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Anton Corbijn e i geniacci dietro le copertine di Pink Floyd e Led Zeppelin

Se il vinile era la collezione d’arte dei poveri, i tipi della Hipgnosis erano grandi artisti. Intervista al fotografo e regista del docufilm ‘Squaring the Circle’ dedicato ai creatori (tra le tante) della cover di ‘Dark Side’

Foto: Sundance Institute

In un tempo remoto, quando i dinosauri s’aggiravano per il pianeta e la musica si ascoltava perlopiù appoggiando vinili su macchinari rotanti dotati di puntina, gli album si compravano nel negozio di dischi più vicino. Si tornava a casa, li si piazzava sul piatto e li si ascoltava con attenzione. Il più delle volte, dalle copertine l’artista o il gruppo vi fissava con gioia o esprimento un certo malumore: quelle erano le persone che producevano i suoni che stavi ascoltando. Era così, chiedilo alla nonna.

Man mano che la popular music si è fatta più complessa e i vari, ehm, additivi ingollati dagli artisti sono diventati più pesanti, ci si è ingegnati per realizzare le copertine. Una foto non bastava più. Si potevano mettere sulle cover sagome di cartone di artisti e attori famosi, magari un quadro di Andy Warhol o un cartone animato. Oppure si poteva usare lo foto di una mucca. Già, solo una mucca con lo sguardo perso nel vuoto.

Il duo britannico formato da Aubrey “Po” Powell e Storm Thorgerson è stato pioniere nel campo delle copertine concettuali, vedi l’immagine bovina di Atom Heart Mother dei Pink Floyd. I due, cofondatori dello studio di design grafico Hipgnosis con l’artista e futuro membro dei Throbbing Gristle Peter Christopherson, sono stati gli ideatori di alcune fra le copertine più strabilianti, innovative e immediatamente riconoscibili della fine degli anni ’60 e ’70. Avete presente il prisma di The Dark Side of the Moon? È roba loro. Paul McCartney e la gang di celebrità che evadono da una prigione, sulla copertina di Band on the Run dei Wings? Hanno fatto pure quella. I ragazzini biondi che sembrano dirigersi verso un qualche sacrificio pagano su Houses of the Holy dei Led Zeppelin? La Hipgnosis ha dato vita anche a questo classico dopo aver cestinato l’idea originale di omaggiare il romanzo Le guide del tramonto di Arthur C. Clarke.

I successi del duo, ma anche i retroscena folli che hanno accompagnato la realizzazione di queste copertine e il rapporto di amore-odio che ha cementato la loro collaborazione, vengono raccontati in Squaring the Circle (The Story of Hipgnosis), pellicola di Anton Corbijn che immortala l’ascesa, il periodo di massimo splendore e il declino di questi leggendari graphic designer. Il fotografo e regista olandese, collaboratore tra i tanti di Joy Division, David Bowie, Metallica e U2, ha messo assieme interviste, aneddoti e filmati d’archivio per dare allo spettatore un’idea di come due disadattati siano riusciti a far volteggiare un maiale gonfiabile tra le ciminiere della Battersea Power Station di Londra o a volare in cima all’Everest per fotografare una dea assira per Paul McCartney. O ancora, dare fuoco più e più volte a un uomo per inscenare un attacco metaforico ai pezzi grossi dell’industria musicale.

Corbijn ci ha parlato del motivo per cui ha deciso di girare il documentario, di ciò che abbiamo perso da quando le copertine degli album si sono smaterializzate e di come il lavoro di quei due ex-hippy sia ancora oggi per lui fonte d’ispirazione.

Quando hai collegato, per la prima volta, il nome Hipgnosis a quelle copertine? In tantissimi conoscono quella di Dark Side of the Moon, ma non tutti sanno chi l’ha fatta.
Ho iniziato a fare fotografie per avvicinarmi al mondo della musica. A darmi la spinta è stato proprio questo: volevo scattare le foto per le riviste musicali e, in seguito, ho iniziato a interessarmi alle copertine. Allora la fotografia artistica non era granché popolare. Credo che Robert Frank abbia fatto una grande mostra a Berlino, negli anni ’60, ma era un’eccezione. Se volevi fare la scuola d’arte, non potevi entrarci solo per specializzarti in fotografia: dovevi fare anche altre cose. Però le copertine dei dischi erano già nel mio radar nel 1970, per cui conoscevo la Hipgnosis. Non ricordo precisamente quale delle loro copertine ho visto per prima, ma so che non era di sicuro quella di Dark Side, probabilmente Atom Heart Mother, che ritengo ancora straordinaria per l’audacia di piazzare una mucca in copertina. La adoro.

Non c’è scritto nemmeno il nome della band. Si vede solo una mucca.
Sì, inizialmente il nome dei Pink Floyd non c’era, sulla copertina. E quel cartellone che si vede nel film, quello sul Sunset Boulevard che pubblicizza l’album? Volevano che il nome fosse eliminato anche da lì. Doveva esserci solo la mucca.

Ha senso usare la foto di una mucca per promuovere un album che in copertina ha la foto di una mucca.
Agli americani piacciono le cose chiare. È un peccato, in Europa le persone sono più aperte all’interpretazione.

