Beatrice Antolini dimostra che indie e pop sono la stessa cosa | Rolling Stone Italia
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Beatrice Antolini dimostra che indie e pop sono la stessa cosa

Passa dalle autoproduzioni alle collaborazioni con Vasco Rossi e Achille Lauro. «C'è sperimentazione anche nel pop e all'estero l'underground è apprezzato da un pubblico ampio. Nel 2020 non ha senso dividersi in fazioni»

Beatrice Antolini dimostra che indie e pop sono la stessa cosa

Beatrice Antolini

Foto: Luca D'Amelio

Beatrice Antolini è un’esploratrice che ha la stessa indole sperimentale di Björk, di St. Vincent, di FKA twigs. È compositrice, polistrumentista, produttrice, cantante, performer. Ha sei album da titolare e una miriade di collaborazioni con artisti di ogni tipo, da Lydia Lunch a Vasco Rossi passando per Emis Killa e Achille Lauro. È una figura diversa da qualsiasi altra del nostro Paese che attraversa i generi con un approccio realmente internazionale.

Il tuo cammino artistico parte da lontano, da quando molto piccola cominci a studiare il pianoforte.
Sì, il pianoforte, ma anche tutti gli altri strumenti che mi capitavano tra le mani, fino al momento in cui, a 5-6 anni, ho cominciato a registrare da sola le mie canzoni. Con le prime rudimentali sovraincisioni davo già allora importanza alla produzione, oltre che alla composizione. Ragionavo da produttore, volevo utilizzare più strumenti possibile per creare un arrangiamento completo. Da lì è nata la mia cifra artistica: suonare tutti gli strumenti nei miei dischi, registrarli, mixarli. Questo partendo dagli esperimenti con dei semplici registratori a cassetta fino a esplorare tutta la tecnologia disponibile nel corso degli anni.

La cura per gli arrangiamenti è una delle basi fondamentali del tuo lavoro.
Sì, una necessità mia, da produttore. Occuparmi del basso, della chitarra, dei sintetizzatori, prendere i plug-in adeguati, i virtual instruments, con gli archi o qualsiasi altro suono avessi bisogno per fare tutto da sola. Poi chiaramente se c’è qualcosa che vorrei fosse fatta in maniera diversa non ho nessun problema a collaborare con altre persone.

Come concili questa tua tendenza a gestire da sola la tua musica con il coinvolgimento in una band?
È un altro discorso, posso stare anche molto bene in una band dove ognuno ha le sue competenze. Nei miei dischi è diverso, io sono la compositrice e le varie parti devono per forza di cose essere scritte e suonate da me, anche se, come dicevo prima, non è escluso che possa fare eseguire ad altri ciò che ho pensato. In questo senso mi sento molto vicina a una compositrice di musica contemporanea, che non si nega però varie incursioni nel pop, nel rock e in svariati altri generi.

Un caso abbastanza unico nella musica italiana.
Tutto il mio percorso è alieno, con cose diversissime l’una dall’altra: dal lavorare con artisti internazionali al misurarmi con il pop italiano, a fare remix di musica elettronica e sperimentare nei miei dischi. Una cosa perfettamente voluta, sono curiosa e ho voglia di mettermi alla prova in varie situazioni, a volte anche con un po’ di incoscienza, ma pensando sempre che alla fine ce la farò.

È stato un cammino fatto anche di sacrifici e fatica?
Assolutamente. Una cosa che mi disturba parecchio è vedere come le persone non si rendano conto di quanto un’artista, che magari balza all’attenzione in un determinato momento, abbia spesso alle sue spalle una storia, una serie di esperienze. Gli artisti di successo non nascono dal nulla, c’è sempre un grande lavoro dietro: dischi, festival, tour, collaborazioni. Nel mio caso ho avuto la possibilità di suonare in situazioni completamente diverse dal mio percorso solista. La più eclatante è sicuramente quella con il grande Vasco Rossi, l’autore di alcune tra le canzoni italiane più belle in assoluto. Un grandissimo onore.

Beatrice Antolini - IMTHEPILOT

Come vedi il pubblico che ti segue oggi?
Per me il pubblico è sempre pubblico, non ho preclusioni di sorta. C’è quello che mi segue dagli inizi, quello che mi ha visto nelle varie collaborazioni pop o indie, nelle esperienze internazionali, che mi ha visto aprire concerti come quelli di Kings of Convenience o Jamie Lidell… Ho conosciuto diversi pubblici, ma ho sempre sognato che tutti fossero uniti, senza divisioni, senza barriere per cui se sei indie devi essere in un certo modo, se sei pop in un altro. Ma chi l’ha detto? Per fortuna sento che le cose stanno cambiando, c’è un ricambio generazionale, nel pubblico e nella musica sento più aperture. Per dirti, quest’anno a Sanremo ho ascoltato diverse cose molto interessanti, con un sound finalmente di livello internazionale.

È un periodo musicalmente positivo quindi, a tuo avviso?
Sì, anche se sento ancora molte lamentele, gente che dice sempre male di tutto e non gli va bene niente… È invece un periodo molto interessante, Ci sono varie situazioni interessanti, tanti colori. Questo dopo un periodo, gli anni ’10, nel quale forse c’è stato meno spazio per i suoni, la produzione, gli arrangiamenti.

