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Brent Faiyaz, il talento sbruffone che salverà l’R&B americano

Tenetelo d'occhio perché ricorda The Weeknd agli esordi. Crea una mistica attorno alla musica, scrive pezzi imprevedibili, ha una voce pazzesca, canta di violenza della polizia, amore, sesso e droga

Foto di Craig Barritt/Getty Images for The New School

«Vorrei scusarmi in anticipo per la persona in cui mi trasformerò all’uscita di quest’album», recita un cartellone in Times Square, a New York. In basso c’è la parola Wasteland, il titolo del nuovo disco di Brent Faiyaz.

Se credete che sia una dichiarazione un po’ sbruffona, arrogante o entrambe le cose, sappiate che riflette le aspettative che Faiyaz e il suo entourage nutrono nei confronti del disco. «Penso che la gente non sappia che fino a ora ho impiegato non più del 25% delle mie possibilità», dice l’artista originario del Maryland, con una borsa Goyard in mano, seduto davanti a me nello stesso posto in cui ci siamo visti due anni fa, nell’ufficio di Rolling Stone.

Con quel misero 25% Faiyaz è riuscito a costruirsi una fanbase fedelissima tanto che, quando un giorno ha condiviso la sua geolocalizzazione, s’è ritrovato circondato dai fan che hanno assalito la sua auto pur di riuscire a vederlo. Come The Weeknd agli esordi, anche Faiyaz ha utilizzato la mistica e la musica per creare il proprio seguito e diventare una delle voci più importanti nello scenario R&B attuale. Ed è proprio la voce l’elemento che lo fa spiccare: ricorda quella di Aaliyah, morbida e mai invadente. Non ha cantato solo di amore, o della sua mancanza, ma di tutto, dalla violenza della polizia fino a sesso e droga, con un’onestà brutale. Il suo background come produttore e il suo approccio alla costruzione delle strutture dei pezzi creano, in ogni brano, un vero e proprio viaggio per gli ascoltatori.

Dopo aver pubblicato l’EP Fuck the World nel 2020, in piena pandemia, Faiyaz ha cominciato a «fare più soldi di quanti ne avessi mai avuti» grazie allo streaming. Al momento vanta circa 11 milioni di ascoltatori mensili, solo su Spotify, e lo scorso anno ha collaborato con un cast di musicisti del calibro di Neptunes, Drake e Tyler, the Creator, giusto per fare qualche nome. E ha fatto tutto questo da artista indipendente, in caso vi domandaste per quale etichetta abbia firmato. «Non avevo pianificato nulla di questo», dice. «Quel che avevo in mente non è accaduto o si è trasformato in altro rispetto alle mie previsioni».

Nel 2020 si è trasferito ad Atlanta perché stava con una donna che viveva lì e si è trovato in strada a manifestare, come tanti altri, dopo una serie di omicidi di persone di colore perpetrati dalla polizia. È stato in quel periodo che gli è venuta l’idea per il concept e il titolo del nuovo album. «Eravamo nel pieno della pandemia e la polizia discriminava la nostra gente, per cui ho pensato cose tipo: maledizione, quei figli di puttana ci trattano ancora di merda, sono ancora lì che ammazzano i neri», dice Faiyaz. «Per me, Wasteland è il ritratto di ciò che provo a vivere in questo disastroso panorama post pandemico. Ci sono dei bastardi che stanno togliendo i diritti alle donne. In tutto il mondo sta succedendo così tanta merda. Però casco ancora nei miei vizi. Ho ancora voglia di comprare roba. Ho ancora voglia di scoparmi qualche troia. Ho ancora voglia di devastarmi quasi ogni sera. Per cui scrivo canzoni su come mi sento, così da riuscire a capire cosa cazzo io voglia davvero».

L’ultima volta che abbiamo parlato avevi appena pubblicato Fuck the World, che è diventato un successo a dispetto della pandemia. Con ogni tuo nuovo progetto sei riuscito non solo a mantenere intatta la tua fanbase, ma anche a farla crescere. Come fai?
Cerco di essere trasparente. Di parlare di cose vere, della mia vita. Parlo di me stesso. Mi approccio alla musica come se fossi un pittore. Mi piace renderla nel modo più realistico possibile. È così che mi pare giusto fare, ecco tutto.

