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Arriva a Broadway il musical con le canzoni di Huey Lewis che lui purtroppo non può sentire

L’uomo di ‘The Power of Love’ e ‘Hip to Be Square’ non salirà più su un palco. A causa della malattia di Ménière «non sono in grado di riconoscere nemmeno le mie canzoni». Senza un apparecchio grande così non sente nulla, eppure sta vivendo un piccolo revival. Un’intervista dolceamara

Foto: Deanne Fitzmaurice

È un pomeriggio qualunque al James Earl Jones Theatre di Broadway. Controllando i messaggi, Huey Lewis trova una buona notizia: Martin Short sarà alla prima di The Heart of Rock and Roll, il musical rom-com incentrato sulle sue canzoni. Ci saranno pure Michael J. Fox e i membri della band di Lewis, i News.

Inutile aspettarsi che Huey salga sul palco e canti qualcosa. «Non posso proprio», dice risoluto. «Ci ho provato, ma non riesco a sentire sufficientemente bene per cantare intonato. Quando sei intonato, è come se il pezzo iniziasse a cantarsi da solo. È come cavalcare un’onda e, mio Dio, è la cosa più divertente al mondo. A me non succederà più».

È uno strano momento per lui. The Heart of Rock and Roll debutterà il 22 aprile. Racconta la storia d’un rocker fallito che si ritrova a dover scegliere tra rianimare la sua carriera e un lavoro da dirigente in un’azienda che produce imballaggi di cartone (ehi, è pur sempre Broadway). Con una sceneggiatura di Jonathan A. Abrams e Tyler Mitchell tratta da un libro del primo, lo show ha debuttato a San Diego nel 2018 e contiene la canzone del titolo, Hip to Be Square, Stuck with You, I Want a New Drug, Do You Believe in Love e altri pezzi di Lewis. È ambientato negli anni ’80 e quindi ci sono battute su Downtown Julie Brown, il Walkman e la serie tv Matlock.

Si sentono due sue canzoni, The Power of Love e Back in Time, anche nel successo del momento a Broadway, il musical basato su Ritorno al futuro (comparivano nel film del 1985). Non finisce qui, perché per i nostalgici della vecchia cultura pop uno dei documentari imprescindibili dell’anno è We Are the World: la notte che ha cambiato il pop. In uno dei tanti momenti emozionanti, c’è il sempre affabile Lewis che impara a cantare la sua unica battuta dopo essere stato reclutato per sostituire Prince, che ha dato buca.

Per uno scherzo crudele del destino, Lewis, 73 anni, non può godersi tutta questa musica. Nel 2018 gli è stata diagnosticata la malattia di Ménière, una patologia dell’orecchio interno che causa perdita dell’udito e vertigini. A metà pomeriggio si mette a sedere col suo piumino in una poltroncina del teatro vuoto e tira fuori un dispositivo rotondo grande come un sottobicchiere. Gli serve per regolare il volume di due speciali apparecchi acustici che indossa. «Ecco, ora ti sento», dice con un sorriso rassegnato.

Parliamo dell’udito: come va?
L’ho perso sei anni e due mesi fa, ma non è che li sto contando, eh? Va ad alti e bassi, però in sostanza sto peggiorando. Continua a degenerare. Tra una decina di giorni avrò una visita e valuteremo la possibilità di un impianto cocleare. Difficile dire quanti benefici potrei trarne. È una decisione difficile da prendere, perché prevede la perdita totale dell’udito, che non torna più. Voglio capire quanto potrei migliorare, ma nessuno può dirlo.

Non se ne parla ancora di cantare?
Sono in grado di farlo, ma non su una musica. Non sono in grado di sentire l’altezza dei suoni. Una parte di basso per me suona così (imita quella che sembra una cacofonia di dischi scratchati, nda). È tutto distorto. Riesco a capire che c’è della musica, ma non riesco a sentire cos’è. Quando fai partire una canzone su uno stereo portatile, non riesco dirti cos’è. Sento giusto il ritmo. Non sono in grado di riconoscere nemmeno le mie canzoni.

