Baustelle: ascolta il tuo cuore, Milano | Rolling Stone Italia
Cover Story

Baustelle
Ascolta il tuo cuore, Milano

“Milano è la metafora dell’amore”, cantano i Baustelle nel nuovo singolo, una mappa geografica sentimentale della città. Nel momento in cui Milano è al centro d’un dibattito acceso, loro la descrivono come un avamposto in un mondo di fascismo e squallore. E allora per parlare della canzone e della rifondazione della band con l'album ‘Elvis’, li abbiamo portati nei luoghi della città legati alla storia e all'architettura fascista

Foto: Alessandro Treves

Quando Milano è la metafora dell’amore compare nell’ascolto ordinato di Elvis, il nuovo disco dei Baustelle in uscita il 14 aprile, l’effetto è quello di un’irruenza commovente: in qualche forma, l’andamento anni ’60, il tiro senza freni e, per la sottoscritta, parole di luoghi e territori così familiari giocando insieme riescono a produrre l’effetto che di solito è affidato alle grandi ballate e non ai pezzi spudoratamente rock. Tra le cose che Elvis rivela, infatti, c’è una verità e cioè il fatto che il rock’n’roll non fa solo ballare, scatenare e dondolare, ma anche appassionare e dunque in qualche caso persino piangere attraverso l’uso spinto della sincerità, facendo dunque tremare la carne in modi molto diversi.

Quello che esce tra un mese è un album di glam italoamericano, che tiene insieme l’Umberto Tozzi di Notte rosa e Marc Bolan, ma anche quello spazio del suono e della scrittura in cui si sono mosse figure come il Billy Joel di fine ’70 e Randy Newman. Quella che esce oggi, invece, è una canzone-dichiarazione d’amore ironica e politica, antifascista e romantica a una città che nelle ultime settimane è al centro di un dibattito mediatico acceso che si muove in direzione per nulla idilliaca.

Ma cos’è una canzone politica oggi? Come può chi scrive musica prendere posizione? Cosa significa ascoltare il cuore di una città? In che modo una città ci parla d’amore? Chi sono i Baustelle oggi? Lo abbiamo chiesto a Francesco Bianconi e Rachele Bastreghi, facendoci accompagnare da una guest star d’eccezione, che al cuore di Milano si era avvicinato molti anni fa: lo scrittore e pittore Alberto Savinio.

Dunque eccoci qua, come mai un’altra canzone su Milano?
Era tanto tempo che volevo scrivere un’altra canzone sulla città dopo Un romantico a Milano. Durante la pandemia ho scritto e arrangiato e suonato il testo di una canzone che era un po’ su una sorta di nuovo risorgimento di Milano, ma al momento di andare a cantare mi faceva così schifo che l’ho lasciata perdere. In fondo era un momento della vita in cui non si sapeva bene cosa dire, cosa raccontare, per cui mi ero mosso molto goffamente. Invece il pezzo che poi è diventato questo singolo nasce da un’energia, quella derivante dall’aver riformato una band. Alla fine queste parole son venute da sole. C’è un altro modo di far vivere questo elemento, cioè il testo della canzone, una maniera di scrivere le parole stando anche attenti al suono e al flusso divertente del tutto. Un modo che è quello che io ravviso in pezzi tipo Bob Dylan’s 115th Dream dove il senso delle parole che stanno nel pezzo è il loro suono, la loro carne. Quindi ho scritto di Milano in modo personale, filtrato dalla mia personalità e dalla mia sensibilità ma in modo fluviale, istintivo.

Il brano si presenta anzitutto come una sorta di mappa geografica sentimentale.
Sì, e se vuoi più di quanto non fosse Un romantico a Milano, che della città restituiva una sorta di parodia dell’emigrante, cioè di chi a Milano ci arriva dalla provincia e sente questo dolore. Qui c’è la visione di uno che nella città sta dentro fino al collo e ne elenca luoghi, e dentro ci sono il bene e il male e poi anche delle parole precise, molto politiche, che mi andava di dire e che sono legate appunto a Milano in questo momento, a cosa rappresenta per me. Perché io a Milano ci sto bene oggi, se no vivrei da un’altra parte.