Lo scorso anno hai fatto uscire un paio di singoli di grande successo, a cominciare da Gravity, prodotto da DJ Dahi con un featuring di Tyler, the Creator. Com’è nato il progetto?
Adidas ha prenotato uno studio e ci ha messi in contatto. Mi sono trovato subito bene con Dahi e abbiamo fatto qualche sessione insieme. In tutta onestà, credo che questa cosa mi abbia aiutato a migliorare il mio sound: ho visto come Dahi produce e come si muove in studio. Per quella incisione, in particolare, volevo fare qualcosa che suonasse diverso da tutto il resto e credo che ci siamo riusciti. Visto che l’idea era così strana, ho dovuto coinvolgere il nero più strano di tutti. Quella roba suona bizzarra, cazzo, e Tyler ci si è buttato. Avevamo già fatto entrambi dei gran dischi, per cui questa è stata una sciocchezza da tirare fuori.

La scorsa estate hai pubblicato Wasting Time, prodotta dai Neptunes con un featuring di Drake. Ho ascoltato un episodio del podcast di Pharrell Williams, OTHERtone, in cui eri ospite e dicevi che avresti voluto fare qualcosa con lui… e poi è accaduto davvero.
Pharrell e Chad (i Neptunes, ndr) lavorano insieme da decenni e quando sono andato là avevo in mente una sola cosa: fare un disco con uno di loro. Pensavo: «Devo avere almeno uno dei due». Drake ed io abbiamo parlato di collaborare per un minuto scarso. Gli ho detto: «Fai qualcosa su questa roba che ho appena registrato coi Neptunes a Miami». E lui ha risposto: «Non dire altro».

Ricordo che, in quell’episodio di OTHERtone, Pharrell diceva che gli piace creare a Miami. Quali sono i luoghi dove preferisci scrivere musica?
Ovunque. Anche questo album l’ho fatto in diverse città. Un po’ a New York, ad Atlanta, a Los Angeles e anche alle Bahamas. Dappertutto. Mi piace lavorare ovunque mi trovi e raccogliere le vibrazioni dei posti. Quando sono in giro, e magari sono fatto, se sento un’ispirazione che mi spinge a scrivere qualcosa, allora dico subito: «Qualcuno mi prenoti uno studio», ovunque io sia. «Mettete l’ingegnere del suono su un aereo, così posso creare qualcosa qui, adesso».

Parliamo del tuo processo creativo. Come si evolve dal momento in cui inizi a scrivere fino a quando ascoltiamo il brano finito?
Dipende. Sono contento che tu me lo chieda, perché non sarei riuscito a finire questo album senza The-Dream. Lui è una delle persone a cui mi rivolgo quando mi blocco. A volte inizio a fare qualcosa, arrivo a metà e poi non so più dove andare a parare. Però non voglio mandare tutto in vacca solo per il gusto di finire, quindi accantono la cosa e dopo un po’ lo chiamo per farmi aiutare a chiudere il brano. Lui arriva e dà corpo alle cose. Riesce a definire le idee che avevo e che non sapevo come tirare fuori del tutto. Mi ha aiutato in quattro o cinque di questi pezzi.

Quindi il mio processo creativo è molto lungo ed estenuante. A volte mi capita di entrare in studio e finire tutto in un giorno, altre mi ci vogliono mesi. È il motivo per cui ci è voluto così tanto per fare uscire il disco, non volevo pubblicare delle schifezze. Non lo farei mai. Non posso ingannare le persone a cui davvero importa della mia musica e di quello che ho da dire. Quindi ho pensato che avrei dovuto aspettare finché non mi fossero venute le parole giuste, oppure avrei dovuto chiamare il migliore per aiutarmi a farlo.

The-Dream come autore è molto noto e ha lavorato con tutti, inclusa Beyoncé. Pensi che anche tu scriverai per qualcuno, in futuro?
Sicuramente. All’inizio ho fatto la mia gavetta come autore, ma ultimamente non ho più avuto tempo per scrivere roba per altri artisti. Però dopo l’uscita dell’album ho in mente di farlo, e molto.

