«Fanculo la nostalgia», Bono racconta il tour di 'The Joshua Tree' | Rolling Stone Italia
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«Fanculo la nostalgia», Bono racconta il tour di ‘The Joshua Tree’

Nel 1987 usciva il capolavoro della band irlandese, che ora torna con un tour (stasera a Roma) che è anche un "grande calcio nelle palle". Parola di Bono, che continua a sognare un mondo migliore anche mentre prepara il nuovo album

«Fanculo la nostalgia», Bono racconta il tour di ‘The Joshua Tree’

Fino a quando gli U2 non hanno dato inizio al loro Joshua Tree 2017 Tour al BC Stadium di Vancouver, il 12 maggio scorso, erano loro i primi a non essere sicuri che il concept che avevano in mente sarebbe effettivamente riuscito. Si trattava pur sempre di uno show costruito intorno a un album che uscì durante gli ultimi anni dell’amministrazione Ronald Reagan, scritto da una band che per l’intera carriera ha rifiutato di lucrare sul proprio passato.

«Non è molto da noi fare feste di compleanno», dice Bono. «Non sapevamo se sarebbe stato possibile tirar fuori un tour che onorasse The Joshua Tree senza essere nostalgici. Sembrava una specie di ossimoro». Nel momento in cui parliamo con Bono, dopo tre show dall’inizio del tour – a Seattle, anche Eddie Vedder ha raggiunto la band sul palco – non ha più dubbi sulla formula vincente messa a punto dalla band per prendere The Joshua Tree dal 1987 e portarlo nel 2017. Abbiamo parlato proprio con il frontman degli U2 di come la band sia arrivata a questo punto, e dove spera di andare adesso. Ripartendo proprio da questo tour.

Da dove ci chiami?
Mi trovo in una soleggiata Los Angeles, cosa che per un irlandese come me è sempre una grande emozione.

Come sta andando il tour?
Oh mio Dio… Devo ammettere che, fino a Vancouver, non sapevamo bene se il concept o la scaletta avrebbero funzionato davvero. È stato un vero sollievo! Personalmente, nella prima data ho avuto qualche difficoltà con i miei monitor in-ear, è stato difficile essere perfettamente intonato: poi mi sono riascoltato e penso sia andata piuttosto bene, ma è stato comunque difficile per me godermi lo show dovendo restare concentrato per superare questa difficoltà. Mi sono sentito molto sollevato quando sono uscito e il resto della band e il nostro staff erano tutti un “Wow, è stato grandioso!”.

Mi è molto piaciuto a Seattle, c’era vera connessione con il pubblico, una cosa che fa proprio la differenza. Ho sentito che, quindi, dovevo mettere tutto me stesso in questa cosa. È molto bello tornare dove hai iniziato, non usare megaschermi. Quello è il modo in cui noi siamo diventati la band che ha scritto The Joshua Tree. Davvero è molto bello suonare così, ma per molti, da quando si sono abituati agli schermi, è davvero difficile. Mi sono detto semplicemente “Possiamo concentrarci solo sulla musica?”, le persone non hanno tirato fuori i loro telefoni ed è stato bellissimo. Io resto in ascolto e quindi devo fare sì che il canto sia il tessuto connettivo, dal mio punto di vista. Non ci sono immagini disponibili, quindi è come al Shea Stadium: tu sei solo questi quattro puntini all’inizio dello show. Poco dopo si annaffia tutto e diventiamo dei giganti: è bello essere formiche per qualche canzone, dal momento che devi concentrarti solo sulla musica visto che
non c’è nient’altro da guardare. Mi sta molto piacendo anche questa risposta entusiasta, corale, del pubblico, che ho visto a Seattle… Sono molto grato per tutto questo.

Dimmi, perché avete voluto fare questo tour?
Prima di tutto per onorare quest’album che ha significato tanto per noi. Non c’era dietro chissà quale progetto, era più una cosa tipo: “Non dovremmo fare qualcosa? Cosa potremmo fare di speciale?”. Poi è arrivata un’idea e la cosa è semplicemente andata avanti da sé. Abbiamo fatto tutto senza essere nostalgici, come se l’album fosse appena uscito: nessuno ne parla come di una cosa del passato, storica. Le persone – e le recensioni – parlano della sua rilevanza oggi.

