Quando Bono va in tour di solito porta con sé qualcosa come 200 tir, un palco da 170 tonnellate, centinaia di lavoratori e tre compagni di scuola chiamati Adam, Larry e Edge. All’inizio del 2023 è partito per promuovere l’autobiografia Surrender: 40 canzoni, una storia e ha portato con sé un tavolo, delle sedie, un boccale di birra finto, un tastierista, una violoncellista, un’arpista e poco altro.
Negli show, un ibrido tra concerto rock e monologo in stile Broadway, Bono rende omaggio in modo affettuoso alla moglie Ali Hewson, ai tre compagni di band e al padre scomparso, Paul Hewson, oltre a cantare classici degli U2 come Where the Streets Have No Name, With or Without You e I Will Follow con arrangiamenti minimali.
Il tour ha toccato solo una manciata di città in tutto il mondo e mai in luoghi più grandi di un teatro, quindi la stragrande maggioranza dei fan degli U2 non lo ha visto. Le cose cambieranno il 30 maggio quando il film Bono: Stories of Surrender, presentato in anteprima al Festival di Cannes all’inizio del mese, arriverà su Apple TV+.
Nel bel mezzo di una giornata di promozione molto serrata, a Cannes, abbiamo avuto 18 minuti faccia a faccia con Bono per parlare della realizzazione del suo primo show da solista, del documentario, del nuovo album degli U2 e della salute di Larry Mullen Jr., che ha non ha partecipato alla recente residency della band allo Sphere per riprendersi da un infortunio.
La maggior parte dei tour promozionali per i libri, anche quelli importanti, di solito prevedono interviste e reading. Cosa ti ha convinto a fare una cosa tanto diversa?
Hai centrato il punto. Questo spettacolo teatrale è nato dal desiderio di non fare il solito tour promozionale e, allo stesso tempo, di mantenere vivo l’interesse per il libro. Non sapevo se sarei stato in grado di farlo, ma impersonare altra gente è stata per me una specie di una vacanza. Anche se interpretare mio padre, con quel suo modo di girare la testa… anche fare Luciano Pavarotti è stata una bella sfida. Ho anche trasformato la nostra rock’n’roll band in tre sedie e un tavolo.
Sei abituato a palchi decisamente grandi, a produzioni con budget importanti, ad effetti speciali d’ogni genere. Questa volta il palco era spoglio. Queste limitazioni devono averti costretto a essere creativo.
Vero. Ma in quel tavolo e quelle sedie c’è tutto il massimalismo degli U2. Se non fossi irlandese, sarebbe pretenzioso tirare in ballo L’ultimo nastro di Krapp e Samuel Beckett. Ma lì c’è una semplicità che mi è piaciuto imparare, o meglio reimparare per così dire, perché quando abbiamo iniziato con gli U2 gli effetti speciali li creava il tuo stato d’animo. I fuochi d’artificio erano i salti in mezzo al pubblico, con tutta l’energia che ne derivava. Ho iniziato a interessarmi ai gesti e a capire quanto possano essere potenti. Un movimento della mano o della testa, fissare una certa persona del pubblico.
«La mia droga preferita è cacciarmi in situazioni in cui mi sento a disagio»
Non avevi mai fatto un concerto intero senza gli altri U2 e questo dai tempi in cui eri adolescente. Avevi qualche timore all’idea di andare in scena da solo?
Ero terrorizzato, ma a quanto pare non mi dispiace. La mia droga preferita è cacciarmi in situazioni in cui mi sento a disagio, perché è in quei contesti che imparo più cose. E studio gli artisti che mirano a rompere la quarta parete: Iggy Pop è stato un maestro d’imprevedibilità, di spontaneità, un maestro nell’entrare in una canzone e diventare la canzone stessa. Poi ci sono attori come Mark Rylance. Sono andato a vederlo in Jerusalem, una cosa incredibile. Molto provocatorio, mi ha molto colpito. Pensa a Patti Smith: si vede che non si sente a suo agio su un palco troppo alto. Durante un concerto del Patti Smith Group che ho visto è arrivata dalla platea, si è fatta strada a gomitate tra la gente ed è salita sul palco. Che entrata! Quand’ero ventenne provavo a fare il contrario. Mi piacciono insomma gli artisti che riescono a sfondare la quarta parete, sedersi sulle tue ginocchia, morderti, derubarti, rapinarti, fare l’amore con te, inseguirti per strada, spezzarti il cuore. Volevo vedere se anch’io potevo essere un artista del genere.
