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Bill Wyman racconta Brian Jones, un genio fregato dall’insicurezza

Il bassista è il consulente del documentario ‘The Stones and Brian Jones’. Niente complottismi sulla morte, ma un ritratto del musicista che viveva la band di Jagger & Richards come «un inferno sulla Terra»

Foto: Mark and Colleen Hayward/Redferns/Getty

Chiedete a Bill Wyman cosa ci si deve aspettare dal documentario di Nick Broomfield The Stones and Brian Jones, e lui risponderà «la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità». Sarà un’esagerazione, ma il documentario di cui l’ex bassista dei Rolling Stones è consulente storico indaga gli alti e i bassi dell’uomo che ha dato vita agli Stones, ma non è arrivato a vedere la fine degli anni ’60. «Era il cuore e l’anima degli Stones», dice Broomfield, «eppure oggi molta gente non sa chi sia». Ora come ora, Jones è conosciuto maggiormente come la prima grande rockstar morta a 27 anni, il primo membro di un club che include Jimi Hendrix, Kurt Cobain, Jim Morrison e Amy Winehouse.

Ora The Stones and Brian Jones dà a Jones il giusto riconoscimento. Ci ricorda che, sostanzialmente, ha fondato la band a 19 anni, ne è stato l’anima blues e purista, ha aggiunto un tocco decisivo ad alcune canzoni amatissime come il flauto in Ruby Tuesday, la marimba in Under My Thumb o il sitar in Paint It, Black (il contributo strumentale preferito da Wyman è invece il mellotron che Jones ha suonato in 2000 Light Years from Home).

Cresciuto da un padre severo che lo accusa di buttare via la sua vita col rock, Jones si ribella ma allo stesso tempo desidera l’approvazione dei genitori. «Non voglio rovinare il film facendo degli spoiler», dice Wyman, «ma ci sono alcune cose che mi hanno toccato, compresi dettagli sull’infanzia di Brian che Nick ha scoperto e di cui non ero a conoscenza». Tra questi, il padre di Jones che caccia di casa il figlio quando aveva solo 17 anni o i suoi genitori che non lo hanno mai visto suonare dal vivo, una cosa che ha contribuito ad acuire i problemi di autostima.

Studioso appassionato di blues e R&B, Jones si identifica sia con la musica nera che con gli emarginati della società. Un annuncio sul giornale per formare una band lo porta da Mick Jagger e Keith Richards, che già avevano suonato con lui. Leader di fatto degli Stones, viene presto surclassato dai due, soprattutto da Jagger. Alla deriva, affoga nella droga e nell’alcol prima di annegare letteralmente nella piscina della sua tenuta inglese, nel 1969 (nel caso ve lo chiediate, Broomfield, che ha sviscerato la teoria dell’omicidio di Cobain in Kurt & Courtney, non sposa la versione secondo cui Jones sarebbe stato assassinato esposta nel documentario di Danny Garcia del 2019 Rolling Stone: Life and Death of Brian Jones).

Cacciato da casa, Jones prende l’abitudine di stabilirsi presso la famiglia di qualche ragazza, metterla incinta e poi andarsene. Stando al film, è accaduto almeno cinque volte. In The Stones and Brian Jones, le persone descrivono Brian a volte come come dolce e gentile, altre volte come insicuro o egocentrico. «Tutto vero», dice Wyman. «Brian poteva essere simpatico e gentile, e un minuto dopo crudele e cattivo. Era anche molto intelligente, più di tutti noi, ma spesso prendeva le decisioni sbagliate, che gli si ritorcevano contro».

Sono passati decenni, ma è ancora sorprendente vedere quanto Jones fosse coinvolto negli Stones, tanto da rispondere alla maggior parte della posta dei fan. «Organizzava i concerti, decideva quali canzoni suonare e incidere e firmava tutti i contratti di management e di registrazione», racconta Wyman. «In quel periodo Brian prendeva tutte le decisioni creative e di business per conto della band».

Jagger, molto più carismatico e sicuro di sé, ha progressivamente iniziato a essere considerato il leader del gruppo, soprattutto per via del manager Andrew Loog Oldham. «Penso che sia accaduto quando Andrew ha preso a incoraggiare Mick e Keith a scrivere canzoni», dice Wyman. «Purtroppo ha fatto sì che col tempo Brian perdesse fiducia in sé. Brian, Charlie e io abbiamo smesso di fare interviste con la stampa, la radio e la tv, mentre Andrew spingeva Mick e Keith sotto la luce dei riflettori».

In un momento imbarazzante, immortalato in un filmato d’epoca, un presentatore televisivo si avvicina a Jones dando per scontato che sia il compositore principale della band. «Non sono un vero e proprio autore», risponde lui timidamente, prima che il presentatore passi a Jagger e Richards. Si sente anche un frammento di una canzone molto dolce che Jones ha cercato di scrivere e cantare da solo, anche se si interrompe subito dopo averla iniziata. «Era molto insicuro», dice Wyman, «e si preoccupava sempre di cosa avrebbe pensato la gente».

