Rolling Stone Italia

Blonde Redhead, fighi senza sforzo

Il trio ci ha parlato del primo disco in nove anni, ‘Sit Down for Dinner’, di come si sopravvive a una carriera lunghissima, della beffa di un pezzo, ‘For the Damaged Coda’, nato per caso e diventato virale

Foto: Charles Billot

Ci sono gruppi che per quanto si atteggino e vogliano incarnare i canoni estetici della perfetta rockstar, non riusciranno mai a essere realmente cool. Poi ci sono i Blonde Redhead: fighi senza sforzo. Trio cult nella scena alternativa, composto dai fratelli gemelli Amedeo e Simone Pace, originari di Milano, e dalla giapponese Kazu Makino, i Blonde Redhead si sono formati a New York 30 anni fa. Lo scorso giugno li ho visti esibirsi allo Zebulon di Los Angeles e sono rimasta colpita dalla giustapposizione: loro tre timidi sul palco di fronte a un pubblico strepitante. Mi hanno così dato appuntamento per il giorno successivo in un ristorante di Culver City, hanno scelto questa zona perché dopo la nostra chiacchierata avranno un incontro con un music supervisor per film. Non faccio in tempo a stringerle la mano che Kazu rompe il ghiaccio con una scena comica: porge la sua amata cagnolina ad Amedeo e, zak!, la cagnolina lo colpisce defecandogli addosso. «Tempismo perfetto», dice il musicista spalancando un sorriso, «ha 19 anni, poverina».

Siamo qui per parlare del nuovo album Sit Down for Dinner, composto tra Milano, New York e Lari (Toscana), il loro primo in nove anni, tanto che i fan avevano perso ogni speranza. E loro, sapevano che sarebbero tornati in studio insieme? Quando glielo chiedo, non ricevo una risposta chiara. Fatto sta che tra pandemia e dislocazione dei tre in città diverse, con tre vite diverse, ha fatto sì che quest’album fosse incubato per parecchio tempo prima di essere inciso.

Sit Down for Dinner è un felice e ispirato ritorno, in linea con l’evoluzione della band. Se i primi album erano di un noise rock abrasivo, con gli anni i Blonde Redhead hanno ampliato la gamma sonora costruendo melodie stratificate, complesse, avvolgenti; hanno sperimentato creando un sound unico, fosse solo per le voci di Amedeo e Kazu, così vulnerabili e sincere. Quando le nuove canzoni hanno cominciato a prendere forma, Kazu viveva all’Isola d’Elba, così i tre hanno deciso di venirsi incontro in Toscana. «Un nostro amico ci aveva segnalato un ottimo studio di registrazione a Lari, vicino Pisa. Lì abbiamo iniziato a confrontare i nostri demo…».

Così comincia il processo creativo fra voi, con uno scambio di demo?
Amedeo: Iniziamo con ciascuno che lavora alle proprie idee, poi ci incontriamo e le confrontiamo; chiamiamola una sorta di pre-produzione. Dobbiamo capire chi suonerà cosa, c’è parecchia orchestrazione nei nostri brani e dobbiamo dargli una struttura. Io avevo già diversi pezzi su cui avevo lavorato mentre Simone era impegnato con la nascita di suo figlio e Kazu stava realizzando il suo disco solista. Il singolo Snowman viene proprio da quelle sessioni.
Kazu: Ecco, mentre noi eravamo impegnati con le nostre cose, Amedeo stava scrivendo un capolavoro!

Concordo, Snowman ha un groove fenomenale, lo posso ascoltare in loop senza mai annoiarmi. Kazu, a proposito del tuo disco solista: vanta la collaborazione di Ryūichi Sakamoto, com’è stato lavorare con lui?
Kazu: Credo mi stesse facendo un favore… A volte quando gli spedivo le demo mi diceva che non capiva esattamente cosa stessi facendo.
Amedeo: Non penso ti stesse facendo un favore, credo che per partecipare, debba avere amato la tua musica. Detto questo, so bene che le tue demo possono essere folli.
Kazu: Per me è stato come spedire le mie canzoni a Dio. E il fatto che Dio stesse anche solo ascoltando, è stato un grande onore.