Non sapevamo se sarebbe stato possibile tirar fuori un tour che onorasse questo disco senza essere nostalgici

Quando stavate immaginando il tour, in quali modi avete pensato di sconfiggere il possibile effetto-nostalgia?
Con la tecnologia, trovando questo schermo high-def 8K; è come se ci fosse un’immagine tridimensionale. Non posso credere che quello non sia il vero Joshua Tree! Puoi toccarlo. Volevamo essere davvero, davvero high tech, quindi abbiamo commissionato questa cosa ad Anton (Corbijn, nda). Ci siamo detti: “Possiamo solo suonare le canzoni senza apparire mai nello schermo?”, abbiamo chiamato la cosa “punk floyd” per un po’ e poi il punk dentro di noi è crollato: “No, no, c’è bisogno di vedere la band a un certo punto”. Appariamo su Bullet the Blue Sky, molto emozionante.

Poi ci siamo davvero esaltati per il terzo atto, come lo chiamiamo tra noi. Il primo atto è per le canzoni che ci hanno portato fino a The Joshua Tree. Il terzo atto nasce dalle domande: “Possiamo andare nel futuro? E come suonerà il futuro?”. Qualcuno ha detto, e potrei essere stato io, che il futuro riguarda le donne. Io lo credo davvero e quindi, dai, facciamo un’ode alle donne! Come sapete lo spirito femminile è cruciale in tempi in cui l’egemonia del maschio è causa di continue violenze e disordini.

Dopo la Seconda Guerra mondiale, persone come John Lennon, Bob Dylan, Joni Mitchell, Marvin Gaye hanno parlato di uno spirito femminile. Gli anni ’60 sono fatti di spirito femminile e sono nati dalle macerie della Guerra. I grandi slanci della coscienza hanno uno spirito femminile. Gli uomini hanno cominciato a somigliare alle donne, si sono fatti crescere i capelli lunghi. È una cosa divertente, è il Rinascimento. Ovunque tu veda lo spirito femminile, lì c’è sempre un balzo della coscienza. La campagna che anche noi stiamo portando avanti, Poverty Is Sexist, è guidata dalle donne, io sto a guardare, sono il solito banditore comunale, sto alla batteria, ma dietro, a cantare, sono le donne e sono felice di questo. Avevamo questa idea di fare un’ode alle donne, e abbiamo pensato: “Cosa succederebbe se incontrassimo una donna, una ragazza, in un campo per rifugiati?” quelle donne che non sono benvenute, quelle che il Presidente Trump non vuole in America, nel Paese che ci ha portato i versi di Emma Lazarus ai piedi della Statua della Libertà. Incontriamo uno di questi immigrati che lui vuole allontanare. Ho commissionato il lavoro all’artista francese JR che non aveva molto tempo per lavorarci.

Dove andare, allora, per trovare questa ragazza? Alla fine l’ha trovata a Zaatari, in un campo in Giordania che ho visitato con mia figlia e mia moglie Ali un anno fa. Ha trovato lì l’incredibile Omaima che parla dell’America come del mondo dei sogni. Lei chiude i suoi occhi e JR le chiede, in una parte del film che noi non trasmettiamo, “Cosa vedi quando pensi all’America?” e lei risponde: “Un posto civilizzato, un posto di brave persone”. Mi spezza il cuore. Abbiamo messo parte di tutto questo nello show: è un bel calcio nelle palle di tutti. Quando pensi che tutto si stia illuminando parte quest’ode alle donne e la cosa che succede dopo è che sì, questa donna ti dà un calcio nelle palle, nel modo più morbido di tutti. Lei dice proprio tutto. A volte, quando la stiamo trasmettendo, devo allontanarmi dal film, non riesco a cantare guardandola. È commovente, piena di dignità e di autorevolezza. In lei c’è qualcosa da leader del futuro.

Ho parlato un secondo con The Edge dopo lo show, mi ha detto che la scaletta è cambiata molto nei giorni precedenti il live. In che modo?
Non la parte centrale, ma la conclusione dello spettacolo, quella parte che va da One a Miss Sarajevo fino a The Little Things That Give You Away. Normalmente non avremmo chiuso in questo modo, ma era molto musicale questa volta fare così.

Avete tolto MLK e inserito Bad.
Sì, perché MLK stava prendendo parte dello spazio occupato da Streets, era dolce ed elegiaca e in quel punto non avevamo bisogno di questo. Sto ancora riflettendo sul fatto che ci siano troppe canzoni all’inizio, per quelle persone nel parterre che non possono vederci: so che per chi è sulle scalinate è fantastico.

