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Avincola, il cantore delle piccole cose amato da Panella e Morgan

Ossessionato dal quotidiano e dagli oggetti come l’amico Freak Antoni, evita la retorica e cerca la profondità al confine con la banalità. Oggi è uscita ‘Barrì’ scritta con l’autore dei “dischi bianchi” di Battisti. L’intervista

Foto press

L’appuntamento è al Pigneto, quartiere di Roma che, come altri negli ultimi anni, si è trasformato da borgata popolare a luogo trendy per aperitivi e movida. È qui che abita Simone Avincola, 35 anni, uno dei cantautori più intriganti e stilosi della scena capitolina. Lo abbiamo raggiunto perché non solo ha un nuovo disco in rampa di lancio (il 9 giugno), ma in questo album è presente anche una collaborazione inaspettata, si può ben dire eccezionale: quella con Pasquale Panella. Il singolo Barrì uscito oggi è infatti tratto da un testo poetico dell’autore dei “dischi bianchi” di Lucio Battisti.

Suono il campanello, salgo le scale e mentre varco l’ingresso vengo assalito dall’entusiasmo di Blanca, una cagnona enorme e affettuosissima che sembra volermi invitarmi a ballare da quanto saltella. In cucina, invece, c’è la sua compagna Giuditta, che quando porterà il cibo in tavola renderà tangibile il significato dei versi di Goal!, il pezzo che presentò a Sanremo: “E le padelle scintillano / E i nostri cuori si bruciano / Smettila di cucinare / Ti prego, smettila di cucinare”. Qualità e quantità, le origini pugliesi sono rispettate.

L’appartamento è casa e studio. Le chitarre alle pareti, il computer sempre acceso con i microfoni spianati e di fianco una teca che contiene i cimeli propri e dei riferimenti musicali. E sembra di essere immersi in una delle sue canzoni che, messo da parte l’impegno civile degli esordi, ormai si concentrano sulla quotidianità e sugli oggetti di uso comune. «Ho scoperto di avere una certa fissa per le cose apparentemente banali che però hanno una loro profondità». Non a caso dai brani spuntano lattine, tapparelle, letti, fon, che danno i titoli alle composizioni. Eppure, nonostante la semplicità dei temi presi in esame, Avincola è in grado di nobilitarli costruendogli intorno un vissuto emozionale nel quale tutti si possono riconoscere. Oppure, come in Amare a mare, smonta la retorica degli amori estivi che, in fondo, spesso e volentieri sono decisamente banali. E se Morgan lo ha definito «uno dei migliori cantautori in circolazione» e Panella ha accettato di vedersi musicare uno dei suoi testi, forse è il caso di monitorare l’evoluzione di questo folletto mezzo romano e mezzo catalano.

Simone Avincola, romano ma nelle cui vene scorre anche sangue catalano.
Eh sì, mio padre dopo una vacanza a Barcellona ha conosciuto mia madre e lei è venuta a vivere in Italia. Ma ci tiene ancora oggi a dire che è catalana, non spagnola. Ho scritto anche una canzone in catalano che non ho mai fatto uscire, si intitola Bona nit, buona notte, magari un giorno lo farò. Anch’io lo parlo mischiando spagnolo e catalano, ma lo capisco come se fosse l’italiano.

Come ti ha influenzato la parte catalana?
Secondo me per i baffi. Mio nonno catalano li aveva. Sono il secondo in famiglia a portarli.

E a livello musicale?
Ricordo che mia madre metteva spesso i dischi di Joan Manuel Serrat, mentre mio padre quelli rock, da Bob Dylan ai Rolling Stones e i Clash. Sono cresciuto in questo contrasto musicale.

La parte romana invece è stata influenzata dal tuo quartiere d’origine, la Garbatella?
Sì, anche se adesso, come è capitato a diversi quartieri popolari, è diventato un po’ radical chic. Allora no, infatti non era neanche facilissimo viverci. Era un paesotto dove conoscevi tutti, ma da piccolo ero anche l’unico che giravo con la chitarra in mezzo ai coatti.

Hai mai avuto problemi?
Una volta mi hanno accerchiato e uno aveva un coltello in mano. Non voglio parlare male della Garbatella, anzi, ma la situazione era quella. Io andavo malissimo a scuola, per cui ero simpatico ai coatti con i quali saltavo le lezioni e anche ai secchioni, visto che già leggevo qualche poesia. Mi sono adattato. Ho imparato la sopravvivenza, che mi è stata utile anche nella musica.

Quando hai scoperto la passione per la musica?
Mio padre suonava la chitarra, per cui fin da piccolo lo imitavo con una chitarrina finta di plastica. A 10 anni ho cominciato a studiarla. Non leggevo moltissimo, però mi piaceva scrivere delle poesiole che poi tenevo per me. In seguito ho intrapreso il percorso da chitarrista. Il passaggio al cantautorato è arrivato con una illuminazione dopo una litigata tra mamma e papà.