Alicia Keys partecipa al tuo album nel pezzo Ghetto Gatsby, dove rappa. Come è nata questa cosa?
C’era questa parte in cui volevo una donna che rappasse, ma non volevo assecondare il cliché e chiamare una rapper. Ho fatto ascoltare la traccia ad Alicia e le ho spiegato come volevo che suonasse. Lei è andata in studio e in un’ora aveva finito. Avevo in mente la voce che Alicia Keys ha quando parla con Mos Def in You Don’t Know My Name. Quella. La sua voce, quando parla, è sexy. E lei è stata perfetta, naturale. Vorrei che più persone facessero rappare Alicia Keys nei propri dischi.

In questo album c’è anche Raphael Saadiq: come siete entrati in contatto?
Sì, ha prodotto il pezzo Angel, ha suonato il basso in Ghetto Gatsby e ha suonato la chitarra in Loose Change. È un po’ ovunque nel disco. Ci siamo conosciuti tramite il mio amico Kerby Jean-Raymond (fashion designer e fondatore del marchio Pyer Moss, ndr). Ho incontrato Saadiq il giorno del mio compleanno, in modo casuale. Ci siamo trovati subito bene. Aveva tantissime idee per dei pezzi, non avevo mai sentito nulla di simile. Gli ho detto: «Cosa ci fai con tutta questa roba?». E lui: «Do le mie cose migliori solo a Solange e D’Angelo. Ma ora anche a te»

So che No I.D. ha dato una mano a produrre l’album. Avevi già lavorato con lui in passato. Che ruolo ha avuto invece il produttore Jordan Ware nel definire il sound di Wasteland?
Lui è il fratello maggiore di No I.D.: Jordan ha avuto un ruolo importantissimo, mi ha aiutato ad assemblare questo album e a farlo suonare così come lo sentite, per quanto riguarda la struttura e la forma. Non avevo mai fatto musica con strumenti a corda prima. Mai.

Mi puoi dire di più a riguardo del modo in cui strutturi le tue canzoni? A volte c’è solo la tua voce, una parte strumentale con delle armonie, altre invece lasci che le percussioni creino un crescendo. A volte il pezzo muta totalmente o cambia di tempo a metà, come in Price of Fame
Non mi piace che la gente ascolti e sappia cosa stia per succedere. Non voglio che qualcuno ascolti e pensi «ok, adesso farà così». Mi piace sorprendere l’ascoltatore. Voglio che non sappia cosa cazzo succederà da lì a due secondi, voglio che non abbia la minima idea di cosa sta per accadere. Mi piace sapere che quando uno preme il tasto play e ascolta un mio disco non sappia cosa cazzo lo aspetta, ma è sicuro che alla fine gli piacerà.

Penso anche che mi riesca più facile raccontare storie in questo modo. Mi piace approcciarmi a un disco come se si trattasse di uno spettacolo teatrale o un musical, dove gli strumenti possono creare un’emozione o un colore particolare in una piccola sequenza, per poi non tornare più. Mi piace far raccontare le storie agli strumenti.

Giunto a questo punto della tua carriera, hai già lavorato con molti artisti con cui sognavi di farlo, come i Neptunes. Con chi altro vorresti lavorare?
Probabilmente Babyface, Missy, Beyoncé e Mariah Carey. Se parliamo invece di scrivere e tornare a farlo per altri, vorrei portare la mia impronta, il mio sound e quello che so di saper fare bene ad artisti che ascolto da sempre. Vorrei proprio vedere come suonerebbero queste collaborazioni, capire se può funzionare bene la mia roba mescolata con quella di chi mi ha ispirato.

Dall’ultima volta che sei andato in tour hai pubblicato tre lavori che i fan non hanno mai sentito live. Hai un tour in vista e come pensi di strutturare le scalette?
Sì, sarà una cosa da matti. Dovrò scegliere i pezzi in base al momento, ma in un modo o nell’altro tutti conosceranno a memoria le canzoni. Alla fine pensoche farò i pezzi più nuovi, perché sono più freschi. Merda, però, anche quelli vecchi. Devo pensarci. Saranno concerti lunghissimi.

Tradotto da Rolling Stone US.

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