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Baustelle intimi, sexy e controcorrente: «Che tristezza le reunion delle band che risuonano il grande disco»

Alla vigilia del tour del gruppo nei teatri, Bianconi parla delle sonorità «sinuose e vellutate» che ascolteremo, di nostalgia («non riusciamo più a decifrare il mondo e ci rifugiamo nel passato»), dei cartelli di autori, dei Måneskin che sono «i nostri Abba»

Foto: Alesandro Treves

È necessario un preambolo: la nuova tournée dei Baustelle non è vietata ai minori di 18 anni. Qualche equivoco aveva iniziato a circolare dopo il lancio di “Intimo Sexy! Elvis a Teatro 2024”, le 12 date dove Francesco Bianconi, Claudio Brasini e Rachele Bastreghi erano presentati “più sexy e provocatori che mai” e il loro spettacolo “elettrico e confidenziale, nightclub e confessionale”. Bianconi, con il quale abbiamo parlato di questo progetto e molto altro, lo conferma: «Sono arrivati al sito dei messaggi come questo: “Posso portare mia figlia di 7 anni che è una vostra fan?”».

Messi da parte i fraintendimenti, Bianconi parla della “rifondazione” del trio, partita dall’ultimo disco Elvis, passata attraverso un tour da tutto esaurito e adesso arrivata al consolidamento con nuove sonorità «morbide, seducenti, sinuose e vellutate» che meritavano di trovare le location ideali per esprimersi appieno, i teatri. I Baustelle partiranno da venerdì 5 aprile con la data zero al Teatro Lyrick di Assisi per chiudere venerdì 10 maggio al Teatro Colosseo di Torino. Ne abbiamo approfittato per chiedere a Bianconi di raccontarci meglio le sorprese che hanno preparato per il pubblico, ma anche di come i Baustelle – e lui in particolare – si stanno muovendo in una discografia sempre più fluida.

Il successo? «Non ce n’è mai fregato una sega!», premette. Però è consapevole che oggi i giovani artisti, rispetto al passato, devono avere successo immediatamente e sono quindi costretti «a far musica di un certo tipo per riuscire ad andare subito in tv». Sulle conseguenze negative è piuttosto realista: «La vita è fatta anche di persone che non ce la fanno». A proposito di chi ce l’ha fatta come i Måneskin, li considera «una band pop, i nostri Abba», ma ammette che a un loro concerto con la figlia «ci siamo divertiti moltissimo». È più critico con la trap, che comunque guarda con interesse per le possibilità espressive, anche se «mi ha un po’ deluso, sembra che si sia appiattita su stilemi troppo ripetuti».

Lo streaming fa numeri da record, benché in larga parte con sonorità usa e getta, ma non lo considera un male se può servire a finanziare musica diversa. E su Sanremo si dice d’accordo con Morgan che ha criticato i cartelli di autori che firmano un gran numero di canzoni del Festival (regolamentarli non sarebbe male, dice). Le reunion gli mettono tristezza perché ormai «viviamo un’epoca di nostalgia» frutto del nostro «bisogno di essere rassicurati».

Francesco, perché dopo il successo dell’ultimo tour da tutto esaurito avete sentito l’esigenza di una tournée anche nei teatri?
L’album Elvis ha molte facce, tra cui quella glam rock spavalda ed esuberante, e doveva quindi essere portato nei club, che sono il posto migliore per esaltarne l’anima rock. Però un disco è sempre uno strano oggetto che, proprio come le canzoni, è ambivalente e ha varie sfaccettature. Elvis poteva contare su un’altra caratteristica: il soul. Noi Baustelle non avevamo mai avuto queste sonorità morbide, seducenti, sinuose e vellutate. Sia a livello musicale che di arrangiamenti, un po’ nel solco del soul anni ’70.

Quindi il teatro è il luogo ideale per “appartarsi”.
A teatro puoi tirare fuori una musica più silenziosa, ma non meno importante. Anzi, la parola silenziosa è fuorviante, diciamo meno direttamente sparata in faccia, più sensuale. Ecco perché intimo e sexy, non c’è niente di pornografico.