Foto: Charles Billot

Kazu, cosa hai portato di nuovo ai Blonde Redhead dopo la tua prima esperienza solista?
Kazu: Lavorare insieme ora è diventato meno doloroso. Fare un album senza loro due mi ha aiutato a capire che fare musica può essere divertente. Che le canzoni funzionino o meno, dal punto di vista emotivo rimanere con una band tutto questo tempo può essere difficile. Quando abbiamo cominciato con il gruppo piangevo dopo ogni prova, o così mi ha ricordato il nostro vecchio bassista ieri sera dopo lo spettacolo. Mi ha detto che sono migliorata parecchio.

Piangevi per lo stress?
Kazu: Piangevo perché loro venivano da una vera scuola di musica (il rinomato Berklee College of Music di Boston, ndr). Ho studiato pianoforte da bambina, ma non ho avuto una formazione da conservatorio come loro due. Dunque all’inizio ho dovuto lavorare il doppio per stargli dietro e non ero ancora consapevole delle mie capacità; c’è voluto del tempo per capire che avevo qualcosa da dire.
Amedeo: Ma allo stesso momento, anche noi dovevamo imparare a starle dietro perché la sua visione era radicalmente diversa dalla nostra. Ci siamo dovuti incontrare nel mezzo. Kazu ci ha insegnato come dimenticare ciò che avevamo imparato e come diventare più liberi con i nostri strumenti, con la nostra musica.

Ora però sono 30 anni che lavorate insieme, non vi sentite ormai collaudati?
Amedeo: Eppure non è mai facile per noi. In parte perché non abbiamo ancora fatto un album che ci ha portato quel successo che ti cambia la vita, dunque ci interroghiamo spesso su cosa sia il successo per noi e sul da farsi. C’è sempre spazio per migliorarsi.

A volte, osservandovi, mi viene da pensare che non siete neppure interessati a quel tipo di successo. Prendi ieri sera: non avete detto mezza parola al pubblico, non una parola per spiegare che presto sarebbe uscito il nuovo album oppure per presentare il singolo…
Kazu: Realizzare un album è una cosa così privata che non puoi immaginare sarà ascoltato da altri, dunque evito di pensare a certe cose. E poi ai concerti divento superstiziosa, timida, penso che se parlo la canzone ne soffrirà. Devo concentrarmi. Loro due mi dicono che dovrei parlare, mi fanno: di’ ciao, di’ qualcosa…
Simone: Io non ho neppure un microfono.
Amedeo: Odio parlare sul palco, non lo faccio mai. Ma tu Kazu potresti dire qualcosa, tu sei divertente. Comunque per quanto riguarda parlare del nuovo album, c’è un elemento di auto-promozione che non ci piace. La gente si auto-promuove un po’ troppo e la trovo una cosa orrenda.

Il titolo Sit Down for Dinner è preso da L’anno del pensiero magico di Joan Didion, un libro incentrato sulla perdita e il lutto. Dalla musica non si direbbe ma i testi delle canzoni toccano pensieri piuttosto cupi…
Kazu: Con il passare del tempo si cominciano a perdere persone a cui tenevi molto e all’improvviso ti trovi a desiderare il passato perché capisci quanto eri felice allora, quando quella persona o quell’animale erano nella tua vita. E pensi che magari non riuscirai più a essere altrettanto felice; è una strana sensazione.

Cerchi spesso ispirazione nei libri?
Kazu: A dire il vero no, ma amo leggere. Mi piace anche ascoltare le conversazioni degli altri, potrei scrivere un pezzo anche solo ascoltando il dialogo di due passanti.
Amedeo: Lei è molto brava a scrivere i testi, e veloce. Per me è un processo piuttosto complicato perché solo specifiche parole funzionano dentro una particolare musica. Dunque per prima cosa devo lanciarmi con un finto inglese per creare suoni e quando ho i suoni mi faccio strada con le parole giuste.

Sit Down for Dinner: sedersi per cena. Qui in America non si usa così tanto, spesso non hanno neppure un tavolo.
Simone: L’altro giorno sono andato dai miei vicini di casa (a New York, nda) e stavano mangiando la cena in piedi, sull’isola della cucina. Ho pensato: oddio, ma davvero? Per loro non è importante, noi invece non pensiamo ad altro che al cibo: cosa prepariamo? Quando? Poi ti siedi al tavolo e hai un momento di condivisione, per la nostra band è un rituale quando siamo in tour. Ci hanno cresciuti così.

