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Billy Corgan: «I fan degli Smashing Pumpkins contano più di qualunque recensione»

Intervista in attesa di rivedere la band in Italia: i media che non hanno capito la sua musica, l’immagine di frontman folle e dispotico, la scrittura non più disperata, la depressione, Courtney Love

Foto press

Billy Corgan ha vissuto trionfi planetari, fratture insanabili, resurrezioni epiche, incomprensioni pubbliche e guerre personali. Eppure, a 57 anni e con tre figli, l’uomo che ha portato gli Smashing Pumpkins ad essere una delle band più rappresentative e singolari degli anni ’90, capace di trasformare il dolore in arte e l’ambizione in una visione musicale inconfondibile, parla con la calma e la profondità di chi ha finalmente imparato ad accettare – e spesso a smontare – i miti costruiti attorno alla sua figura.

Alla vigilia del ritorno in Italia degli Smashing Pumpkins (il 30 luglio per Unaltrofestival al Parco della Musica di Segrate, Milano, e il 1° agosto all’Ippodromo delle Capannelle di Roma), Corgan parla dei suoi demoni, delle etichette ingiuste affibbiate dai media, della relazione profonda con la musica e dell’eredità artistica, ma anche della paternità, della passione per il wrestling, del rispetto per colleghi come i Black Sabbath e i Guns N’ Roses. Di morte, di fragilità e di cosa significa essere un artista oggi.

Hai detto più volte che gli Smashing Pumpkins sono una delle band più incomprese della storia del rock. Perché lo pensi? Da dove nasce questa convinzione?
Perché è la verità. C’è una disconnessione profonda, e storica, tra come i fan percepiscono gli Smashing Pumpkins e come ci hanno raccontato i media. Non è un malinteso recente o una crisi d’identità: va avanti da oltre trent’anni. Un’intera carriera. C’è sempre stato questo paradosso. Da una parte, milioni di persone ci hanno amato, si sono riconosciute nella nostra musica, ci hanno seguito disco dopo disco, anche quando cambiavamo pelle. Dall’altra, una parte dell’establishment musicale sembrava determinata a non concederci mai il giusto riconoscimento. Per alcuni critici, non eravamo abbastanza cool o eravamo troppo ambiziosi, troppo melodici, troppo teatrali. Troppo tutto. La verità è che non rientravamo nelle loro categorie preconfezionate. Non eravamo né completamente grunge, né alternative nel senso stretto, né glam, né metal. Eravamo semplicemente noi.

È un sentimento che ti ha accompagnato fin dall’inizio?
Sì, fin dai primi anni. Anche quando eravamo all’apice del successo con dischi come Siamese Dream o Mellon Collie c’era sempre un certo snobismo attorno alla nostra musica. Era come se le emozioni che mettevamo nei brani fossero viste come eccessive, come se non fosse di buon gusto essere così intensi. Ma l’intensità è il cuore degli Smashing Pumpkins. Non abbiamo mai fatto finta di essere qualcosa che non eravamo.

Ti dà ancora fastidio questa narrazione distorta?
A volte sì, a volte no. Oggi ho imparato a lasciarla scorrere. So quello che abbiamo fatto. So quanto abbiamo dato. E so che la musica ha lasciato un segno in milioni di persone. Questo per me conta più di qualunque recensione. Ma continuo a pensare che un giorno, quando ci si prenderà il tempo per guardare davvero la nostra storia – senza pregiudizi, senza ironia – si capirà quanto fosse profonda, innovativa e coraggiosa.

Negli anni ti sei spesso lamentato della percezione distorta che i media hanno avuto di te. Qual è la falsità più assurda che è stata detta su Billy Corgan?
(Ride) Beh, quasi tutto, potremmo dire. Ma una delle più assurde e ricorrenti è stata quella secondo cui sarei un tiranno. Quando ero più giovane, i media dicevano che ero un despota, un maniaco del controllo, quasi un piccolo imperatore romano. Ma tiranno è una parola forte, molto forte. Evoca immagini di sovrani folli, spietati. La band non avrebbe potuto pubblicare venti album in dieci anni se fossi stato un tiranno.