Quindi non saranno concerti vietati ai minori di 18 anni, come qualcuno ha pensato?
Ci hanno scritto sul sito messaggi come questo: «Posso portare mia figlia di 7 anni che è una vostra fan?». Non è vietato ai minori di 18 anni, la sensualità è un’attitudine. La musica popolare ha anche questo, si tratta di un altro modo per dare gioia allo spettatore al momento dell’esecuzione, catturarlo, tenerlo in tensione. È un gioco di attrazione e seduzione tra chi performa e chi ascolta. In questa tournée tiriamo fuori quell’anima dei Baustelle.

Gianna Nannini è appena uscita con il disco Sei nel l’anima che ha definito soul. E come ha spiegato la scrittrice Claudia Durastanti, anche nella musica a volte c’è «una febbre leggera che contagia un po’ tutti», al di là delle scelte di mercato. Vi ha contagiato?
In ogni campo ci sono tendenze che nascono fuori dalle esigenze del mercato. Io ci credo ancora. Nel piccolo ambiente della musica italiana esistono artisti che continuano a seguire il proprio soul infischiandosene delle regole della discografia. A volte hanno pure ragione e il mercato gli va dietro. E anche se non gli va dietro, va bene uguale. Noi siamo stati fortunati, i nostri discografici ci hanno sempre lasciato fare quel che volevamo. Siamo molto legati al nostro soul, che uso come sinonimo di libertà espressiva. Forse siamo nati in un’epoca in cui potevamo permetterci sperimentazioni non finalizzate al successo.

Ma voi avete mai cercato il successo?
A noi del successo non ce n’è mai fregato una sega! O meglio, volevamo diventare famosissimi, ma con il nostro suono e la nostra identità.

Chi ha la vostra stessa attitudine oggi?
Penso a Cosmo, Andrea Laszlo De Simone, Lucio Corsi, ma ce ne sono tanti altri. Si può ancora fare musica esprimendo quello che si sente. E noi che ci crediamo continuiamo, finché ce lo lasciano fare.

Claudio Todesco su Rolling, dopo la vostra precedente tappa all’Alcatraz, ha scritto: «Tutti i magnifici freak dei Baustelle non fanno altro che cercare d’aggrapparsi a qualcosa nella consapevolezza che la vita è insensata». Ti ci ritrovi?
Sì sì, mi ritrovo. I personaggi delle nostre canzoni si aggrappano con tutto l’amore che gli rimane a questa ricerca disperata di un senso. Che è quello che personalmente preme anche a me. Da persona che sta in una band, da scrittore, da essere umano, io cerco un senso. Non ho altri motivi per stare al mondo. Mi dibatto e questo viene fuori. Come tutti noi, d’altronde. Le canzoni che scrivo ruotano intorno a questo unico tema, declinato in vestiti cangianti o meno.

Aggiungeva che vi siete «americanizzati» e che «raramente li ho sentiti così forti, comunicativi, solidi».
C’è stato un cambio di registro con l’americanizzazione, perché è un album che è andato in una direzione musicale da noi poco percorsa. Volevamo che citasse tutto un mondo anni ’70 glam rock, che era una sorta di parodia kitsch del rock and roll. Abbiamo risciacquato i panni non in Arno ma nel Mississippi. Elvis va musicalmente in posti dove i Baustelle non erano mai stati prima, come blues e soul, per cui anche dal vivo il disco è nato rifondando la band. Siamo andati in cerca di musicisti adatti a questo tipo di sound, per cui mi fa piacere che si senta la coesione di suono e la compattezza di intenti.

Negli ultimi anni si è parlato tanto di rock o non rock a proposito dei Måneskin. Tu che idea ti sei fatto?
Io sono andato l’anno scorso al concerto dei Måneskin con mia figlia e ci siamo divertiti un sacco. Sono molto contento che abbiano avuto successo. Non sono fra coloro che dicono «però i Led Zeppelin erano un’altra cosa». Perché sono un’altra cosa. I Måneskin sono una band pop che usa stilemi rock. Sono i nostri Abba, ma invece di vestirsi come gli Abba si vestono come una band rock. Ma è giusto gioire se hanno avuto successo.