Hai visto Springsteen on Broadway, o qualche one man show recente, per ispirarti nella realizzazione del tuo?
Ho visto Springsteen on Broadway. Ogni volta che vado a vedere Bruce la mia vita in qualche modo cambia. Prendi l’opera. È irlandese-italiano e ti porta all’opera. Jungleland. L’ho visto due volte a Broadway e ho capito che avrei dovuto inventarmi qualcosa di diverso, perché non potevo competere con lui. Ho cercato di creare questi vari personaggi e di interpretarli.

Foto: Apple TV+
Sul palco con te ci sono il tastierista Jacknife Lee, la violoncellista Kate Ellis e l’arpista Gemma Doherty. In che modo t’hanno aiutato a rimodellare le canzoni e ad approcciarti alla tua stessa musica in modo diverso?
Jacknife è una specie di genio. Edge è innamorato dei suoi arrangiamenti ed è l’unico, tra l’altro, che non dice mai: «Che fine ha fatto la chitarra?». Non ragiona così, pensa solo: «Wow, così la canzone ha un altro feeling». Ho avuto il privilegio di cantare Sunday Bloody Sunday davanti a Doherty, che è di Derry ed è una figlia del processo di pace (nato dopo l’Accordo del Venerdì Santo del 10 aprile 1998, ndr). Suona l’arpa, è un’innovatrice. Ha anche un certo spirito punk: mette il distorsore all’arpa ed è un’ottima cantante. Quella versione di Sunday Bloody Sunday… ho paura di non riuscire a replicarla mai più, perché ho volato altissimo. È stato come se Nina Simone fosse entrata nella stanza. Wow. Credo sia stato Philip Glass a dire che Kate Ellis è una delle violoncelliste più incredibili con cui abbia mai lavorato. Ero circondato da gente di talento.
Ma, in modo del tutto random, mi succede ancora questa cosa prima di salire sul palco: posso essere tranquillissimo, andare in scena bello sicuro e impaziente di cominciare, oppure capita che mi venga da vomitare. Mi pare di non avere ancora superato quella cosa, anche se ho 60 anni. Quando avrò un po’ di tempo, e a quanto pare succederà nei prossimi mesi, potrei aver bisogno di andare da uno strizzacervelli e stendermi sul suo divanetto. Ma immagino che al momento il mio strizzacervelli sia il pubblico. Insomma, se ci penso, è proprio quel che succede.
Lo spettacolo per molti versi è un omaggio a tuo padre. L’hai fatto per ripagarlo di tutto quel che ha fatto per te?
Certo. Credo che volessi avvicinarmi a lui e alla fine è successo ed è diventato lui il protagonista. Aveva le battute migliori. Mi divertiva interpretarlo sera dopo sera… e poi quelle battute. Quando dico: «Sai che Pavarotti mi ha telefonato per chiedermi una canzone?», lui risponde: «Ha sbagliato numero?». Era un tipo divertente. E ora lo capisco meglio.
È stato il vostro vecchio editore, Jann Wenner, a convincermene. È stato lui 20 anni fa, dopo una di quelle interviste massacranti che fate per Rolling Stone in cui ci tartassate. Alla fine mi ha detto: «Credo che tu debba delle scuse a tuo padre». E io: «Cosa? Ti ho appena detto che razza di tipo difficile era». E lui: «No, mi hai solo detto quanto tu eri difficile». Quando mi sono scusato con mio padre sono cambiate tante cose per me, ma purtroppo non c’era più.