Dici che il tuo presunto autoritarismo non si riflette nella realtà della band…
Esattamente. I media preferivano raccontare la narrazione del frontman pazzo, ossessionato, tossico. Ma se davvero fossi stato così intollerabile, perché i membri della band sarebbero rimasti? Perché avrebbero continuato a lavorare con me? È qui che nasce la vera frattura tra percezione pubblica e realtà. La verità è che la visione creativa forte viene spesso interpretata come prepotenza. Ma alla fine, la nostra produttività e longevità parlano da sole. All’inizio questa cosa mi ha ferito, ma col tempo ho capito che, per i media, era più interessante parlare di un Corgan folle e instabile che scavare nella musica o nella complessità del progetto artistico. È più facile etichettare. Ma la mia risposta è sempre stata la stessa: lavoro, musica, coerenza. E col tempo penso che la verità venga a galla.

Gli gli Smashing Pumpkins nel 1991. Foto: Paul Natkin/Getty Images

Sei sempre stato prolifico. Com’è cambiato il tuo processo creativo dagli inizi a oggi? Cosa ti spinge ancora a scrivere?
All’inizio era una questione di sopravvivenza, letteralmente. La musica era il mio biglietto d’uscita da una vita povera, priva di prospettive. Collegavo la creatività a una necessità primaria: uscire dalle mie circostanze, costruirmi un futuro, sfuggire alla sofferenza. Comporre canzoni non era solo un atto artistico, era vitale. Oggi, invece, scrivo perché lo amo. Perché essere un artista, per me, resta un brivido, una sfida continua. C’è ancora quella spinta, ma ha una qualità diversa: più libera, più consapevole. Non c’è più la disperazione che mi animava a vent’anni, ma c’è ancora quella fame di creare qualcosa che abbia un senso profondo — per me e per chi ascolta.

E come funziona, oggi, quel processo creativo? Parti da un concetto, da un’immagine, da un’emozione?
La maggior parte delle volte cerco solo di ascoltare qualcosa che mi parli, a volte è come se le parole venissero da sole, come se stessi semplicemente trascrivendo. È istinto puro. Quando scrivo, spesso non mi ricordo nemmeno esattamente come ho composto un testo o una melodia. È come se entrassi in una specie di flusso interiore. Per me è sempre stato così: una combinazione di intuizione, ascolto emotivo e apertura.

Guardando indietro, come hai vissuto la pressione che è arrivata dopo il successo colossale di Mellon Collie and the Infinite Sadness? Un doppio album monumentale che ha definito un’epoca, ma che ha anche alzato l’asticella delle aspettative nei confronti della band e di te come autore.
Onestamente? Non mi ha mai spaventato. Anzi, ho sempre pensato che la pressione potesse essere una forza positiva. Non credo che la pressione sia una maledizione, tutt’altro. È come con i diamanti: ci vuole un’enorme quantità di pressione per crearne uno. E io credo che molta della migliore musica, non solo nostra ma in generale, nasca proprio in quei momenti di tensione, quando si è chiamati a dare tutto. Mellon Collie è stato  fatto in uno di quei momenti. Avevamo tutto da perdere e tutto da dimostrare. Ma a me piaceva quella sensazione. Mi dava energia. È facile creare quando nessuno si aspetta nulla da te. Ma creare nonostante le aspettative, e superarle, è tutta un’altra storia.

Hai mai sentito quel peso come un freno alla libertà artistica?
No, perché la libertà me la sono sempre presa. Semmai, la pressione mi ha dato un motivo in più per osare. Sapevo che con un disco così ambizioso avremmo diviso, che qualcuno avrebbe storto il naso. Ma era quello che volevamo: fare qualcosa che restasse. E a distanza di quasi trent’anni, credo che l’abbiamo fatto davvero.

Gli Smashing Pumpkins nel 1993. Foto: Paul Bergen/Redferns

Il suono degli Smashing Pumpkins si è trasformato molte volte nel corso degli anni. Come capisci quando è il momento di cambiare direzione artistica?
Per me è molto semplice: quando mi annoio. E mi succede spesso, forse troppo. Sono cresciuto con la tv accesa perennemente, con stimoli continui, e probabilmente questo ha influito sul mio bisogno costante di novità. Quando mi accorgo che sto iniziando a ripetermi, che una certa estetica o una certa sonorità non mi emoziona più, allora so che è il momento di cercare qualcosa di nuovo. Non si tratta di calcolo o di strategia: è un impulso. Cerco sempre quel senso di freschezza, di rischio, di scoperta.

Hai mai paura che i fan non ti seguano nei tuoi cambi di rotta?
A volte sì. Ma ho imparato che, se cerchi di compiacere troppo, finisci per svuotare la musica. Il pubblico può anche non capire subito, ma se ciò che fai è autentico, alla fine lo sente.

