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The Bloody Beetroots: «Siamo i punk dell’elettronica»

Sir Bob Cornelius Rifo continua la sua battaglia contro ‘l'EDM più becera’ e la musica usa e getta, tra il ritorno in consolle, le prove per il nuovo album e l'idea di collaborare con Liberato

Foto di Mark Kola

«Per la prima data abbiamo scelto Venezia, abbiamo giocato in casa…», racconta sorridendo Sir Bob Cornelius Rifo – mente, corpo e maschera dietro il progetto Bloody Beetroots. «Quando veniamo a suonare in Italia c’è sempre un rapporto speciale, come fosse una festa tra amici in cui ci si ritrova a far casino tutti insieme», aggiunge, parlando del suo nuovo tour partito proprio dal capoluogo veneto lo scorso 18 gennaio, con le prossime date fissate il 31 gennaio ai Magazzini Generali di Milano e il 1 febbraio al Locomotiv Club di Bologna. «Già dalla prima data ho notato che il pubblico di Bloody Beetroots è cambiato. Negli ultimi anni soprattutto c’è stato un ricambio generazionale importante; ho visto molte facce nuove, facce giovani. Vedo che il pubblico è molto più caldo da quando siamo ritornati a suonare nei club». Infatti, dopo il tour live per l’ultimo album The Great Electronic Swindle, il producer di Bassano del Grappa ha deciso di prendersi una ‘pausa’ dal palco, sempre a modo suo, ritornando dietro la consolle. «Da Romborama era partito un lungo periodo in cui pensavo troppo, in cui ero troppo preso a cercare nuove vie in cui far evolvere il suono Bloody Beetroots. Ora siamo ripartiti da zero, come indipendenti, come i punk dell’elettronica che siamo sempre stati ma pubblicando solo tracce destinate al club, e da qui vogliamo ripartire per quello che sarà il nostro futuro».

Un po’ come successo per il tour SBCR, dove eri ritornato a fare il dj dopo tanti anni di live con i Bloody Beetroots.
Esattamente, SBCR nasceva proprio dalla stanchezza del formato da band live. Volevo sperimentare con sonorità diverse, con la glitch, con l’electro più oscura. Il dj set come Bloody Beetroots, tuttavia, è molto diverso, molto più fisico: suono molte nostre tracce e uso la consolle come fosse un palco, mescolando la performance da dj a momenti simili al live show, un ibrido che ho creato ad hoc. Stiamo sperimentando molto, esplorando generi come la bass house, la drum & bass, la tech house, la progressive: suoni in cui vedo il futuro di Bloody Beetroots.

Insomma, con questo tour stai portando al pubblico anche i brani per un nuovo album.
Credo proprio di si. D’altronde, se riguardo al mio passato, c’è sempre stato il momento in cui decidevo di staccare dalla live band per tornare a sperimentare con la consolle, che è il formato perfetto e più immediato per vedere come il pubblico reagisce a quello che sto producendo in questo momento. Durante i miei set cerco sempre di mettere tracce a cui sto lavorando per vedere se funzionano, e lo percepisco dall’impatto che hanno sul dancefloor. Per me tornare nei club significa anche potermi ritagliare uno spazio in cui analizzare il mio percorso e preparare quello che sarà il nuovo album.

Foto: Mark Kola

Album per cui hai deciso di percorrere vie nuove, più vicine al clubbing.
Il progetto Bloody Beetroots dura dal 2006, e sarebbe stato impossibile rimanere sui palchi di tutto il mondo per così tanto tempo se non avessi cercato una continua evoluzione. Durante questi anni abbiamo creato il nostro suono e trasformato la figura del semplice dj in un performer da palco con la live band alle spalle; questo mi ha richiesto una disciplina ferrea in tutto quello che faccio, compresa la ricerca nel sound design. In passato ha dovuto spesso ripartire da zero, quando vedevo che i nostri suoni venivano ‘inglobati’ nell’EDM più becera, trascinati nei set da mani al cielo. La nostra missione, invece, è sempre stata quella di rimanere punk, di rimanere l’antagonista dell’elettronica usa e getta, quella che continua a divorare artisti underground e buttare la loro musica nell’immondizia; persino la techno è stata trasformata in un fenomeno di massa. Io cerco di combattere tutto questo rimanendo fuori da questo algoritmo in cui tutto viene massificato.

Quindi per i punk dell’elettronica non c’è spazio per un imborghesimento futuro?
Ma mi hai visto? (ride). Se mai arrivasse un imborghesimento per me significherebbe prendermi una baita e andare a tagliare la legna. Non ho un’automobile, non ho una casa, sono in giro per il mondo da quindici anni e continuo ad averne bisogno per scrivere musica. Non ho mai cercato di cambiare quello che sono, e il mio status è lo stesso di quando sono partito. Mi sono sempre sentito una persona imprigionata ed è nella musica che riesco a liberarmi, questo mi basta: uno zaino, una valigia…

E una maschera. Hai mai avuto la tentazione di liberatene?
Mai, finché farò questo lavoro ci sarà sempre la maschera a proteggermi. Certo, se da una parte la maschera ha fatto da catalizzatore per Bloody Beetroots, dall’altra è sempre stata una barriera con cui proteggere la mia vita privata, a cui tengo moltissimo. Amo vivere la mia vita quotidiana perché credo che alla fama si accompagni sempre l’alienazione e il distacco dalla società, distacco da cui non può nascere musica interessante.

La scelta dell’anonimato, inoltre, alimenta sempre la curiosità, come è successo con Liberato. Dopo aver collaborato con artisti ‘lontani’ da te come Paul McCartney, Perry Farrell o i Jet, ti piacerebbe lavorare insieme a lui?
Mi piacerebbe farlo, ma dovrebbe avvenire in maniera assolutamente naturale. Le collaborazioni che ho fatto non sono mai state forzate, ma sono sempre scaturite da un rapporto di amicizia. Non ho mai cercato il nome per avere visibilità e se arriveranno delle collaborazioni ‘strane’ è perché sarà giusto farle. A prescindere dalla scelta dell’anonimato che ci accomuna, di Liberato mi colpito la sua incredibile musicalità, la sua capacità di farmi innamorare di una lingua che non conoscevo attraverso beat pazzeschi e un senso dell’armonia inimitabile. Credo che Liberato sia l’unico artista in Italia con con cui avrebbe davvero senso lavorare in questo momento.

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