Bob Mould si è svegliato da poco e mi attende davanti al suo pc, ma la telecamera spenta mi permette di immaginarmi con lui in un bar di San Francisco a parlare dei tempi passati. Austero, ma incline alla battuta e al riso, Mould è un po’ come la sua musica: l’unione perfetta di sentimenti contrastanti. Come se ogni parola che pronuncia fosse ancora strettamente legata a una chitarra distorta e a un palco saturo di feedback.
A più di quattro decenni dal debutto degli Hüsker Dü (New Day Rising è un fresco quarantenne), Mould è ancora una delle voci più lucide e coerenti del rock alternativo e il suo ultimo album Here We Go Crazy è la consueta esplosione controllata: diretto, urgente, ma anche sorprendentemente riflessivo. Ci ha parlato delle differenze tra il nuovo lavoro e il suo passato più recente, scavando nel significato che ancora oggi ha fare musica con rabbia e consapevolezza. Non mancano i ricordi intensi della stagione degli Hüsker Dü, né le riflessioni – sincere, a volte dolorose – sul rapporto complesso e profondo con Grant Hart, suo compagno d’armi e antagonista creativo scomparso nel 2017. Un dialogo tra memoria e presente, tra luci e ombre che dimostra che, per Mould, il rumore è ancora una forma di verità.
Chi è Bob Mould oggi?
Chi sono io? Sono un vecchio gay. Un vecchio gay che ha ancora un lavoro, un lavoro che amo.
Perché abbiamo dovuto aspettare così tanto per un nuovo album? Non farlo mai più, per favore.
Beh, cerchiamo di non avere un’altra pandemia allora. Diciamo che ho poco controllo su certi eventi, sai, il mondo si è fermato per qualche anno. E per me, per la mia vita da musicista, va tutto a cicli. Un ciclo inizia quando scrivo il disco, poi lo registro e aspetto qualche mese. L’ultima parte del ciclo è il tour, dove mischio le nuove canzoni insieme a quelle storiche. Quella è per me la vera prova di quanto sono buone le nuove canzoni. Non ho potuto portare Blue Hearts in tour, quindi è stato molto difficile capire se avevo fatto un buon lavoro.
Così all’inizio del 2022 ho iniziato a fare molti tour elettrici da solista e ho iniziato a suonare le nuove canzoni. Le persone hanno risposto bene, ho potuto chiudere il cerchio e ripartire.
Dopo Blue Hearts, forse il tuo album decisamente più politico, in che modo Here We Go Crazy rappresenta la tua visione attuale del mondo e la tua evoluzione artistica?
La maggior parte del materiale è stato scritto durante l’amministrazione Biden, quindi in un momento molto incerto, con una pandemia e i conflitti che conosciamo. Eppure Here We Go Crazy non è così politico come Blue Hearts. Voglio dire, nonostante tutto, il mondo stava iniziando a riprendersi un po’ dai primi quattro anni di Trump. Abbiamo iniziato a registrare a gennaio 2024 e lo scorso mi era sembrato davvero un buon anno. Mi sentivo abbastanza bene riguardo all’America e alle persone che facevano le scelte giuste. Per questo non senti nel disco la stessa urgenza politica. Purtoppo mi sbagliavo.
Hai paura del momento che stiamo vivendo? Credi davvero che possa scoppiare una nuova guerra mondiale?
Beh, per quel che ne so, non la si chiama guerra mondiale finché non è finita. Quindi sì, ho paura, sono molto preoccupato. Gli ultimi due mesi qui sono stati molto difficili. Come americano progressista mi sento male per quello che l’America sta facendo ai nostri alleati, alle nostre amicizie e ai nostri partner commerciali. Al mondo libero in generale. È orribile e non avrei mai immaginato che saremmo arrivati ancora a questo punto. Abbiamo avuto una guerra civile nel 1860 e, a parte Pearl Harbor o l’11 settembre, l’America non conosce perché non le ha vissute le conseguenze di una guerra. In Europa lo capite molto bene. Mi spiace che stia succedendo, da americano mi sento quasi in colpa.
La title track dà subito l’idea del tono dell’album. Puoi condividere la storia dietro questa canzone e cosa rappresenta nel contesto dell’album? Forse mi sbaglio, ma mi ricorda un po’ il tuo periodo con gli Sugar.
Me l’hanno detto subito, già mentre stavamo registrando, ma non è stato intenzionale. Penso che ogni buona title track di un album, come Sgt. Pepper’s per esempio, rappresenti un’orchestra che si sta accordando e che si connette con le persone a cui si presenta. Ho fatto l’esempio dei Beatles perché senti proprio la fanfara e qualcuno che si fa avanti e dice: “Siamo la Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, speriamo che vi piaccia lo spettacolo”. In quel momento stanno definendo un tempo, un luogo e i protagonisti del racconto. Chiaramente non scrivi una canzone sapendo che darà il titolo al disco, ma ti accorgi subito di quando ce l’hai tra le mani.