Farai mai un altro album?
Ne dubito. Mi piacerebbe tanto poter cantare di nuovo e sicuramente posso ancora scrivere qualcosa. Anzi, mi è già venuta un’idea, proprio l’altro giorno. La sento nella testa, ma anche se riuscissi a sforzarmi e a trovare un modo di tradurla in suoni, non penso che sarebbe divertente (risatina triste).

Come gestisci la cosa, dopo tutti questi anni?
Nel miglior modo possibile. Tengo a mente che tanta gente sta peggio di me, molto peggio. Ho due figli fantastici che mi permettono di non piangermi addosso. E il musical è stato una grande terapia per me.

Pochi mesi fa uscita la tua cover di Let’s Dance con gli Umphrey’s McGee del 2019.
Credo sia stata la mia ultima session. Li adoro, sono bravi ragazzi. L’abbiamo fatta per un disco di Howard Stern. Mi hanno detto: «Senti, noi incidiamo il pezzo, tu devi solo cantare». Benissimo, ho detto. L’ho imparata il giorno stesso in cui l’ho incisa. Il mio unico rimpianto è che somiglia un po’ troppo all’originale di Bowie. Se potessi rifarla, la farei diversamente, ma stavo ancora cercando di impararla.

Che cosa hai pensato quando ti è stato proposto di usare le tue canzoni in un musical?
Che la storia aveva molte similitudini con la mia vita. Il personaggio ha la stessa età che avevo io quando ho fondato la band. Avevo un lavoretto quando ho messo insieme i News. Avevo suonato in vari gruppi per una dozzina d’anni e i News in buona sostanza erano la mia ultima chance di farcela. Quindi sentivo l’ansia, l’ambizione, la preoccupazione e tutto il resto, proprio come il protagonista, Bobby. La mia preoccupazione era relativa alle canzoni, mi premeva che venissero preservate. Alcune, tipo Stuck with You e Hip to Be Square, sono state rifatte in modo divertente e mi sta bene. In un lavoro del genere, devi accettare di ampliare i significati della canzone, essere di mentalità aperta. E poi, anche a causa della mia condizione, non posso fare concerti, quindi sono più aperto a cose del genere.

Quante modifiche hai suggerito durante la lavorazione?
Molte, ma sono piccole cose. Alcuni dettagli delle coreografie, come il modo in cui Bobby tiene il microfono quando fa la rockstar. Tutti i testi delle canzoni hanno subito piccoli cambiamenti. È stato difficile trovare un equilibrio, perché è importante che la canzone porti avanti la storia, senza però snaturarsi. C’era anche un finale completamente diverso. (Attenzione: spoiler) Avevamo cercato di far sì che Bobby potesse avere tutto: la ragazza e la fama. Tutti ci dicevano: deve vincere, vincere, vincere, vincere. Ma la vita non è così e quindi lui sceglie l’amore e non la vita da rockstar.

Interessante, anche perché lo dice una rockstar.
Già. È l’opposto di ciò che è successo a me. Il mio sogno si è avverato, ma non tutti i sogni si realizzano. Anzi, la maggior parte no, però non significa che la tua vita non sia lo stesso bella.

Quando hai iniziato, soprattutto coi Clover nei primi anni 70, Broadway doveva essere la cosa più uncool al mondo.
(Annuisce) Anche le multinazionali lo erano. Di quelle avevamo paura. In origine ci chiamavamo Huey Lewis and the American Express e in qualche modo il nome rifletteva il nostro sound. Alla vigilia dell’uscita del primo album, ci hanno detto che dovevano cambiarlo perché potevano farci causa. E lo dovevano cambiare nel giro di 24 ore. Poi, dopo lo spot di Michael Jackson per la Pepsi, la Coca-Cola è venuta da me. Siamo andati ad Altlanta a incontrarli. «Avete il quoziente Q più alto d’America in questo momento», ci hanno detto. «Sapete cos’è il quoziente Q?». Non lo sapevamo. «Rappresenta la simpatia e l’accessibilità». Ci hanno offerto un sacco di soldi per due spot, ma abbiamo rifiutato. È stato uno dei pochi errori che abbiamo commesso. Non avevamo mai lavorato con una multinazionale e intanto facevamo sold out dappertutto, ci guadagnavamo da vivere, perché avrei dovuto mettere a repentaglio quella che pensavo fosse la mia credibilità facendo uno spot della Coca-Cola? Un anno dopo, le porte si sono spalancate e ci sono state sponsorizzazioni e pubblicità. Ricordo gli MTV Awards di quell’anno, e c’era una pubblicità della Pepsi con Mick e Tina.

