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Brian Eno didn’t kill No Wave: a colazione con Arto Lindsay

Fra brioché e caffé, abbiamo parlato di No Wave e della New York di fine anni Settanta con il performer
Foto: Facebook

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«Oggi ho andato al Museo Egizio» dice al microfono Arto Lindsay sfoggiando un italiano non proprio impeccabile. Il suo live al Conservatorio è già arrivato a tre quarti, perciò l’artista americano ex DNA ed ex stella della No Wave newyorchese può concedersi un po’ di informalità con il suo pubblico. La mattina successiva, il 4 novembre, ci diamo appuntamento nell’albergo che fa da centro operativo di Club To Club per fare colazione insieme e scambiare quattro chiacchiere.

Allora, com’era il Museo Egizio?
Bellissimo, peccato che l’abbiamo dovuto visitare velocemente. Avrei voluto più tempo, cosa che non avevo.

I torinesi ne vanno davvero fieri perché è il più grande dopo quello del Cairo e il British di Londra.
E fanno bene. Anche a Firenze ce n’è uno grande, molto bello.

Mi hanno detto che il suo album è quasi pronto.
Ce l’ho qui nel computer, il master completo. L’ho scaricato l’altra sera, non avevo ancora sentito il prodotto finito.

Ce l’ha una copia di backup?
Ovviamente. Meglio essere prudenti, sempre.

Come lo descriverebbe a un amico?
È difficile da riassumere. Ci sono così tanti dettagli…Sono semplicemente felice di essere tornato a fare album dopo così tanto tempo.

Quanto, di preciso?
Dieci anni almeno. Il motivo è che dieci anni fa mi sono ammalato gravemente. Quando sono stato di nuovo meglio, ho deciso di rimettermi al lavoro, di fare qualcosa di diverso. Ho iniziato a scrivere cose per i fatti miei, poi a lavorare sulle collaborazioni. Dopodiché due anni fa sono tornato a suonare con la band, qua e là in giro per i festival. Cinque o sei membri, praticamente la stessa cosa che hai visto ieri sera ma con più persone.

Alla fine, può anche farne a meno di tutti gli altri strumenti. Chitarra e batteria bastano.
Mi ci è voluto un po’ a capirlo ma, sì, è così.

Il live di Arto Lindsay al Conservatorio. Foto: Club To Club

Sto leggendo questo libro, Post Punk di Simon Reynolds, in cui c’è un intero capitolo dedicato alla No Wave. Secondo lui, per riassumere, con la compilation No New York, Brian Eno avrebbe ucciso il movimento stesso. Lei è d’accordo?
È un ragionamento sciocco. Non sono assolutamente d’accordo con l’autore. Com’è possibile uccidere facendo un disco? I ricordi delle persone cambiano col passare degli anni, la memoria è fatta così. Ma i dischi no, quelli rimangono invariati nel tempo, perciò non capisco come si possa uccidere qualcosa preservandolo nel tempo.

Il ragionamento di Reynolds credo che fosse più incentrato sulla troppa notorietà che il disco diede al movimento e alle gelosie dei gruppi esclusi dalla compilation.
Ma il disco non l’ha resa assolutamente famosa. La No Wave è diventata famosa molto lentamente, molto tempo dopo la sua fine. Alla gente piace ritornare a quel periodo, non so perché. C’è da dire che è stato un momento forte, che è finito per rappresentare la New York dell’epoca e non solo.

Com’era vivere nella New York dell’epoca?
Era una città apertissima. Ora è dilaniata da una gentrificazione, come Londra, Amsterdam e tutte le grandi metropoli.

Tornerebbe mai in quella New York se ne avesse la possibilità?
La città all’epoca aveva i suoi pregi ma anche i suoi grandi difetti. La mia generazione è composta per la maggior parte da bianchi che si sono spostati in quell’area perché lì la vita costava poco. Ma le persone che già vivevano lì non avevano scelta, non potevano vivere altrove. C’erano molti crimini, era molto dura. Per molte persone. E poi nei primi anni Ottanta è arrivato l’AIDS a dare il colpo di grazia.

Brutte storie, meglio cambiare argomento. Ieri ha rotto una corda durante il live, ma non sembrava turbato.
Non succede davvero mai, però è vero che sono tutte arrugginite. Mi hai ricordato che devo comprarne una nuova. Comunque uso una dodici corde, non muore nessuno se ne uso undici. Mi passi il sale, gentilmente?

Eccolo.
Grazie

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