So che ti sei isolato per un periodo durante la scrittura del disco. Quale luogo hai scelto. O è stato il luogo a scegliere te?
Negli ultimi anni ho trascorso un bel po’ di tempo nel deserto della California meridionale, solo sabbia, natura e montagne. La mia musica si è sempre basata sul contrasto e vivendo in un luogo frenetico come San Francisco, in una zona dove c’è una comunità LGBTQ molto grande e vivace, a un certo punto ho sentito il bisogno di avere meno chiasso intorno a me. Sentivo il bisogno di incorporare alcune immagini della mia vita quotidiana in quello spazio aperto. È stato interessante vivere quel contrasto. Ho compreso che si può impazzire tanto nelle grandi città in cui ho vissuto, come Berlino, New York o Washington, che nel deserto. L’unica certezza è che tendiamo a diventare matti. Quindi, come in Sgt. Pepper per l’appunto, con Here We Go Crazy stabilisco tempo e luogo del viaggio che sta per iniziare.
Continui a parlare dei Beatles. Non a caso tu e Grant Hart per la stampa siete stati i Lennon e McCartney del punk. Ami questa definizione?
Mi ha sempre inorgoglito. I Beatles sono la più grande band della storia, non contemplo nemmeno i gusti musicali quando lo dico. Considera che quello che ritengo ancora essere il miglior disco degli Hüsker Dü, Flip Your Wig, prende il nome da un gioco da tavolo sui Beatles, una specie di Monopoly in cui la band è impegnata in tour. Pensa quanto si saranno incazzati gli ideatori quando il gruppo ha deciso di non suonare più dal vivo.
Parlando di Flip Your Wig, penso che Divide and Conquer sia una delle canzoni più attuali scritte negli anni ’80. Sembra di leggere una disamina di ciò che stiamo vivendo.
Oh, grazie. Certo, avrei preferito suonasse molto datata oggi, ma la verità è che il mondo ha sempre funzionato così, anche prima di quella canzone. Quindi speravo semplicemente che le cose potessero cambiare. Continuo ad amare quel disco perché è l’unico dove io e Grant abbiamo avuto il controllo totale. Già con New Day Rising avevamo cominciato quel processo, registrando finalmente il primo album nel Minnesota, a casa nostra dopo anni a registrare lontano. E questo perché per Everything Falls Apart, Metal Circus e Zen Arcade avevamo sempre lavorato con Spot (pseudonimo di Glen Lockett, produttore e ingegnere del suono dell’etichetta discografica SST Records, nda), imparando tantissimo su come si realizzavano dischi.
In New Day Rising però c’era ancora Spot.
Sì, ci voleva così bene che venne da noi, anche se avevamo già anche un altro ingegnere del suono. Infatti è stato l’ultimo lavoro insieme. Quello che senti su Flip Your Wig è dunque solo farina del sacco mia e di Grant. Volevamo che fosse il nostro album pop. Poi passammo alla Warner, quindi già pochi mesi dopo il sogno di avere il controllo assoluto era svanito. Per questo Flip Your Wig è l’apice della band. C’era tanta eccitazione intorno a noi, tutto era alla massima velocità. E la scrittura delle canzoni era semplicemente fantastica. Andavano ancora d’accordo, eravamo ancora noi contro il mondo. Capisco chi mi dice: «Oh, Bob, Zen Arcade è l’album più importante o Warehouse è maturo», tuttavia se vuoi capire chi eravamo devi ascoltare quel disco.
In Neanderthal rifletti sulla tua esperienza di crescita in una famiglia decisamente turbolenta. A un primo ascolto ci ho sentito molta ironia, poi sopraggiunge un po’ di oscurità.
Il titolo fa riferimento a due cose: al ritmo della batteria che sembra arrivare da un cavernicolo e a un’immagine un po’ esagerata di me da giovane, quasi caricaturale. Le forme sproporzionate, il testone, cose così. Poi più va avanti e più effettivamente diventa autoironica, quando inizio a parlare di come sono diventato anziano. È molto esagerata, parla del dover sempre essere pronti a combattere o a scappare per rimanere in vita. Penso sia una canzone divertente, molto punk. Non è pensata per essere una canzone cupa, anche se suppongo che a un certo punto vada in quella direzione. È solo una piccola canzone punk-rock divertente che mette impietosamente in contrapposizione il me bambino e il me odierno.
Jimmy Page ha passato una vita a cervare la giusta sintesi tra luce ed ombra, voi siete riusciti a miscelare melodia e frastuono come nessun altro. Pixies e Nirvana non hanno inventato nulla, dunque.