È giusto gioire perché hanno aperto la strada ad altre band italiane all’estero?
Diciamo che hanno fatto sì che un occhio sul nostro Paese qualcuno lo buttasse. Era da un po’ che non succedeva o forse non era mai successo in questo modo. Può aiutare. Mia figlia, se non altro, ha potuto scoprire che ci si può esprimere con la musica anche formando una band e non solo come singoli individui. Non perché ce l’abbia con rapper e trapper o con i cantautori, da Battisti a Calcutta. Va bene tutto, però la band non è in via d’estinzione.

E far parte di una band cosa comporta?
Non può che aiutarci riportare in auge la band che, come qualsiasi forma di aggregazione comunitaria, non può che farci bene in questo mondo desolato caratterizzato da cinismo e nichilismo disperati, dove siamo tutti avvitati su noi stessi. Il concetto di band mi fa ben sperare.

Foto press

Hai citato la trap. Per caso c’è qualcosa che, in questa ondata degli ultimi anni, ti ha colpito, incuriosito o influenzato?
Mi interessa molto, come mi aveva interessato l’hip hop, dal punto di vista della possibilità espressiva. In particolare come autore di testi. I codici rap e trap sono molto peculiari. Però la trap mi ha un po’ deluso. Poteva essere una bella possibilità, invece mi sembra che si sia appiattita su stilemi troppo ripetuti. Ma sono affascinato da ciò che è diverso da me, anzi, cerco di ascoltare tutto e di farmi contaminare. Non dico «che schifo» a priori. Non a caso sono quello che ha fatto Playa con Baby K proprio perché la ascoltavo, quindi non ignoro la musica diversa da quella dei Baustelle.

Nel frattempo i numeri dello streaming sono in aumento, ma le opinioni restano contrastanti: c’è chi esulta per i risultati record e chi, invece, dice che si basano su musica usa e getta.
Da ignorante penso che se il mercato va, anche se concentrato su musica usa e getta, è comunque un bene. Senza fare grandi parallelismi, perché era un mondo diverso, ma anche negli anni ’60 i grandi numeri li facevano canzoni come Fatti mandare dalla mamma. Nell’epoca del boom della musica leggera italiana, qualcuno avrà detto che c’erano brani usa e getta, ma forse servivano anche a finanziare musica diversa. Spero possa essere così anche oggi. Se il mercato cresce con la musica pop, possiamo avere più benzina per far andare avanti cose differenti. Ma la mia è più una speranza.

C’è poi chi da tanta benzina può rimanere scottato se non è stato preparato a maneggiarla. Penso ai giovanissimi che a volte si perdono per strada o a chi è più fragile, come Sangiovanni.
Chi comincia a fare musica oggi è nella condizione dell’«o la va o la spacca». Che si tratti di un cantautore o un trapper, è ovvio che pensa al successo, al contrario di quel che facevamo noi. Perché ha un’unica possibilità per emergere e quindi deve fare musica di un certo tipo per riuscire ad andare subito in tv o a Sanremo. Questo è vero. E a volte funziona pure.

Se non funziona, però, sono guai.
È ovvio, perché sono giovanissimi. La maggioranza non ha successo ed è un peccato, il sistema è terribile. Ti eliminano in un talent in tv ed è come essere fucilato e nessuno ti può salvare. C’è un’altra conseguenza, quella che il successo lo ottieni, ma hai 20 anni ed è capitato tutto così velocemente, e legato a un determinato modo di manifestarsi, che non ce la fai a continuare o senti troppa pressione. È semplicemente uno degli aspetti di un mondo organizzato in questo modo. Ho letto la vostra intervista a Cosmo dove rispondeva più o meno alla stessa domanda dicendo: «È lì che comincia la vita vera». Sono d’accordo. Avrei risposto allo stesso modo, perché la vita è fatta anche di persone che non ce la fanno.

Tu o i Baustelle avete mai ricevuto proposte per partecipare in qualche veste a un talent televisivo?
Non faccio i nomi, ma me ne hanno fatte tante. Ho scelto di seguire un altro percorso. È la prova che con un po’ di volontà si possono tracciare strade alternative. Con non pochi sacrifici, non c’è dubbio. Ma credo che esistano ancora persone, presenti esclusi, che ragionano in questo modo. Ed è un bene. I Baustelle hanno detto tanti no, pensavamo che fosse la cosa giusta da fare per salvaguardare la nostra libertà espressiva.