E adesso Broadway è piena di musical che utilizzano hit pop, rock e R&B dagli anni ’50 in poi.
Un tempo si scrivevano canzoni ad hoc per gli spettacoli e poi quelle canzoni diventavano popolari quando le rifacevano Sinatra o Dean Martin. Ora, se c’è una hit, ci si costruisce intorno un intero spettacolo, perché la gente va a teatro se conosce le canzoni.

Quindi pensi che ci siano troppi musical jukebox?
(Sorride imbarazzato) So che sto sputando nel piatto in cui mangio, ma capisco la ritrosia di chi fa teatro. È un po’ sconcertante vedere che mettono in piedi un intero spettacolo incentrandolo su un pugno di canzoni.

Ora ci sono pezzi tuoi sia in questo spettacolo che nel musical di Ritorno al futuro.
Ma non sono ancora diventato Richard Rodgers. Pensavo che il nostro musical sarebbe stato asfaltato da Ritorno al futuro e invece in un certo senso si è rivelato essere complementare. Sono due musical molto diversi, idem per il modo in cui le mie canzoni vengono utilizzate. Ho visto Ritorno al futuro parecchie volte, e l’auto è incredibile, non ho idea di come facciano.

A molti è piaciuto rivederti nel documentario su We Are the World. Avevi già visto qualche spezzone?
Subito dopo, io e Steve Perry siamo stati nello stesso studio. Lui aveva un po’ di filmati e me ne ha mostrati alcuni, velocemente, su un piccolo apparecchio. Ma no, non avevo mai visto davvero le riprese. E ora, ovviamente, le vedo ma non riesco quasi a sentire l’audio.

Com’è stato rivederti?
Mi sono agitato di nuovo. Si trattava solo di una battuta e di una parte di armonia, ma lo dovevo fare di fronte a Stevie Wonder, Bruce Springsteen, Michael Jackson e Bob Dylan. Non è gente che incontri tutti giorni, figuriamoci lavorarci assieme. Ogni tot dovevamo fare una pausa sindacale. Durante una di queste, Willie Nelson è venuto da me e mi ha detto: «Ehi, giochi a golf?». E io: «Sì, devi pur fare qualcosa on the road». Dylan si è avvicinato: «Ma state parlando di golf?». E noi: «Sì». E lui: «È scandaloso». Allora gli ho detto: «Bob, Nashville Skyline era scandaloso, questo è solo golf».

Senti questa rinnovata attenzione come una sorta di riconoscimento per te, soprattutto visto che è passato un po’ di tempo dall’ultima volta che hai avuto una hit?
Non proprio. Mi piacerebbe essere nella Rock and Roll Hall of Fame, mi piacerebbe entrare nello stesso club di Chuck Berry, quello sì, ma capisco che siamo considerati una band da MTV e tutto il resto. Cerco di essere positivo. Siamo un po’ sottovalutati dalla critica: è giusto? Non lo so. Vorrei che ci considerassero di più, ma tutto quello che posso fare è cercare di essere creativo.

Vivo nel Montana, ho a cuore l’ambiente e faccio parte di un gruppo di organizzazioni per la sua salvaguardia. E le notizie sono davvero brutte. Gli insetti, i cambiamenti climatici, la mancanza di acqua pulita e fresca. L’ambiente è sotto assedio. È deprimente. Quindi ogni tanto è bello fuggire per due ore e mezza e vedere uno spettacolo. È quel che cerchiamo di fare qui. Cerchiamo di intrattenere. Non stiamo provando a cambiare il mondo.

Da Rolling Stone US.

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