«Amo gli artisti che sfondano la quarta parete, si siedono sulle tue ginocchia, ti rapinano, fanno l’amore con te, ti spezzano il cuore»
Parli imitando la sua voce, ti metti sulla sua sedia, diventi lui sul palco. È una cosa molto potente. È stato catartico, immagino.
Non ne so abbastanza di teatro per sapere se è già stato fatto, ma forse dovrei mettere un avvertimento circa rischi per la salute, non sono certo che siamo assicurati. Ma sai cosa? Una parte di me era più preoccupata che la gente non ridesse alle mie battute. Ci fidiamo delle persone che non fanno ridere? Non ne sono così sicuro. La gente non viene ai concerti degli U2 per farsi delle gran risate, ma io non ho mai partecipato a una bella conversazione in cui non si ridesse.
Il regista di Surrender è Andrew Dominik. Quale approccio gli hai chiesto di adottare?
Ha fatto un film intitolato Chopper, che è uno dei miei preferiti e aveva come protagonista Eric Bana quand’era un comico, non il Bana che conosciamo ora. Chiaramente è bravissimo a lavorare con i non-attori. Ha anche lavorato con Nick Cave, quindi sapevo che di musica ne capiva. L’ho conosciuto e mi è piaciuto. Frequentavamo gli stessi giri e lui spesso faceva ridere di gusto mia moglie. Ha una sordità vera e una di comodo. Quando discutevamo di una scena o altro, se non gli piaceva quel che stavo dicendo, faceva: «Non ti sento, amico». Ma gli sono grato perché ha tirato fuori da me delle belle performance. Non so come abbia fatto. E poi che luci! Abbiamo ottenuto questo risultato grazie a Erik Messerschmidt, il direttore della fotografia, e a tutta una serie di altre persone bravissime che ci hanno lavorato su. Non ci siano limitati a filmare lo show. «Bono», mi ha detto, «questa è un’altra forma d’arte, devi lasciare che sia io a guidarla in un’altra direzione». E io: «Voglio solo che si veda quel che succede sul palco». «Lasciarmi fare». Non so se sia venuto come desiderava, ma sono orgoglioso del lavoro che abbiamo fatto assieme.
L’ultimo album di inediti degli U2 è di otto anni fa, è il tempo più lungo mai trascorso tra due vostri dischi e i fan sono sempre più impazienti. Cosa puoi dire per tirarli su di morale?
Hanno ragione. La nostalgia non va tollerata per troppo tempo, ma a volte bisogna fare i conti col passato per arrivare al futuro e al presente. Vogliamo tornare al presente, al momento in cui ci troviamo. Abbiamo registrato e mi pare che sia questo il futuro. Abbiamo dovuto risolvere un po’ di questioni e ora ne siamo usciti.
Come sta Larry? Sta suonando con voi in studio?
Abbiamo suonato insieme nella stessa stanza, tutti e quattro. E posso dire che ha superato del tutto la serie di infortuni che ha avuto. Il suo modo di suonare è innovativo al massimo. Dà tutto per la band e non vuole parlare d’altro, il che è piuttosto sorprendente. Tra l’altro, stare in una stanza in un gruppo dove ogni singolo musicista ha un ruolo sia come singolo che nell’insieme è molto raro, perché al giorno d’oggi la musica viene assemblata. Anche alcuni nostri brani sono stati assemblati ed è qualcosa che faremo ancora, ma cercare di catturare un momento speciale di una rock band che dà il massimo è il senso del disco che stiamo facendo e che abbiamo registrato, anche se non l’abbiamo ancora finito.
Si sa quando potrebbe essere terminato?
No.
Chiudo con una domanda su Pop. Si avvicina il trentesimo anniversario: ci sarà un box set?
Non ci ho pensato. Sono sicuro che qualcuno sveglio ci sia arrivato, ma se l’ha fatto, io non ne so nulla. Il video del PopMart Tour in Messico è uno degli show più straordinari di sempre degli U2. Adoro l’immaginario di quell’album. Se quel disco aveva una caratteristica era quella di non essere pop.