Parlando dell’atmosfera della canzone, possiamo dire che è un pezzo molto Sixties. Forse non è un caso che mi abbia fatto pensare molto a Tutta mia la città dell’Equipe 84, che è un adattamento italiano, non un pezzo originale, però contiene lo stesso spirito camminatore che sento nel vostro pezzo, è una canzone che va a spasso, che passeggia. E questa cosa io la sento molto anche nell’itinerario che si costruisce in Milano è la metafora dell’amore.
Questa cosa che dici del passeggio è molto interessante perché la canzone che citi è uno stilema di shuffle non dritto, ma che definisce un passo baldanzoso. Anche Penny Lane è così e fa la stessa cosa, così come Happy Together e altre. Spesso questa cosa è usata anche nel blues e in altri contesti anche più scuri, però ce n’è una gamma, effettivamente, proprio un gruppo di canzoni molto Sixties che sono passeggiate spensierate attraverso i luoghi che poi possono anche portare alla malinconia, ma hanno in sé anche una grande emozione positiva.

A proposito di Milano: c’è questo libro di Alberto Savinio che si chiama Ascolto il tuo cuore, città, uscito nel 1929, che è una sorta di viaggio che l’autore fa passeggiando per Milano. Da queste passeggiate nascono una serie di divagazioni. Il cuore di Milano è la metafora dell’amore per me è nei versi “io sono innamorato, custodisco il tuo cuore”, qualcosa che afferisce anche al grande tema sempre buono per chi dice di amare Milano, appunto quello della segretezza, di Milano grandiosa nel suo non mostrarsi, una città da scoprire, ma anche di cui va custodita costantemente una bellezza nascosta. Anche Savinio, a un certo punto nel libro, parla della segretezza e la definisce come il luogo dell’amore più profondo, lui dice “più cristiano”.
È verissimo, e mi viene da dire che chi non ama Milano è giustificato, ma è uno che ci mette solo piede, ci sta per poco, che non ha il tempo dell’investigazione. Forse nessuno di noi è più chiamato all’indagine e alla scoperta dell’altro oggi, perché viviamo in un’epoca in cui tutto è così autoevidente che effettivamente qualcuno ti potrebbe dire: ma perché devo vivere in una città che al primo colpo non è bella o mi appare ostile? Io non sono d’accordo, secondo me Milano è una città bellissima proprio perché ti costringe a una fatica, come direbbe Umberto Eco.

È un’opera aperta?
Esatto, il luogo che spinge a compiere una fatica interpretativa. Nessuno più fa la fatica interpretativa nel mondo già rivelato e compiuto che abitiamo.

I Baustelle in Piazza San Sepolcro, dove il 23 marzo 1919 Mussolini fondò i Fasci italiani di combattimento. Foto: Alessandro Treves. Francesco: denim bandana, camicia, tank top e giacca Ami Paris; stivali Alessandro Vasini. Rachele: Blazer Blazé Milano; t-shirt Uniqlo; denim e cappello Alessandro Vasini. Claudio: vintage suit; camicia Paul Smith

A un certo punto giochi con la contrapposizione tra Milano e Roma parlando di NoLo e del Circeo.
Sì, perché io in realtà preferisco andare al Circeo, ma mi pareva un modo per prendere in giro certi stereotipi e certe sciocche contrapposizioni che non hanno senso.

Quelle cose tipo: la cosa più bella di Milano è il treno per Roma?
Esatto, però invece sono serio quando dico che questa città per me è la metafora dell’amore perché per me Milano è quello che hai detto tu, è un grande tentativo costante di profanazione, di gettar luce su un mistero, il mistero dell’altro, su cui forse la luce non si potrà mai fare pienamente. Ma è indagare il bello, non è tanto la soluzione del caso ma l’essere costantemente attratti da quel segreto che senti custodito da chi ami.

La spinta all’indagine, alla scoperta insomma.
C’è dell’oscurità e non a caso. Poi, appunto, Milano è anche motore e motrice di molta letteratura, anche noir, e alla fine non mi sorprende che, appunto, quel genere letterario si sia un po’ legato anche a certe atmosfere milanesi piuttosto che a quelle di altri luoghi.

