che sto sfrondando. E soprattutto cerco di non farmi bastare la prima intuizione. A volte scrivendo di getto puoi trovare del valore, ma lavorandoci non hai per forza una perdita. Anzi, se sei bravo e hai pazienza a capire gli aspetti centrali, il lavoro successivo la fa crescere.

Hai parlato di pazienza, solo che oggi va tutto molto veloce nella musica.
Vedo che c’è questa tendenza da parte delle nuove generazioni e ce l’avevo anch’io quando ero ragazzo, di voler pubblicare subito sentendo che quella cosa ha una sua forza. Tempo fa leggendo un’intervista a Pier Vittorio Tondelli sulla scrittura, diceva che la differenza tra l’intuizione e la letteratura stava proprio nel lavoro fra quell’intuizione e la pubblicazione. In quel viaggio che sta in mezzo. Altrimenti rimane alla stregua di un post su Facebook. Altre volte, a metterci troppo mano la guasti, possono entrare in gioco aspetti che non hanno a che fare con l’ispirazione. Ma se lavori ben direzionato, magari ne esce qualcosa di importante.

Nell’arco della tua carriera hai unito qualità e quantità, con i dischi di platino e la Targa Tenco. Dal tuo osservatorio come vedi cambiare il mondo della musica?
Vedo che la musica continua ad avere un valore fondante, ma sto notando che si muove su canoni di maggiore rapidità, come tutto il resto, rispetto al mondo in cui sono cresciuto io. E questa velocità è spietata e artisticamente frustrante. Lavori per anni e poi, quando è fuori qualcosa di tuo, ha un tempo di circolazione molto breve. Tutto finisce in un calderone. Prima c’era attenzione per le uscite musicali, oggi passano insieme a mille news.

Qual è il rischio?
Se il tempo di attenzione è poco va a discapito di lavori fatti con cura. Dall’altro lato c’è la problematica della scelta su cosa concentrarsi. Leggevo un’intervista a uno dei registi della serie Black Mirror dove spiegava il suo timore di uscire con contenuti che rischiano di essere già sorpassati dalla realtà. Siamo tutti un po’ tutti in quella situazione. Per questo i giovani hanno la necessità della rapidità. Hanno la sensazione che se ci metti troppo, quello che stai facendo diventerà datato. Per chi ha qualche anno in più, come me, questo ti impone di confrontarti con la rapidità senza diventare semplicistico. Oppure di affidarti a un lavoro che cerchi di rimanere fuori dalla contingenza, che però non è semplice. Così come per i mega-eventi.

Trovi che ci sia una tendenza al gigantismo dei live?
Sì, una smania e penso sia collegata ai social. Perché è una propensione che arriva anche da parte del pubblico a voler partecipare ai grandi live, che però vanno a discapito di quelli medio-piccoli. E io, che vengo dall’underground, non la trovo una vittoria della musica, ma una perdita. È la vittoria dell’evento solo per dire di esserci stato. È una deriva il dire «vado a vedere» quel megaconcerto, magari senza neanche sapere chi suona.

Vado a vedere e non vado ad ascoltare.
È normale, perché in quel tipo di eventi la musica non è più centrale, ma una parte del tutto. Però bisogna abituarci per non essere definiti dei boomer. Ormai la musica è parte di qualcosa di più grande. Non è la mia visione,, ma bisogna accettare il cambiamento, però mi spiace molto se va a discapito delle piccole realtà, visto che è proprio da lì che è sempre uscito qualcosa di nuovo e non omologato. Lo trovo un pericolo dal punto di vista culturale.

Questa è stata definita l’estate dei diss e spesso di mezzo ci sono finiti la trap e l’uso dell’Auto-Tune. Tu come vivi il genere che ha monopolizzato le classifiche?
Con curiosità. Non posso fare altrimenti, ho una schiera di nipoti in fissa con la trap che mi hanno inserito in una chat WhatsApp partita dall’ascolto del collettivo FSK e di Chiello. Se sei in relazione con i ragazzi capisci che c’è altro. È chiaro che io sono cresciuto con ascolti diversi, ma di fondo è la stessa cosa che ha solo cambiato forma. Io ascoltavo i CCCP e paragonarli ai trapper farebbe scandalizzare in molti, ma l’attitudine è la stessa. Tante cose non mi piacciono ed è importante che non mi piacciano.