Stai scrivendo nuova musica in questo momento? Hai qualcosa di inedito in lavorazione?
No, al momento no. All’inizio dell’anno stavo lavorando a nuovi brani, ma ho messo tutto in pausa. Sono concentrato su altre cose: sto facendo un tour solista in America, ho appena avuto una bambina con mia moglie, mi sto dedicando molto anche al wrestling – abbiamo appena firmato un nuovo accordo televisivo per la NWA che mi assorbe parecchio. È un momento molto, molto impegnativo della mia vita.

Quindi niente musica nuova all’orizzonte?
Mai dire mai. Per me la musica non è un lavoro a contratto. È una chiamata interiore. Quando quella voce torna a farsi sentire, la seguo. Ma non posso forzarla. E ora quella voce, semplicemente, è in silenzio.

Una delle domande più ricorrenti sulla tua carriera riguarda Today, uno dei vostri brani più noti. Molti credono che parli di suicidio. È davvero così?
No, Today non è una canzone sul suicidio. È una canzone sul decidere di non suicidarsi. È molto diverso. È nata in un momento in cui stavo davvero male, interiormente. Era buio dentro di me, e la musica era uno degli unici modi che avevo per trasformare quel dolore in qualcosa di comunicabile.

Quindi il brano è una sorta di affermazione di resistenza?
Esattamente, era il tentativo di trovare bellezza anche in quel disastro. È una riflessione su quel momento limite, in cui pensi che farti del male sia l’unico modo per far cessare la pressione. Ma scegliere di andare avanti, anche solo per un giorno, è un atto rivoluzionario.

Hai avuto anche dopo pensieri di quel tipo?
Molte volte. Non ne faccio mistero. La depressione non è qualcosa di cui ti liberi completamente, e il pensiero del suicidio – sebbene irrazionale – può insinuarsi. Ma è importante parlarne con serietà. E soprattutto è fondamentale che, se qualcuno vicino a te soffre in silenzio, tu sia presente. Nessuno dovrebbe affrontare quel tipo di buio da solo.

Molti artisti, con il passare degli anni, iniziano a pensare a ciò che lasceranno, a come saranno ricordati. Tu, oggi, come vivi il concetto di eredità artistica? È qualcosa che ti interessa ancora?
Per niente. Anni fa, forse, ci giocavo un po’. Pensavo all’eredità come qualcosa che potesse definire il mio posto nella storia della musica. Ma oggi, con piena lucidità, ti dico che non ha più alcuna importanza per me. L’ossessione per l’eredità è una trappola dell’ego. Ti fa perdere di vista il lavoro vero, quello che puoi fare ora.

Quindi non ti importa di come verrai ricordato?
No, davvero. L’unica cosa che mi interessa è fare più arte possibile finché sono vivo. Tutto il resto lo decideranno gli altri, dopo. E non è detto che lo decidano nel modo giusto. La storia dell’arte è piena di esempi: artisti celebrati in vita che poi sono stati dimenticati; altri ignorati che solo dopo la morte sono stati riconosciuti come geni. Non puoi controllare tutto questo. È una forma di libertà. Quando smetti di voler lasciare il segno, inizi a concentrarti davvero su ciò che fai. Smetti di cercare l’approvazione e torni alla radice: creare qualcosa perché senti che è giusto, che ha senso, anche solo per te stesso.

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Diventare padre ti ha cambiato? Come ha influenzato il tuo rapporto con la musica e con te stesso?
Assolutamente sì. È una trasformazione totale. Oggi ho tre figli: uno ha 9 anni, uno 6 e poi c’è la nostra piccola appena nata. Sono molto più vecchio di loro, e questo cambia le prospettive in modo radicale. Non voglio che crescano ascoltando solo storie su chi ero prima. Non mi interessa essere un personaggio mitologico per loro. Voglio che siano orgogliosi del padre che hanno davanti agli occhi oggi. Non voglio che mi vedano come quel tizio che trent’anni fa faceva dischi importanti. Voglio che vedano un uomo che ancora crea, che ancora lotta, che non si arrende. Voglio che possano dire: «Papà fa ancora qualcosa di significativo, e lo fa adesso, davanti a noi». Se qualcuno mi ferma per strada mentre sono con loro e mi parla di un brano del ’95, va bene, ma i miei figli devono vedere che oggi sto facendo qualcosa che vale.