Come mai?
A un certo punto della litigata mio padre si chiude in camera e suona L’avvelenata di Guccini. L’ha usata per sfogarsi e io sono rimasto estasiato. Ho pensato: «Se scrivo le canzoni posso dire le parolacce!». Poi ci furono altri due momenti importanti. Alle elementari ho avuto una maestra che ci faceva imparare a memoria, al posto delle poesie, i testi dei cantautori. E alle medie una insegnante di italiano, dopo averci chiesto di scrivere una nostra poesia, quando gliela consegno pensa che l’abbia copiata e mi mette anche la nota. Da lì è emerso in me un atteggiamento di riscatto che mi porto dentro e racconto nei finali delle canzoni, dove c’è sempre una speranza.

Mi sono andato a risentire i tuoi primi lavori e ho notato che nei tuoi pezzi era presente un impegno civile molto più forte, come nell’EP Il giullare e altre storie del 2008. Era ancora il retaggio degli ascolti di Guccini?
È vero, tra l’altro è un disco che un po’ rinnego. Ma anche nell’album dopo Così canterò tra vent’anni c’era la protesta. Però ho abbandonato quella strada perché, riascoltandoli, mi sembrano molto retorici. Da un po’ di tempo, invece, cerco di sfuggire dalla retorica e di rimanere al confine con una apparente banalità. Ma è proprio lì che, secondo me, si può nascondere la profondità.

Forse è anche cambiata un’epoca, no?
Più che altro a me spaventa ripetermi. Mi piace scoprire cose nuove, fuori e dentro di me. Ma tutto serve, anche il mio passato. Come l’esperienza con Freak Antoni.

Ci hai collaborato nel disco Così canterò tra vent’anni. Cosa ti ha lasciato?
Intanto era un amico vero. Ricordo che mi rubava le cose davanti agli occhi: «Che bello questo ombrello, adesso è mio», diceva. E tu non potevi che lasciarglielo fare. Una volta in una Bologna innevata, lui che faceva collezione di cose inutili, trovò per strada un cucchiaino da caffè, ne rimase ammaliato e se lo mise in tasca gelosamente. Era profondissimo, un poeta, aveva il portafoglio pieno di fazzoletti, scontrini, foglietti appuntati con canzoni, versi poetici o storie.

In una tua vecchia intervista su YouTube dicevi: «Una canzone non va studiata a tavolino, perché non nasce come prodotto commerciale». Dopo più di dieci anni la pensi ancora cosi?
Assolutamente sì. Adesso, purtroppo, ho la consapevolezza che una mia canzone la ascolteranno altre persone e la difficoltà è sfuggire a questo pensiero per non farmi influenzare. A livello di scrittura ci sono periodi lunghi nei quali non esce nulla. Non mi va di forzarmi. Col tempo ho imparato ad accettare l’ansia da foglio bianco. È in quei periodi che inconsciamente accumuli sensazioni che poi si riverseranno nelle canzoni. Altre volte devo forzare un po’, come Sanremo…

Cos’era successo?
Rischiai di non partecipare perché stava per scadere il tempo utile per presentare un brano. Per fortuna avevo una strofa e in una settimana ho scritto testo, musica e arrangiamento. Era Goal!.

Il tuo rapporto con Sanremo è particolare. Due esperienze dove, forse, ti è mancato qualcosa per arrivare al grande pubblico?
Nel 2020 ho fatto tutte le selezioni, poi in finale non sono passato. Nel 2021 ero a Sanremo tra le Nuove proposte, però mi sono esibito solo una volta a causa di una sorta di televoto.

Come si trova la forza di ripartire ogni volta?
Diciamo che mi sento sempre lì lì, ma per ora ho ancora la tigna. Non esiste il fermarsi. Io scrivo perché ho l’urgenza di farlo a prescindere. E come tutti quelli che fanno questo mestiere sono vanitoso e ho il bisogno di farmi ascoltare dagli altri. C’è poi quella voglia di riscatto che mi smuove. Io rispetto le persone umili, ma uno deve riconoscersi i propri meriti. So di non saper fare nient’altro nella vita, ma che so scrivere le canzoni sì. Per cui voglio continuare a dimostrarmelo. Quando mi chiedono «come va?» non rispondo «bene», rispondo «sto ancora in piedi».

Come hai raccontato sul palco dell’ultimo Primo maggio hai lavorato anni come rider. Una esperienza che è diventata anche una canzone omonima.
Ho fatto per tanti anni il fattorino e poi per altri anni il rider. È tosto come lavoro. Mi ricordo una volta, ero con lo zainetto per le consegne e sono passato vicino a Piazza San Giovanni dove c’era tutto montato per il Primo maggio e un po’ di sofferenza l’ho provata. Con tutto il rispetto per i rider, accidenti, io ero lì a consegnare una pizza quando mi sentivo di meritarmi quel palco.