Rivendichi il diritto che non ti piacciano?
Ma certo, altrimenti c’è qualcosa che non va. Se fossi troppo accondiscendente sarebbe strano anche per loro. Ci dev’essere un attrito, come quello che avevo io con i miei genitori e rafforzava la mia crescita personale. Fare il giovanilista è una cazzata, così come criticare aprioristicamente tutto. Un aspetto interessante della trap per me è il recupero del dialetto.

C’è qualcuno in particolare che ti ha colpito?
Ci sono artisti che esprimono concetti sui quali posso essere più o meno d’accordo, però hanno un recupero della forma dialettale che veicolano in modo contemporaneo. Penso ai napoletani come Geolier, ma anche ai calabresi di Calabritish. Uno sta a Crotone, uno a Cosenza e uno a Londra e portano alla ribalta aspetti della Calabria che a livello nazionale non avrebbero tutto questo fascino, ma con loro lo acquista. Trovo tutto questo molto vitale.

Non starai per dirmi che, prima o poi, sentiremo cantare Brunori con l’Auto-Tune?
Perché no? Nasco dalla musica elettronica. Il mio primo gruppo, i Blume, faceva dream pop. Un giorno potrei ritornare alle origini e abbandonare il cantautorato dopo una sorta di crisi di mezza età musicale.

Foto: Bianca Burgo

Anche il pubblico è cambiato. A volte sembra meno propenso all’improvvisazione e alla scoperta dal vivo, lo ha dimostrato il diverbio che ha scatenato la reazione di Morgan a Selinunte. A te è mai successo qualcosa di simile?
A me non è mai capitato. Sono abbastanza moderato, quindi difficilmente mi accadono situazioni del genere. In generale mi sembra che il pubblico fosse molto più critico in passato. C’era la capacità di esprimere dissenso senza sfociare in qualcosa che ferisse. Persino il rapporto giornalista-artista creava un attrito interessante. Mi viene in mente l’intervista di Enzo Biagi a Pier Paolo Pasolini, senza arrivare agli estremi degli anni ’70 con De Gregori processato al Palalido o i dissensi nei confronti di De André che avevano a che fare con aspetti ideologici. Ma l’artista era consapevole di dover fare i conti con un pubblico che aveva delle aspettative, che era anche un motore. Ora ci siamo adagiati a una sorta di pacca sulla spalla costante che non so quanto bene faccia bene, sia agli artisti che al pubblico.

Aspettative che ogni generazione ripone anche sui giovani, dei quali però si parla troppo spesso nelle cronache a causa di violenze che poi finiscono sui social. Tu come cercherai di mettere in guardia tua figlia Fiammetta dai nuovi rischi di questa società?
È complesso rispondere in questo momento, visto che devo consigliare prima a me stesso come muovermi in un nuovo mondo. Sono convinto che l’errore più grande che possa fare un genitore è di voler insegnare qualcosa che non ha ancora capito. Consiglio quindi a me stesso di essere più consapevole e non avere pregiudizi, visto che è normale che il mondo cambi e sarebbe sciocco rimanere ancorati alle proprie posizioni. Con mia figlia cercherò di educarla alla consapevolezza. Poi penso che se questa piantina viene annaffiata bene, il resto arriva di conseguenza. Per guardare il mondo senza etichette e rimanendo attenti e presenti.

Toglici una curiosità, nel film Il più bel secolo della mia vita ti sei riconosciuto più nel personaggio interpretato da Castellitto (Gustavo) o da Lundini (Giovanni)?
In entrambi, è questa la forza del film. All’inizio parteggi per Gustavo, il centenario simpatico, cinico e politicamente scorretto, mentre Lundini è più precisino e puntiglioso. Ma poi la storia è in grado di pareggiare i conti, di farti comprendere che c’è del vero nella visione di entrambi. Mi è piaciuta molto la scena nella vigna. In quel momento Giovanni, che ha subito per tutto il film, fa pensare a Gustavo che la questione non riguarda più solo lui. E credo che ognuno di noi abbia dentro sia un vecchio disilluso che un giovane che cerca verità.

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