Hai sempre avuto un controllo molto diretto e profondo su tutto quello che riguarda la musica degli Smashing Pumpkins. Come riesci a bilanciare il ruolo di frontman, con tutto ciò che comporta in termini di presenza, immagine, voce, con quello di produttore, che richiede una visione tecnica e una lucidità strutturale?
(Ride) Devi essere schizofrenico. Seriamente. Mi sento come se fossi cinque persone allo stesso tempo: il cantante, il chitarrista, il bassista, il produttore, l’autore. E ognuna di queste voci discute dentro la mia testa. Essere frontman è una cosa emotiva, viscerale. Hai a che fare con il pubblico, con l’energia del momento. Vorrei essere più frontman, tipo Robert Plant. Ma sono un performer emotivo. Forse è quello che attrae le persone. Ma essere produttore è un’altra storia: richiede pazienza, precisione, ascolto analitico. Devi avere la visione d’insieme, ma anche la capacità di scendere nei dettagli maniacali. Mettere insieme questi ruoli è una sfida costante.

Nel corso della tua carriera hai lavorato con alcuni dei produttori più influenti della storia del rock: Rick Rubin, Roy Thomas Baker, Flood, Alan Moulder… cosa ti hanno insegnato?
Ho imparato moltissimo. Tutti i grandi produttori con cui ho lavorato cercano la stessa cosa: un’istantanea perfetta di un momento irripetibile. Non vogliono dieci canzoni buone. Vogliono quella canzone, quella che cristallizza un’emozione, un tempo, una visione. Quella che definisce tutto. Quando sei l’autore o la band, spesso pensi: «Tutte queste canzoni sono buone». Ma un produttore sa distinguere ciò che può diventare iconico. È quel pezzo che accende l’intero progetto. Pensa a 1979: non è solo una canzone, è un’istantanea di un’epoca, di uno stato d’animo collettivo. E i grandi produttori sanno riconoscere quel momento prima degli altri.

Cosa ti ha colpito in particolare di Rick Rubin?
Rick ha una calma magnetica. Non dice molto, ma quando lo fa, centra sempre il punto. Ha un istinto infallibile per la verità di una canzone. Non si preoccupa di arrangiamenti complessi o tecnicismi: cerca l’essenza. L’anima.

E Roy Thomas Baker? Da fuori sembra quasi il suo opposto…
Esatto, e infatti lavorare con lui è stato completamente diverso. Roy era un visionario. Un architetto del suono. Il suo lavoro con i Queen e i Cars lo dimostra: usava la tecnologia come una tavolozza. Con lui impari che la produzione può essere anche un gesto teatrale, scenografico. Bohemian Rhapsody, per esempio: quella è una creazione sua insieme a Freddie Mercury. Un’opera monumentale.

Cosa ti ha lasciato, umanamente, Roy?
Credeva profondamente nel potere delle canzoni come dichiarazioni. Credeva che ogni brano dovesse dire qualcosa di definitivo, piantare una bandiera nel tempo. È una lezione che mi porto dentro ogni volta che entro in studio: non basta essere bravi. Devi puntare alla grandezza. Altrimenti, cosa ci stai a fare?

Hai parlato di band che sanno ancora “piantare una bandiera”. Chi ti ha impressionato di recente?
Di recente ho visto gli AC/DC, sono incredibili. Hanno superato i cinquant’anni di carriera e ancora oggi salgono sul palco con quell’energia pura e inconfondibile. Loro piantano la bandiera. Dicono: «Noi siamo gli AC/DC e questo è ciò che facciamo». Lo stesso vale per i Guns N’ Roses. Anche loro hanno quella cosa unica, quel sentimento che portano nel mondo. È un’esperienza irripetibile e quando li vedi dal vivo pensi: «Ok, ora capisco. Questa è una cosa speciale che solo loro sanno fare».

A proposito di concerti: sei stato invitato a suonare al concerto d’addio di Ozzy e i Black Sabbath.
Una cosa davvero emozionante. Forse la più grande line-up rock di sempre in una singola sera. È un onore incredibile. I Black Sabbath sono una delle band più importanti della storia, i Beatles del metal.

Hai anche lavorato con Tony Iommi in passato.
Sì, certo. Tony è il mio eroe. Mi commuove fino alle lacrime. È un musicista straordinario. Amo tantissimo i Sabbath, alcuni dei miei brani preferiti sono loro. Li ascolto ancora continuamente. Tony ha un tocco e un’anima che mi emozionano profondamente.