Da questo punto di vista credo tu stia contribuendo all’abbattimento degli steccati.
Me lo auguro, l’obiettivo era quello, anche di non parlare più a un pubblico diviso nella varie fazioni derivanti dai generi, cosa che credo non abbia più senso nel 2020. Vedo che nel resto del mondo ci sono prodotti mainstream di grandissima qualità, sento cose più ricercate, apprezzate da un pubblico molto vasto. Trovo sperimentazione anche in brani pop, per dire in Beyoncé ci sono sfumature molto interessanti. Oppure trovo cose underground che vengono apprezzate da un pubblico ampissimo. I Tame Impala arrivano a un sacco di gente, non rimangono di nicchia. Loro come Sevdaliza, FKA twigs, che fa delle cose stranissime, ma bellissime… non parliamo di St. Vincent o Anna Calvi. È tutta avanguardia che cattura un pubblico mondiale.

E in Italia siamo pronti?
Io ho fatto sei dischi e ancora non ci sono riuscita del tutto. Nel nostro Paese non c’è ancora questa mentalità, non c’è ancora uno scambio con l’estero. Se qui fai una musica più internazionale sei preso per il culo. Io però ho perseguito sempre quell’obbiettivo di internazionalità, mi rappresenta in pieno.

Che musica ascolti di solito?
Di tutto, un sacco di musica contemporanea, classica, amo il prog, la musica sperimentale, il pop… Seguo diversi compositori di colonne sonore, da Hans Zimmer a Ben Frost che ha appena tirato fuori una soundtrack bellissima per la serie tv Dark. Non ho limiti, mi piace la musica e sono curiosa.

Foto: Luca D’Amelio

Come sei stata coinvolta da Achille Lauro a Sanremo?
Lo scorso anno ho suonato nella band del Dopofestival, il direttore artistico ha proposto di coinvolgere diversi ospiti e io ho pensato ad Achille Lauro, che seguivo con interesse da qualche tempo trovandolo una figura quantomeno anomala. Nel suo genere infatti i testi maschilisti imperano, lui invece appartiene a un altro mondo, più glam, quasi angelico. In seguito sono stata chiamata a collaborare per il festival di quest’anno, nel quale era bello avere un direttore d’orchestra che suonasse. Ho avuto di nuovo la possibilità di apprezzare ancora di più Achille Lauro, il cui messaggio è in fondo lo stesso che porto io, un messaggio di libertà, musicale, estetica, sessuale…

La tua strada artistica è iniziata con il pop psichedelico e barocco del tuo primo album Big Saloon (2006) e, attraverso ulteriori quattro tappe, ti ha condotto a L’AB del 2018. Vogliamo analizzare tuoi dischi cominciando dall’inizio?
Dall’uscita del primo album ad oggi sono cambiate tantissime cose. Nei dischi ho voluto fotografare questi cambiamenti che stavano avvenendo fuori e dentro di me. Big Saloon era una sorta di casa, con una porta magica nella quale entravi e trovavi questi colori e fantasia, che ero un po’ io a quell’epoca.

E A due del 2008?
Si spingeva verso territori più dark, tribali, reminiscenze dei miei ascolti adolescenziali, quando impazzivo per la no wave e la new wave di Bauhaus, Cranes, Pop Group, Lydia Lunch, che però non si fossilizza in un solo suono, ma come la mia personalità viaggia continuamente dal buio alla luce. Uno dei dischi più ricchi e impegnativi che io abbia mai fatto, forse anche uno dei più validi. BioY del 2010 è mio disco cosmic funk, con molto afrobeat, una miriade di percussioni, tutto suonato, senza l’ausilio di elettronica. Con tutto un discorso spirituale dietro…

Spirituale?
Più che altro cerco di diventare una persona migliore, cerco di governarmi ed essere l’immagine che ho in mente di me stessa al meglio.

Andiamo avanti con Vivid del 2013.
Un disco definito pop, ma che in fondo io non sento tale. Forse è un po’ più orecchiabile, questo sì. L’EP Beatitude del 2014 rispecchiava una sorta di consapevolezza, di punto d’approdo, fino a rimettere tutto in discussione.

Cosa che hai fatto con L’AB.
Esatto. L’AB è un laboratorio alchemico, con la materia grezza plasmata fino a renderla preziosa, cosa che in fondo ho fatto con i dischi finora descritti. Anche proprio a livello materiale; all’inizio mi facevo prestare gli strumenti o li prendevo in affitto, il cammino è proseguito fino all’ultimo album, realizzato nel mio studio, a parte batteria e pianoforte, ma con tutta una serie di accorgimenti sempre più consoni a quello che voglio esprimere.

Beatrice Antolini - Forget To Be [OFFICIAL VIDEO]

Cosa volevi comunicare con L’AB?
L’AB è un concept basato su un’analisi dei nostri tempi fatta da una persona che li sta vivendo, senza guardarli dall’alto, senza giudicarli. Semplicemente standoci dentro e parlando delle cose che provo, della meccanicità che anche io vivo, del mio starci bene e male. Forget to Be ad esempio parla del dimenticarsi di essere nei tempi in cui viviamo, il non preoccuparsi di chi si è veramente, oltre l’apparenza estetica ma nel cuore, nella propria realizzazione che spesso comporta molta fatica. L’evitare il dolore, la crescita… tanto nei social possiamo sempre sembrare molto appagati da noi stessi mentre in realtà c’è un vuoto molto profondo.

Non hai paura che cantando in inglese questi messaggi non vengano recepiti appieno dal pubblico italiano?
Il mio modo di esprimermi è questo, chi è interessato credo possa fare un piccolo sforzo per entrarci. La mia idea è quella di comunicare col mondo, non strettamente con l’Italia, cosa che trovo un poco limitante, con tutto il rispetto. Altrove si comunica con il pianeta usando l’inglese e lo stesso faccio io. Come dicevo prima mi piace che ciò che faccio abbia respiro più ampio possibile, comunichi con un pubblico diversificato e curioso.

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