C’è chi prova a pubblicare soltanto su supporti fisici senza cedere allo streaming. Ti sembra un’alternativa valida?
Mi interessa poco e non mi entusiasma. Viviamo un’epoca di nostalgia. Io sono contrario ai festeggiamenti, figurati che non vorrei festeggiare neanche il mio compleanno. E non lo farei per il decennale di Fantasma o il trentennale di Sussidiario illustrato della giovinezza. Ma mi rendo conto che sono cose che fanno parte del mestiere, si cercare di capitalizzare senza arrivare a fare delle porcate. Viviamo in un mondo di fruizione orizzontale della musica, per cui il pubblico è contento se viene ristampato un disco o realizzata una versione alternativa, ma per me è il segno di una generale era della nostalgia.

Come mai guardiamo al passato con tanta frequenza?
Perché siamo impauriti come esseri umani, non capiamo niente del mondo in cui viviamo e non riusciamo a decifrarlo, così abbiamo bisogno di essere rassicurati. E uno dei modi migliori è risentire cose che abbiamo già sentito, rileggere cose che abbiamo già letto e cercare la cosiddetta carezza del passato. Come quando andiamo a vedere le reunion delle band che risuonano il grande disco che non avevano mai suonato. A me fanno tristezza.

Non dirmi che non sei mai andato sentire una grande reunion…
Non ci sono andato, nemmeno al concerto degli Air che suonavano Moon Safari. Mi faceva tristezza l’idea di trovare altri spettatori 50enni come me che esclamavano «che figata!».

Dopo l’ultimo Sanremo si è aperta la questione degli autori delle canzoni. Tredici autori hanno scritto dalle due alle quattro canzoni del Festival ciascuno. Morgan ha proposto di mettere una regola: un solo autore in gara per un solo artista. Sei d’accordo?
Limitare i “cartelli” di autori è qualcosa che, effettivamente, salta all’occhio. Intanto le canzoni sono scritte da troppi autori. Oggi c’è la tendenza a lavorare con dei team e si sente pure. Se un pezzo è scritto da otto o dieci persone e le stesse ricorrono in un gruppo di venti canzoni, va a scapito delle canzoni stesse, della loro originalità. Sono d’accordo con Morgan, se ci fosse una regola a Sanremo dove ogni canzone è scritta da un autore e quell’autore, se ha scritto quella, non può scriverne un’altra, la rosa dei brani in gara sarebbe più varia e interessante.

Foto: Alesandro Treves

Qualche giorno fa ti ho visto in un bar milanese e mi ha colpito che, poco distante da te, fosse seduta Patrizia Valduga, una delle più grandi poetesse italiane, tutta sola a bere uno spritz. È un mondo che ha perso anche un po’ di poesia?
Assolutamente sì. Da un lato è comprensibile perché la poesia è poco rassicurante. È una forma di condensazione del mondo in grado di illuminazioni sconvolgenti. Fa tremare le gambe. Allo stesso tempo è una forma sintetica e nel nostro tempo così veloce andrebbe recuperata. E invece è poco praticata e molto ignorata, e mi spiace doverlo accettare. Si parla tanto di rinascita della narrativa, però la poesia resta ai margini dell’editoria. Io sono un grande lettore di poesia, ma a pensarci forse un po’ di colpa ce l’hanno anche i poeti…

In che senso?
Perché sembra quasi che ci sia una sorta di compiacimento nell’autoconfinarsi e nell’essere tagliati fuori dall’attualità. Leggo spesso poesie fini a sé stesse, dove si fa sfoggio di maestria nella forma, ma dove non si riesce a veicolare nulla che riguardi la gente. Continuo a essere un grande lettore di poesia e mi è molto utile, non solo per stare bene come essere umano, ma anche per il mestiere di cantautore. La poesia e la Settimana enigmistica.

Ci hai svelato il segreto di Francesco Bianconi per scrivere i testi dei Baustelle?
Sì, consiglio meno narrativa e autofiction e più poesia e Settimana enigmistica.

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