In questi giorni c’è in atto una polemica, o se vogliamo un dibattito acceso sulla città, escono articoli su articoli su questo momento che Milano starebbe vivendo di decostruzione popolare del suo mito pop. Vengono messe in luce anche alcune ovvietà su ciò che non funziona (peraltro, da anni) al di là di una vulgata che ha definito a lungo la città un caso d’esempio virtuoso.
Sono contento che esca questa canzone proprio adesso, ho letto e seguito questa polemichetta e alla fine in questo momento storico in Italia questa faccenda mi pare proprio un voler sputare su una cosa che funziona e mi sembra anche un pochino, lo dico senza fare il complottista ovviamente, una mossa che più o meno volontariamente dà una mano a una posizione politica filogovernativa. Sono così fighetto, voglio fare così il radical che poi alla fine faccio un favore a quelli che in questo momento stanno governando e sono più a Roma che a Milano. Ho anche letto un pezzo in cui si citava un libro che però l’autrice dell’articolo non aveva letto. E allora mi dico, di che parliamo? Disapprovo tutta questa cosa.

Al Planetario di Milano, donato alla città da Ulrico Hoepli. Fu inaugurato nel 1930 alla presenza di Mussolini, che Hoepli definiva «astro conduttore che la Provvidenza ha dato» all’Italia. Foto: Alessandro Treves. Rachele: Blazer Blazé Milano; t-shirt Uniqlo; jeans e cappello Alessandro Vasini. Claudio: sloop suit in velluto e bandana Massimo Alba; camicia Paul Smith. Francesco: camicia e occhiali Alessandro Vasini; blazer Blazé Milano

Nella canzone siete molto chiari e questa chiarezza per me è potente: la vostra Milano è una roccaforte solitaria in un mondo di squallore e di fascismo.
Sì, io sono antifascista e sento che Milano in questo momento è una città antifascista e volevo proprio dire questa cosa. Basta vedere come hanno votato gli elettori. Mi sembra proprio brutale doverne dire male proprio ora.

Io però a Milano a volte mi sento quasi in colpa. Avete presente i film sugli zombie, quando ci sono gli zombie che vagano per la città, e poi quelli che per proteggersi si chiudono nella loro torre d’avorio, nel loro grattacielo di cristallo mentre fuori c’è la morte deambulante? Non vorrei che Milano fosse questo, alla fine… non vorrei si diventasse troppo ombelicali escludendo chi non dovremmo escludere.
Sì certo, questo è un punto essenziale, però poi sai, io penso che le canzoni, le poesie, i libri si debbano anche scrivere indipendentemente da tutto, con coraggio, e che ci si debba un po’ buttare. Alla fine è l’unico modo in cui si può scrivere qualcosa tipo Roma capoccia, e per me questa nostra è una canzone così, cioè è lo stesso tipo di canzone.

Un modo di essere politici essendo romantici, laddove il romanticismo, lo sappiamo, è in sé un atto politico.
Sì, e per certi versi se vuoi è anche il modo più efficace in questo mondo. La funzione della musica e delle canzoni ha in sé il vantaggio dell’essere più efficace di tanto altro. È più fruibile, collettiva per sua natura, ti fa anche un po’ pensare. A volte, se è ben scritta, è uno dei pochi modi rimasti per essere politici senza marketing, con sincerità, muovendosi in modo diverso dalla nuova comunicazione politica e non, tutta fatta di strategie, leader, distruzione del politichese ma spesso anche dei contenuti.

In qualche modo stai rispondendo anche a un’altra domanda, cioè cos’è o dovrebbe essere oggi una canzone politica in Italia. Mi sono anche domandata spesso perché non escano mai prese di posizione nette da parte di chi scrive canzoni in questo Paese.
Scrivere prendendo una posizione politica, è ovvio, non ha nulla a che fare col fatto di scrivere l’inno del PD o la canzone di Atreju, quello non mi interessa. Oggi forse la politica può passare dalla musica tramite l’esperienza di vita, un pensiero sul mondo, sulla città, sulla polis. Io non ce l’ho con chi non dice per chi vota, anzi non mi sono dichiarato nemmeno io, ma penso che chi fa questo mestiere dovrebbe parlare attraverso ciò che fa, ciò che scrive. Non mi importa se sei un cantautore e non mi dici ogni volta cosa stai votando. Mi importa che la canzone sia politica.