Wyman conferma che lui e Jones erano i più uniti della band. «Ho condiviso fin dall’inizio la stanza con Brian, quando eravamo in viaggio e andavamo spesso insieme nei club o altrove, solo noi due, quindi è stato naturale che ci avvicinassimo». Al contrario, ci sono aneddoti su Jagger e Richards che prendevano in giro Jones. In un’altra intervista di repertorio (gli Stones non hanno collaborato al film), Jagger ammette che la band forse si è comportata in maniera «un po’ insensibile» nei confronti di Jones, del suo contributo, del fatto di lasciargli scrivere delle canzoni. Richards spieg che la fama ha scombussolato Brian più degli altri, ma nessun altro nella band aveva il tempo o la maturità per aiutarlo.

Anche la modella francese Zouzou, una delle tante compagne di Jones, sostiene (come ha fatto in Rolling Stone: Life and Death of Brian Jones) che era sempre più scontento della musica che gli Stones facevano, soprattutto di (I Can’t Get No) Satisfaction. Le disse che stavano «scrivendo merda» e a proposito di quella canzone in particolare: «È volgare, è orribile, è stonata, non è nulla». Zouzou ricorda che Jones aveva crisi di pianto, beveva scotch e cola tutto il giorno e, con quelle borse sotto gli occhi, le chiedeva se doveva farsi un lifting anche se aveva solo 24 anni. All’epoca dello speciale televisivo degli Stones Rock and Roll Circus, Jones riusciva a malapena a suonare la chitarra e sembrava invecchiato prematuramente. Il regista Michael Lindsay-Hogg ricorda che Brian gli disse che gli Stones gli stavano rendendo la vita «un inferno sulla Terra».

Wyman pensa che gli Stones avrebbero potuto fare di più, per interrompere la spirale negativa di Jones? «È entrato in rehab nel luglio 1967», dice. «Lo so perché sono andato a trovarlo. Ma alla fine la decisione spetta alla persona e può essere molto difficile: per lui lo è stato». Wyman ricorda che «una volta mi ha schiacciato un mozzicone di sigaro sulla mano, in auto, ma si è subito scusato. Aveva un cuore buono, ma anche un senso dell’umorismo perverso».

I Rolling Stones nel 1965. Foto: David Redfern/Redferns/Getty

Grazie a interviste vecchie e nuove con le ex partner del musicista, The Stones and Brian Jones indaga a fondo anhe quell’aspetto, dalle prime relazioni adolescenziali alla descrizione di amante «insaziabile» fatta da una fidanzata. Secondo Zouzou, Jones sembrava essere attratto dalle donne che gli somigliavano, soprattutto se avevano la frangetta. «Non si piaceva, ma allo stesso tempo voleva avere accanto persone che gli somigliassero e questa cosa è strana». Sapeva essere affascinante e cortese, tanto che una volta ha convinto i genitori di una delle sue fidanzate a permetterle di andare in giro con gli Stones.

Stando al documentario, il lato oscuro di Jones è emerso quando ha iniziato a frequentare l’attrice Anita Pallenberg, che ha portato nella sua vita un tocco di glamour e di rischio legato all’assunzione di droghe. In un’intervista inedita contenuta nel documentario, Volker Schlöndorff, che ha diretto Pallenberg nel cult noir degli anni ’60 Vivi ma non uccidere, si chiede perché lei e Jones distruggessero le tende della camere d’albergo, al posto di aprirle come tutti gli altri. L’ex fidanzata Linda Lawrence fece visita a Jones. Aveva bisogno di soldi per prendersi cura del figlio avuto da lui. Jones e Pallenberg dal piano superiore hanno guardato la donna e il bambino, hanno riso e non hanno aperto la porta.

Piantando in asso Jones perché è quello che Richards nel film definisce «uno stronzo», Pallenberg si mette con Richards, passando letteralmente dalla stanza d’albergo di Brian a quella di Keith durante un viaggio per partecipare al Festival di Cannes, come ricorda Schlöndorff. Sentiamo anche il padre di Jones affermare che la rottura incupì il figlio. I suoi eccessi in fatto di alcol e droghe sono andati avanti fino al licenziamento da parte degli Stones e poi alla morte avvenuta poche settimane dopo.

Visto che Jones è mancato 54 anni fa e che, come dice Broomfield, è per lo più sconosciuto fuori dalla cerchia dei fan più accaniti degli Stones, perché siamo ancora qui ad analizzare la sua breve vita? «Brian era un talento musicale sbalorditivo che ha contribuito alla creazione di molti capolavori», dice Wyman. «La sua eredità continuerà a vivere ancora a lungo».

Il motivo potrebbe anche essere un altro. Eric Burdon degli Animals definisce il musicista «una specie di genio» e il lavoro con i marocchini Master Musicians of Joujouka, pubblicato dopo la morte, ha fatto capire quanto era in anticipo sui rocker che scoprono la world music. O forse è perché ormai è diventato una metafora: la sua scomparsa precede di pochi mesi il disastro del dicembre 1969 al festival di Altamont che simboleggia la morte del sogno degli anni ’60. Dato il modo in cui si è perso in una nebbia fatta di fama, droghe e insicurezze, The Stones and Brian Jones dimostra che Jones ha avuto la sua personale Altamont.

Da Rolling Stone US.

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