Immagino che eseguiate intenzionalmente i pezzi proprio nell’ordine in cui uscirono, giusto?
Sì, è intenzionale. Sentivamo di avere già riproposto Boy e October nell’Innocence and Experience tour del 2015, per esempio abbiamo eseguito i pezzi Gloria e October. Il tema di Innocence and Experience è tratto da un verso dalla canzone Rejoice, che è “I can’t change the world, but I can change the world in me”. L’ho scritto a 22 anni: ecco lo spirito di “Innocence”, ma lo spirito di “Experience” è che invece io posso davvero cambiare il mondo, non il mondo dentro di me. Della prima parte del live sono molto contento, non ci sono state lamentele per la mancanza di schermi, e questo è molto bello perché significa che la gente ascolta, ha capito.

Avete mai pensato alla possibilità di non suonare The Joshua Tree in sequenza?
Ero un po’ spaventato da questa parte del live, ho pensato che quel momento così denso avrebbe potuto rovinare la seconda parte. Se non avesse funzionato non lo avremmo fatto.

Prima di iniziare questo tour avete visto Roger Waters suonare The Wall? Avete visto Springsteen con The River? Siete stati a qualcuno degli show dedicati a quei dischi storici?
Ho visto Roger Waters fare The Wall, ho perso Bruce e sono ancora in lutto per non aver visto Patti Smith che fa Horses, un album che è stato estremamente formativo per noi. Però ho visto Bowie fare Low.

Com’è stato suonare Exit di nuovo?
Ho avvertito un forte autolesionismo, suonandola nel corso degli anni. Sono stato molto felice di smettere, di non suonarla per tanto tempo. Mi spezza le spalle e mi connette, sul palco, a una sorta di spazio davvero oscuro. Preferirei non tornare lì, indietro, ma ho trovato un modo per farla, salvandomi, ripensando alle letture che facevo all’epoca in cui la scrissi. Ho realizzato che la principale influenza fu probabilmente Flannery O’Connor, quindi ho sviluppato questo personaggio, Shadow Man, e ho provato a mettermi nei suoi panni senza alcuna forma di autolesionismo. Sto usando alcuni versi di La saggezza nel sangue di O’Connor. I versi che cito sono “Where you come from is gone, where you thought you were going is never there. Where you are is no good unless you can get away from it”.

In New Year’s Day canti il verso “L’oro è la ragione delle guerre che stiamo pagando” per la prima volta. Sembri ora essere attaccato alle versioni originali dei pezzi, quelle contenute negli album.
Una delle cose divertenti di questi show è che cambio i testi quando voglio e, al tempo stesso, resto fedele agli arrangiamenti degli album. Nei primi anni ’80 stavo in una band per cui, stranamente, i testi non erano affatto prioritari. Era una cosa tipo: “Di che parla il pezzo? Qual è melodia? Qual è il ritmo?”. Inoltre c’era in giro gente come Brian Eno, contraria a un’idea old school di testi. Lui diceva: “Guarda soltanto questi disegni sonori che stai facendo con la voce, perché usare le parole? Canta così e basta”.

Su Unforgettable Fire abbiamo lasciato abbozzata Elvis Presley and America, ma anche alcune delle altre canzoni non sono finite, anche Where The Streets Have No Name non è finita. Ma perché toccarla, alla fine? In qualche modo è una sorta di sketch, per questo amo rimettere mano alle parole. In New Year’s Day io canto “It’s true, it’s true, the people break through”, piccole cose che mi tengono vicino ai brani.

Pensavo che il mondo stesse andando verso una direzione giusta. Poi ti giri, e di colpo ti accorgi che nulla di tutto questo è più vero

Durante Bullet the Blue Sky i fan si aspettavano un discorso simile a quello che hai fatto al Dreamforce Show lo scorso anno, ma non sei andato in quella direzione.
Penso che quello sia un modo per parlare di Donald Trump, ma penso anche che le persone che hanno votato per lui debbano essere benvenute ai nostri live. Credo siano state ingannate, ma li capisco e non voglio dimenticare i motivi per cui questa gente ha votato per lui. Sono convinto che le persone di sinistra debbano davvero tenere le orecchie ben aperte, stare all’erta. Quello che io dico è: “Troveremo un terreno comune cercando di elevarci di livello, di raggiungere un livello più alto”. Penso sia molto importante che le persone sentano questa cosa e quindi, siccome molti miei amici – e, sono sicuro probabilmente anche molti dei vostri amici – dopo la Brexit e le elezioni sentono questo sconforto, che è una parola melodrammatica ma descrive questo senso di afflizione comune, io dico: “Per cosa le persone si sentono addolorate?”.

Inizio a pensare che sia per la loro innocenza, c’è questa generale perdita dell’innocenza. Siamo attivisti, e da quando sono nato il mondo pareva andare meglio ogni giorno. Quando ci si svegliava, persino senza fare nulla, il mondo sembrava andare meglio. Quelli che lavorano nella nostra One Campaign sanno che potevamo parlare di farmaci per l’AIDS e che le persone erano sempre più vaccinate: i numeri relativi alla mortalità infantile si preparavano a un forte calo.