In che modo?
Essendo migliore, per esempio. Anche fare canzoni banali, sciatte, è un atto politico, così come cercare di non farle. Insomma: parlami d’amore, va bene, ma sforzati di farlo come se la tua fosse la prima canzone d’amore che l’umanità ha modo di sentire. Credo in una canzone in cui si vanno a cercare delle risposte. Per me anche Mogol-Battisti sono un atto politico e non per quei boschi di braccia tese, ma al contrario perché c’è un modo di scrivere che può raggiungerti da ogni dove con una forza straordinaria – ho per esempio visto questo film di Piccioni, Il grande Blek, in cui a un certo punto c’è Emozioni e ti travolge, potentissima. Quello è scrivere in modo universale, ultraterreno. Non è un caso che li ascoltassero tutti. Abbiamo bisogno di canzoni belle, canzoni da contrapporre alla routine, stimolanti.

Avete uno storico di canzoni su Milano, da Un romantico a Milano a Monumentale, da Antropophagus a cose come Il Corvo Joe e Diorama e altre ancora. Anche nel disco nuovo Milano salta fuori in più momenti, non solo qui, come luogo dell’osservazione, scenario, in qualche modo siete sempre rimasti in ascolto, appunto, del cuore della città.
È il nostro punto privilegiato di osservazione, viviamo a Milano, qui c’è tutto quello che possiamo raccontare a portata di mano, molte storie, prospettive. Sono stato tentato in una fase della mia vita in cui forse tutti vengono presi da questo pensiero, diciamo intorno ai 30 e 40 anni, dal desiderio di andare in campagna, di cercare isolamento, ma mi rendo conto che per fare questo mestiere non riesco a non stare dentro la cagnara. Poi ci sto in una maniera magari meno godereccia di come potesse starci Lucio Dalla, o meno sociale di tanti altri, però mi serve, ho capito che è vitale. Il mio lavoro coincide con la mia vita, nel senso che è anche da lì che si alimenta, quindi ho bisogno di un posto dove questa cosa sia più facile. Sono incapace di creare dei mondi guardando la montagna innevata e solitaria, il deserto… non riuscirei a scrivere niente. O magari dovrei instaurare lì una nuova vita. Dovrebbe essere una vita nuova che non coincide col lavoro, perché il lavoro sarebbe inesistente. Oppure scriverei una poesia intitolata Il mare o, che ne so, Il deserto. Ma al secondo mese non ce la farei più.

Insomma, la città come spazio del tutto e questo al di là di Milano.
Sì, esatto. Tutte le città sono il diorama, cioè la ricreazione compressa del mondo e il modellino del mondo, sono il posto dove stanno gli uomini affollati.

Come dice Gaber, “se tu vuoi farti una vita devi venire in città”.
Sì, perché ci sono i tic degli uomini, le stupidità, le cose brutte e i politici, gli affari e i malaffari. Tutte cose che vedi standoci dentro, non in campagna isolato e tranquillo. E questo al di là dell’ironia che c’è nel pezzo di Gaber.

Già… l’ironia, centrale nell’osservazione anche dei luoghi. Anche Savinio, guarda caso, nel libro si faceva accompagnare nel suo viaggio cittadino da un’amica fedele, che era proprio l’ironia.
Ecco, quello è un elemento essenziale, di sopravvivenza, ma è importante anche non affidarsi completamente e solo a lei, però, come mi pare stia accadendo sempre di più.

Di fronte a Palazzo Mezzanotte, storica sede della Borsa. Realizzato nel 1932, è uno dei simboli architettonici dell’epoca fascista. Foto: Alessandro Treves. Francesco: denim bandana, camicia, tank top e giacca Ami Paris; stivali Alessandro Vasini. Rachele: Blazer Blazé Milano; t-shirt Uniqlo; denim e cappello Alessandro Vasini. Claudio: vintage suit; camicia Paul Smith