Foto: Theo Wargo/Getty Images

Hai avuto, nel tempo, un rapporto molto stretto – personale e artistico – con Courtney Love. Che tipo di relazione avete oggi?
Abbiamo un ottimo rapporto. Ci sentiamo ancora con una certa regolarità. Di recente l’ho aiutata con un progetto di beneficenza a cui teneva molto, legato al salvataggio di animali in Inghilterra. È stato bello, anche perché a un certo punto hanno persino dato il mio nome a un orso… è stato surreale ma anche toccante. È bello sapere che ci si può ancora essere l’uno per l’altra, dopo tutto quello che abbiamo attraversato.

Come sta oggi Courtney, come artista e come persona?
Se mi chiedi come la vedo oggi, ti dico che la trovo bene. Credo che negli ultimi anni abbia fatto un gran lavoro su se stessa. Si è allontanata da molte cose che in passato erano nocive per lei, e penso lo abbia fatto con l’intenzione sincera di trovare pace. E credo che, almeno in parte, ci sia riuscita. So che sta lavorando a nuova musica ed è qualcosa che mi incuriosisce molto. Ma, al di là di ciò che può ancora creare, penso che oggi abbia conquistato il diritto di fare solo ciò che la rende felice.

E come artista, come valuti la sua eredità?
Courtney è senza alcun dubbio una figura enormemente sottovalutata. La gente ha ancora oggi una percezione riduttiva del suo impatto, come se fosse sempre stata un personaggio di contorno, e non lo è mai stata. È stata centrale. Il suo contributo è molto più profondo, molto più importante di quanto molti vogliano riconoscere. Penso che ci vorrà del tempo, forse dei libri seri e onesti, per rimettere le cose al loro posto. Ma quando accadrà, ci renderemo conto che è stata una figura chiave nella musica e nella cultura degli anni ’90. Le Hole sono un’altra realtà clamorosamente sottovalutata. Come gli Smashing Pumpkins, hanno pagato il prezzo di non essere facilmente etichettabili. Erano potenti, vulnerabili, piene di contraddizioni, come la vita vera. Hanno fatto musica che faceva male, che spaccava, che parlava direttamente all’anima di chi non si sentiva rappresentato. Eppure la cultura dominante spesso li ha trattati con sufficienza, se non con disprezzo.

Perché, secondo te, succede questo a certe band?
Perché la cultura popolare funziona a ondate, a narrative preconfezionate. Si divide tutto in vincitori e perdenti, spesso sulla base di criteri superficiali: immagine, moda, gossip, dinamiche di potere. Ma col tempo – lo vediamo nella poesia beat degli anni ’50, nei surrealisti degli anni ’20 – la verità viene a galla. E quando la polvere si posa, ci si rende conto di chi era davvero il vero affare.

Nel 2000 gli Smashing Pumpkins si sono sciolti. Da allora, cos’è cambiato nel tuo rapporto con la musica e con l’identità della band, che poi hai rimesso in piedi con molte formazioni differenti?
È cambiato tutto. Gli Smashing Pumpkins erano la mia vita. Punto. Ogni cosa che ero – come artista, come essere umano – passava attraverso la band. Quando abbiamo deciso di chiudere, è stato come se avessi sacrificato la cosa che amavo di più per liberarmi da essa. Credevo che, lasciandola andare, avrei trovato qualcosa di diverso, qualcosa che mi avrebbe fatto sentire più libero. Ma non è andata così.

Cosa hai trovato, invece?
Ben poco. È stato più un viaggio nel vuoto che una liberazione. Ho cercato di capire cosa mi mancasse davvero, cosa avevo perso. Ho cercato anche di costruire nuova musica, nuove identità sonore, ma non era mai la stessa cosa. Non bastava. Alla fine mi sono reso conto che tutto ciò che cercavo fuori dalla band era già contenuto in essa. Era sempre stato lì. E da lì è nata la decisione di ripartire.

Non è stata una semplice reunion, però. Il progetto è cambiato più volte nel tempo.
Esatto. Gli Smashing Pumpkins di oggi non sono la copia di ciò che erano. La band è diventata una grande tenda sotto la quale possono coesistere stili, formazioni, approcci differenti. È diventata un’idea più che una configurazione fissa. E questo la rende ancora vitale. Ma quello che non è mai cambiato è il suo cuore.

Cosa hai capito, col senno di poi, da quel periodo di separazione?
Che senza la band cercavo di ricreare qualcosa che in fondo non era replicabile. Ogni progetto alternativo sembrava un’eco lontana, una simulazione sbiadita. Era frustrante, a volte doloroso. Solo dopo ho capito che gli Smashing Pumpkins non erano solo un nome o un suono: erano il mio modo di esistere nel mondo.

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