Quest’anno però ci sei andato, oltre alle ospitate da Fiorello e in altre trasmissioni tv.
Sono anni che mi dicono «le cose si stanno smuovendo». Incontro anche i colleghi quando si suona che mi ripetono «stai facendo tante cose». Sì è vero, ma sto sempre qua…

Veniamo al nuovo disco, dove hai avuto una opportunità che non è da tutti: musicare un testo di Pasquale Panella. Il brano è Barrì ed è uscito proprio oggi.
Per me è qualcosa di gigantesco. Un privilegio a livello personale che mi riempie il cuore. Aver musicato una poesia di Panella è una delle cose più belle della mia vita. Tecnicamente è un esperimento. Il testo non lo avrei mai toccato, perché è nato come poesia e non nella forma canzone. Per cui è una musica applicata alle sue parole. Ed è come entrare in un mondo parallelo. È la stessa sensazione che si prova alla lettura e all’ascolto dei suoi testi. È come trovarsi di fronte a uno specchio curvo, dove ogni cosa prende una forma inaspettata. Ha un uso dei suoni delle parole decisamente unico.

So che vi siete anche sentiti, rigorosamente al telefono visto che non ama apparire. Ti ha detto qualcosa in particolare?
Da appassionato di Enzo Carella, con il quale lui ha lavorato tanto, ho cercato di strappargli qualche informazione di cui non ero a conoscenza. Poi abbiamo parlato di diversi cantautori poco noti che sono validissimi. Gli dicevo di essere affascinato da queste figure, ma lui mi ha risposto: «Il mondo non ha bisogno di artisti poveri e sconosciuti». Non me l’aspettavo, invece è stato molto concreto. Tra l’altro era una situazione particolare, a Capodanno in una chiamata stranissima a pochi minuti dalla mezzanotte, con i botti in sottofondo e lui incurante di tutto quello che accadeva intorno.

È giusto ricordare che il testo da cui è tratta Barrì viene dal libro di poesie Parole d’aMorgan, al quale Panella ha dedicato, a ogni composizione, altrettanti commenti poetici. Anche con Morgan si è creato un bel rapporto e ti ha portato spesso in tv insieme a lui.
C’è grande stima, che ovviamente è reciproca. È uno splendido musicista e un conoscitore di musica pazzesco. Oltre che a StraMorgan, il suo programma, dove ho cantato insieme a lui Ecco i negozi, con testo di Panella, durante l’intervista con Maurizio Costanzo ha detto che secondo lui sono uno dei cantautori più bravi in circolazione. Naturalmente sono d’accordo… A parte gli scherzi, spero tanto di scrivere qualcosa insieme a Morgan. L’idea di mischiare immaginari diversi mi affascina, mentre oggi si trovano sempre più questi featuring pensati soltanto per fare numeri.

Come ti relazioni con le piattaforme?
Cerco di non guardare i numeri. Voglio fare quello che mi piace. Infatti tutte le collaborazioni del disco sono nate con naturalezza. Come con Folcast, ci siamo conosciuti a Sanremo e sembrava di essere amici da sempre. Così come con Serepocaiontas, lei mi ha taggato in una storia tra i suoi artisti emergenti preferiti e io le ho scritto: «Emergente, ma come ti permetti?». Ero ironico, ma all’inizio c’è rimasta malissimo. Poi si è fatta perdonare cantando in Lattine. Comunque presenterò il disco live in un evento speciale l’1 giugno all’Alcazar di Roma e ci saranno tutti.

Mentre il disco, che si intitola Barrì come il brano con Panella, uscirà il 9 giugno. Avendolo ascoltato in anteprima posso dire che sei diventato il cantore delle piccole cose, di quegli aspetti quotidiani che diamo per scontati ma, sotto una diversa luce, acquistano valore?
È proprio questo che volevo. Riascoltando i versi che ho scritto mi sono accorto che ci sono tantissimi oggetti che nella vita di tutti i giorni ci passano davanti e non ci facciamo caso o ci sembrano inutili. Invece, come Alessandro Gori che è presente in una canzone, anch’io credo al fascino per gli oggetti. Un essere umano nasce, forse lascia un segno e muore. Gli oggetti invece rimangono. Oggi scrivo una canzone con una penna, poi cambio casa, la lascio lì e chi viene a viverci può essere un burocrate che ci firma delle carte freddissime. Ho scoperto di avere una certa fissa per le cose apparentemente banali che però hanno una loro profondità. Forse scrivo perché è l’unico modo che ho per trasformare la realtà.

Come ti vedi tra dieci anni?
Su questo ho una visione che forse mi viene dalla mia passione per i Sex Pistols e nel punk si credeva nel no future. Quello che mi fa proseguire il cammino tortuoso della musica è il non pensare troppo al domani. Vivo il presente. Non essendo benestante, ogni volta se sbaglio rischio la bancarotta. Quindi non ci penso, idealizzo il passato e vivo al presente. Il futuro per me non esiste.

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