Parlandomi del brano, a un certo punto poco fa avete accennato al fatto di aver in qualche modo rifondato la band.
Sì, per questo disco noi volevamo comporre in una maniera diversa, abbiamo cambiato un po’ i musicisti e la squadra perché l’idea era appunto di fare un album che avesse degli elementi musicalmente parlando un po’ americani e quindi andare a pescare cose che non avevamo mai inglobato nel nostro bagaglio di figurine, nel nostro almanacco. Ad esempio il blues e la parte più nera della musica pop-rock, quindi appunto la parte più americana – e infatti il disco si chiama Elvis anche per questo. Abbiamo lavorato con una squadra di musicisti nuovi, degli stilisti in quel genere, e l’idea era quella di fare delle jam, organizzare delle session di scrittura, anche a partire magari da cose scritte da noi, giri di accordi, proprio perché loro, essendo degli specialisti, potevano anche aiutarci in fase compositiva ad andare nella direzione che desideravamo, aggiungendo qualcosa di loro. Questo disco doveva essere rock’n’roll spudoratamente, un po’ blues, ricco di elementi vivi, con il soul e l’America in tutte le sue forme. Questa cosa delle sessioni di scrittura dei pezzi era anche molto rischiosa perché comunque non ci conoscevamo e non è facile trovarsi in una stanza in tante persone e scrivere una canzone, spesso non riesce neanche a farlo uno da solo. Sono situazioni in cui spesso parte tutto un tripudio di chitarra elettrica, amplificatori, gasamento grande, un sacco di rumore, di riff, di casino, e si va facilmente fuori controllo in un modo da complesso del liceo, in cui ti sei divertito ma non hai combinato nulla. E invece sono stati momenti fruttuosi perché siamo andati tre giorni in studio e abbiamo scritto parecchie cose che poi sono finite nell’album.

Come questo singolo.
Sì, sorprendentemente, e lo dico da musicista, perché di solito le canzoni che nascono così sono un po’ più semplici, hanno la forza dell’energia, ma dal punto di vista musicale sono esili. Può nascere un pezzo rock’n’roll, una roba diretta, e invece è uscito fuori questo brano che in realtà nasce dal riff, da un andazzo molto lineare, molto classico di rock’n’roll, però poi va verso territori armonicamente più complessi. Il risultato è un pezzo molto complesso proprio da spartito, e però è uscito da una seduta collettiva.

Foto: Alessandro Treves. Francesco: denim bandana, camicia, tank top e giacca Ami Paris; stivali Alessandro Vasini. Rachele: Blazer Blazé Milano; t-shirt Uniqlo; denim e cappello Alessandro Vasini. Claudio: vintage suit; camicia Paul Smith

Il vostro precedente assetto era molto, permettetemi, bianco, diciamo che di black music nemmeno l’ombra. C’era bisogno di qualcosa che spostasse un po’ il baricentro?
A volte per fare questo mestiere c’è bisogno di energie e carne fresche, devi tenere un livello di eccitazione alto per fare i lavori creativi altrimenti non funzionano. Se non avessimo cambiato i musicisti, se non avessimo cambiato molto intorno a noi, ora non esisteremmo come Baustelle o per lo meno esisteremmo in una forma un po’ sbiadita, di maniera. Invece, devo dire, io sento che noi eravamo lì e c’era una voglia, un desiderio di essere noi ed essere anche qualcosa di nuovo. C’è stato bisogno di respirare energie non conosciute e di affidarsi a una visione diversa e più fresca per fare le cose in modo meno squadrato, più sinusoidale, proprio musicalmente. Noi da soli avremmo fatto le cose troppo cesellate.

Poi c’è forse il fatto che comunque dopo aver fatto i lavori da soli tornare indietro sarebbe stato come tornare in una dimensione che ormai aveva esaurito le sue forze.
Sul momento non mi rendevo conto che questa cosa che dici tu è verissima, e che una volta aperto un altro canale le cose cambiano. Io poi avevo fatto un disco abbastanza estremo e il mio disco non so se è servito o ha causato il fatto che non si potesse più tornare indietro da lì. Non me ne rendevo conto al momento in cui accadeva, e il mio album per me era semplicemente una pausa dalla band in cui dedicarsi ognuno ai propri progetti. Non avevo capito che dopo la pausa guardare le cose come prima sarebbe stato difficile.

Anche qui c’è una metafora dell’amore: quando fai una pausa non puoi più tornare indietro se non facendoti malissimo.
È vero, ma solo adesso me ne rendo conto. Adesso capisco che riformare la band era l’unico modo per poter ritornare a essere effettivamente i Baustelle.

Foto: Alessandro Treves

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Foto: Alessandro Treves
Art Director: Alex Calcatelli per LeftLoft
Fashion Editor: Francesca Piovano
Talent Stylist: Michela D’Angelo
Make-Up Artist: Vanessa Forlini per Making Beauty
Hair Styling: Christian Vigliotta
RS Producer: Maria Rosaria Cautilli
Backstage Video Operator: Kevin Spagnolo
Photographer Assistant: Jacopo Gentilini

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