Fratelli in gruppi musicali: la storia è lunga. A volte è una benedizione altre un incubo. Voi siete addirittura gemelli: quali sono i pro e i contro?
Simone: Sul palco è un legame che aiuta. C’è da dire che non abbiamo suonato con molti altri musicisti al di fuori di noi, dunque non saprei fare troppi paragoni. Ma quando suono con mio fratello posso fare affidamento su una connessione, so che troveremo il modo di andare d’accordo.
Kazu: Per me è d’aiuto soprattutto nei momenti di emergenza, quando c’è qualche casino a cui far fronte, meglio viaggiare con due gemelli.

Non so mai cosa aspettarmi da un album dei Blonde Redhead. Non saprei neppure puntare il dito su quali siano le vostre influenze…
Amedeo: In genere non mi ispiro ad altra musica perché ogni volta che mi è piaciuta qualcosa e ho provato a ricrearla, sono sempre state delusioni.
Kazu: Io invece copio artisti a destra e sinistra, ma il pubblico non se ne accorge. Forse ascolto le cose in modo differente, ad esempio nel mio brano Dr Strangeluv ho rubato a piene mani da Nina Simone ma quando l’ho ammesso mi hanno detto che non è vero: «Ma dove? E poi come osi paragonarti a Nina Simone?! Ti credi molto brava eh?!».

Kazu, tu dipingi anche, per te l’ispirazione viene anche in altre forme d’arte?
Kazu: Dipingo quando ne ho bisogno, come la fragola che sta sulla copertina del nuovo album. A volte qualche input può venire da un film, ma sono sempre idee che devono avere a che fare con il sound.

Come sei finita all’Isola d’Elba?
Kazu: Non me la stavo passando bene a New York, dovevo andarmene, avevo problemi di salute e l’Elba è stata una manna dal cielo. È un posto a cui sono affezionata perché noi tre ci siamo conosciuti lì prima di iniziare la band e ho bellissimi ricordi. È un’isola speciale, ha una forte energia minerale in grado di prenderti o respingerti. Dicono che quando cominci a passarci parecchio tempo, torni giovane e quando te ne vai invecchi di colpo, cadi a pezzi. In molti rimangono perché diventano assuefatti a questo senso di benessere. Ci ho girato anche un film, la gente mi voleva bene, mi facevano pagare la tariffa ridotta per il traghetto come ai residenti e mi sarebbe piaciuto un giorno diventarlo, sarei stata l’unica residente giapponese, con un cane, dell’isola.

Perché te ne sei andata?
Kazu: Contro il mio volere, per via della pandemia.

Parliamo del vostro brano For the Damaged Coda: è diventato un vero e proprio fenomeno, dal suo utilizzo in due episodi del cartone per adulti Rick & Morty a una sfilza illimitata dei più random video su YouTube. È un pezzo che il pubblico ha deciso di utilizzare come colonna sonora definitiva per scandire una sorta di colpo di scena epico.
Kazu: È il pezzo che ci siamo sforzati di meno a scrivere: cosa dice questa cosa del tuo talento? Quando metti anima, corpo, carne e sangue, la gente se ne infischia.
Amedeo: E cosa dice questa cosa su come siano gli altri ad avere il controllo del tuo successo?
Kazu: È una situazione simile a chi produce carta igienica e diventa milionario. All’improvviso qualcuno ha deciso che quel pezzo di musica è diventato qualcosa di cui tutti avevano bisogno, come la carta igienica.

Però il paragone con la carta igienica è denigratorio…
Simone: Mi sembra l’abbiano utilizzata anche prima di Rick & Morty, nel film L’ultimo bacio… è stata usata così tante volte, per cortometraggi e vari film (si mettono a discutere su chi l’abbia utilizzata per prima ma nessuno dei tre ricorda chi, nda).
Kazu: Comunque per me è una faccenda un po’ fastidiosa perché ho scritto quel brano senza pensarci troppo, in un momento in cui mi trovavo in studio di registrazione ad ammazzare un’ora già pagata.

Una volta che la canzone è fatta e pubblicata non si ha più controllo, il pollo è fuori dal recinto…
Amedeo: Esatto, e forse è per questo che non ci interessa troppo programmare le cose, o pensare che devi fare questo per poter raggiungere quest’altro. Perché se ragioni così, poi fallisci. Forse essere come siamo è un modo per proteggerci.

Iscriviti