Conosci il detto della patata bollente? Tu hai questa cosa che si scalda tra le mani e a un certo punto diventa troppo calda per trattenerla e la lanci a qualcun alto, che la riceve rovente. E così via. I Pixies forse sono stati i primi a prendere
la patata bollente e hanno fatto un sacco di cose uniche, originali. Sai, il modo in cui Charles (Frank Black/Black Francis, nda) racconta storie è molto più surreale del mio. Pensandoci ora, è più vicino a quello di Grant. I Pixies hanno quindi lanciato la patata bollente e forse i Nirvana l’hanno raccolta.
Il modo di raccontare storie di Cobain era qualcosa di ancora differente.
Sì, il suo storytelling era decisamente unico e incisivo come pochissimi. In particolare i comportamenti problematici degli uomini nei confronti delle donne, parlarne in pubblico non era facile, il sistema era molto diverso da quello odierno. Come vedi, tutti aggiungono qualcosa di unico alla patata bollente.
Sei stato il primo a introdurre in ambito punk e hardcore tematiche diverse da quelle dei gruppi che vi circondavano. Penso a un pezzo sulla depressione come Hardly Getting Over It, ma ce ne sarebbero decine.
Devi pensare in primis che io e Grant eravamo due omosessuali all’interno di uno dei circuiti più maschilisti in assoluto nei primi anni ’80. Quindi scrivere un certo tipo di canzone era il problema minore (ride). Semplicemente parlavamo del nostro lato umano. Oggi sto alla grande, ma la depressione mi ha afflitto per anni e ogni tanto torna a trovarmi. Man mano che invecchio, capisco meglio il mio lavoro e ho compreso che quando mi sento giù tendo a scrivere di più, forse perchè mi aiuta a capire cosa mi sta succedendo. Mi aiuta ad uscire dall’oscurità.
Ora però mi sembri in grande forma, quindi niente nuova musica?
Questo è il momento di essere felici. Sono nel deserto, sono le 8:30 e ci sono già 22 gradi. Sarà molto caldo e soleggiato tutto il giorno e dopo cinque ore di interviste potrò uscire, sedermi al sole e prendere aria fresca. Sono appena tornato da un viaggio promozionale di grande successo in Europa, poi con la band siamo appena stati al Tonight Show e abbiamo spaccato. Le persone stanno impazzendo e amano il nuovo disco. Voglio dire, questo è davvero mio momento, giusto? Sì, non scriverò canzoni (ride).
Sei tornato alla formazione a tre, ma in Italia ti vedremo in tour solo con chitarra e voce. Cosa dobbiamo aspettarci dalla scaletta?
È passato molto tempo dall’ultima volta che sono stato a Roma e Milano (ci suonerà rispettivamente l’11 e 12 novembre, ndr), quindi sono molto eccitato. Mi dite sempre che forse gli Hüsker Dü non avranno sfondato, ma per chi li conosce non esiste altro e la cosa mi fa sempre ridere. Mi ricordo l’amore con cui mi accoglieste prima dei Foo Fighters nel 2011. Onestamente l’approccio alle date soliste è il medesimo di quando suono con la band, ma chiaramente lì non ci sono batterie e bassi, quindi il pubblico ha bisogno di qualche minuto per capire cosa sta succedendo. Il concerto parte davvero solo dopo due o tre pezzi, perché il pubblico deve fare uno sforzo maggiore. Come quando vai a vedere Dylan e a un certo punto della canzone senti un boato: è il segno che la gente è riuscita a capire la canzone che sta eseguendo (ride).
I testi di New Day Rising mi sono sempre sembrati più astratti di quelli di Zen Arcade. C’è stato un cambiamento consapevole nel tuo approccio tra questi due album o si è evoluto naturalmente?
Penso che si sia evoluto in modo abbastanza naturale. Ti ricordi quando ti parlavo dei cicli? Alla metà del 1984 Zen Arcade era già stato registrato. Tutto era pronto per partire, ma la SST Records fece un errore e tutto slittò di tre mesi. Mesi in cui registrammo anche New Day Rising. Quindi, se pensi a quando stavo descrivendo i cicli, non sapevamo nemmeno quale sarebbe stata la reazione a Zen Arcade mentre stavamo scrivendo e registrando New Day Rising. Per questo non sono sicuro di avere una buona risposta alla tua domanda.
Quanto ti manca Grant?
Mi manca ogni giorno. Grant stava facendo un sacco di ottimo lavoro negli ultimi anni qui. Pensa solo al suo ultimo album, è qualcosa di inarrivabile. Abbiamo avuto, soprattutto io, la fortuna di ritrovarci negli ultimi tempi. Sarebbe stato davvero da stronzi finire diversamente. Abbiamo lavorato tantissimo al cofanetto Savage Young Dü. Abbiamo trascorso tantissimo tempo insieme prima che morisse e ci siamo divertiti molto. Andava tutto bene. Abbiamo riso e pianto, abbiamo visto concerti e mostre. Qualcuno mi ha detto che potevamo farlo prima, io dico che potevamo anche non farlo proprio e invece è successo. È stata una grande lezione. Andate a recuperare la sua musica, fatevi un regalo.