C’erano motivi per essere ottimisti: quando avevo vent’anni cadde il Muro di Berlino e fu liberato Nelson Mandela, a me veniva da pensare che in qualche modo questo pianeta stesse andando sempre di più verso una giusta direzione, che ci fosse un’evoluzione e lo spirito umano si stesse evolvendo in meglio. Poi ti giri, e di colpo ti accorgi che tutto questo non è vero. Deve ancora essere trasformato in realtà: ci sono progetti di legge che girano per la Casa Bianca in cui si prevedono tagli fino al 47% ai reparti di cooperazione e sviluppo, programmi per tenere in vita i bambini, per far vaccinare le persone: è scioccante, ma è reale. La cosa che faccio a metà del concerto è dire: “Ok, è un sogno, forse è ora di svegliarsi”. Forse il sogno stesso ci sta dicendo di svegliarci, e il sogno del Dr. Martin Luther King ci sta dicendo di alzarci. Va bene, è giusto realizzare che sarà difficile, ma possiamo ancora fare tante cose. Siamo pieni di inventiva e di abilità, e il mondo può essere un mondo davvero migliore di questo, ma non lo diventerà da solo: questo è il punto.

Per cambiare argomento: non riesci ancora a suonare la chitarra?
Sì, posso suonare seduto con il manico rivolto verso l’alto e suonare con tre dita in piedi. Dallas Schoo, il tecnico della chitarra di Edge, mi sta incoraggiando a migliorarmi nella slide guitar.

Ti manca suonarla durante il live?
Alla band sicuramente non manca. Io suono più che altro a casa, ma è scomodo. Non credo sia una necessità, comunque.

Ci puoi dire qualcosa sulla scelta di chiudere lo show con una nuova canzone?
L’unico modo in cui fare questo tour, per noi, era suonare una canzone nuova. Il momento era giusto per fare questo tour, era l’album giusto e l’abbiamo fatto, ma alla fine non avrei potuto fare tutto il resto senza suonare la canzone nuova. Avrei voluto suonarne anche di più, di canzoni nuove, questo è sicuro.

A che punto è la realizzazione di Songs of Experience?
Se lo chiedi al resto della band, ti dirà di non chiedere a me queste cose, visto che secondo me era già pronto l’anno scorso. Ma penso che, alla fine, questo periodo di pausa di riflessione abbia fatto bene al disco. Devo dar ragione agli altri, questa volta. Certo, se fosse per Edge, l’anno prossimo sarebbe ancora lì a lavorare al mixaggio. Ma insomma: abbiamo questi brani. Il problema è che, in tutto abbiamo 15 canzoni, ma dobbiamo scendere a 12, non amiamo i dischi troppo lunghi e al momento non abbiamo ancora fatto una vera e propria tracklist. Ma ci sono dei pezzi veri, e uno di questi è The Little Things That Give You Away.

Avete richiamato Steve Lillywhite per finirlo?
Ci tenevamo a suonare dal vivo per farlo davvero coerente. Songs of Innocence ha canzoni davvero speciali e sono davvero soddisfatto e orgoglioso di questi brani, ma se c’è una cosa che devo criticare è la coerenza nella produzione. Un mio amico mi ha detto “Songs of Innocence? Non suona abbastanza innocente. Avrebbe dovuto essere più grezzo”. Quindi non abbiamo voluto continuare, rischiando di ripetere ancora lo stesso errore, così abbiamo risuonato ancora i pezzi. Steve è il migliore con noi in studio di registrazione, quindi ecco, questo è il motivo per cui lo abbiamo voluto ancora con noi.

Se dovessi provare a indovinare, che data d’uscita mi daresti? Inizio 2018?
Mi piacerebbe prima, ma… non fidarti troppo.

Il piano è quello di fare il Songs of Experience tour con lo stesso palco?
Sì, l’Experience and Innocence tour. Cambieranno alcune cose, ma rimarrà di base lo stesso. Abbiamo alcune idee grandiose in cantiere, ma il linguaggio sarà lo stesso dell’ultimo tour.

Vedi qualche possibilità per un Achtung Baby tour nel 2021?
(Ride) Non ho pensato a questa cosa, se mi avessi chiesto cinque anni fa di un tour per The Joshua Tree mi sarei messo a ridere davanti a te. Nel caso, comunque, dovrebbe chiamarsi Zoo.Com.