Quando hai deciso di girare il documentario?
È stato Po a bussare alla mia porta. Qualche anno fa è venuto ad Amsterdam e mi ha chiesto se volevo fare un documentario sulla storia di Hipgnosis. Non ne ero certo, ma più mi raccontava storie e mi mostrava i libri coi loro lavori e le copertine degli album che avevano realizzato, più mi convincevo. È un grande venditore del mito di se stesso, un vero entusiasta (ride). Appena abbiamo iniziato a lavorarci, però, è esploso il Covid. A quel punto, ottenere le interviste è diventato impossibile. I musicisti che ci sono nel documentario hanno per la maggior parte 80 anni o giù di lì, quindi erano tutti comprensibilmente molto cauti. «No, non puoi venire a casa mia per intervistarmi. E io non verrò a casa tua. Scordatelo». Alla fine abbiamo raccolto più o meno tutti quelli che volevamo. Mi sarebbe piaciuto avere anche Kevin Godley dei 10cc: lo conosco un po’ meglio di Graham [Gouldman]. Comunque è andata.

Anton Corbijn al Sundance 2023. Foto: Presley Ann/Getty Images

Le interviste ricordano le tue fotografie: ritratti spogli, in bianco e nero, illuminati lateralmente.
Hanno tutti dei volti così forti e antichi. L’unico che non mi ha permesso di illuminarlo in questo modo è stato Paul McCartney. Infatti noterete che la sua intervista è un po’ diversa dalle altre: ecco il motivo.

Non hai avuto modo di incontrare Storm prima della sua morte avvenuta nel 2013?
No e temevo che il documentario sarebbe stato un po’ troppo unidimensionale, non per scelta, ma semplicemente perché è basato sul punto di vista di Po. Anche se ci sono i filmati di repertorio e le vecchie interviste a Storm, è sempre Po a guidarci nella storia. Per cui ho cercato di fare in modo che nel film emergessero le opinioni e le impressioni di tante persone diverse, su Storm. Tutti insieme creano una specie di suo ritratto.

E come era?
Un gran rompipalle (ride). Ma anche un genio. Un rompipalle geniale. Tutte le idee più grandi le ha avute lui. Penso che ne esca bene, in realtà. Persino Roger Waters, che con lui ha litigato – ma hanno fatto pace prima della sua morte – ha detto che ha sempre amato Storm. Faceva impazzire la gente, ma tutti gli volevano un gran bene. Persone come Peter Gabriel, per esempio, hanno ammesso che quella sua caratteristica che faceva nascere le discussioni era anche ciò che ne ispirava il genio.

Quando hai iniziato a parlare con Po di Hipgnosis e delle loro copertine, come è cambiato il tuo rapporto con gli artwork e la musica di quegli album?
Quando raccogli tante informazioni parte della magia svanisce. Quando parti hai la tua visione personale delle cose ed è un po’ romantica. Poi accumuli conoscenza e il sogno si perde. Ma va bene. Forse si finisce per vedere le cose in modo diverso, quando si sa come sono state fatte o cosa dovrebbero “significare”, ma amo ancora quei dischi e i loro artwork. E mi piace ancora l’atteggiamento dei tipi di Hipgnosis, anche ora che conosco la loro storia. Voglio dire, si sono dati da fare. Era un periodo folle. Negli anni ’70 non c’erano limiti a ciò che si poteva combinare con le copertine degli album, sia dal punto di vista creativo che economico.

Allora uno poteva creare le copertine dei dischi delle rockstar e fare la loro stessa vita.
Lo so bene. Purtroppo io ho iniziato troppo tardi, per approfittare della situazione (ride). Ho fatto alcune copertine di album, alla fine degli anni ’70, ma per lo più erano dischi olandesi.

Nel film si percepisce il legame di amicizia tra Storm e Po, ma anche la loro profonda diversità. In queste due personalità uniche, cosa ha prodotto la giusta dose di frizione creativa che ha permesso di dar vita agli artwork di Hipgnosis e li ha fatti lavorare insieme per tanto tempo?
Erano diversi, ma erano entrambi ambiziosissimi: credo che questo abbia contribuito a tenerli uniti dal punto di vista professionale. Avevano tutti e due un grande entusiasmo. Credo che a Po interessasse molto l’idea di diventare incredibilmente ricco, mentre a Storm non importava nulla dei soldi. C’era un lato leggermente criminale, direi, nella vita di Po, allora, e credo che a volte ci abbia giocato. «Negli anni ’60 a Londra non c’era nessuna legge», mi ha detto, e probabilmente lui ci sguazzava.

C’è una bella frase di Noel Gallagher, nel documentario. Dice che il vinile è la collezione d’arte dei poveri.
È una grandissima citazione!

Così grande che Noel, ovviamente, pensa di averla inventata lui.
Sì, perché è geniale, ovvio (ride).

Pensi che si sia perso qualcosa ora che le copertine degli album non sono più parte del modo in cui la gente percepisce e consuma la musica?

Credo che stiano tornando un po’ di moda. Ma capisco ciò che intendi e sì, credo che l’importanza della copertina come opera d’arte sia ormai scomparsa. È strano: a nessuno interessa più il CD. Ormai la musica è tutta in streaming o su vinile. Ma non c’è più l’idea delle copertine degli album come oggetto concreto… Questo è uno dei motivi per cui ho voluto che Peter Saville, cofondatore e art director della Factory Records, fosse nel documentario. Volevo confrontare, per esempio, quello che lui ha fatto con gli album dei Joy Division, in particolare in dischi come Unknown Pleasures, con quello che Hipgnosis ha fatto con Dark Side of the Moon. Penso che siano approcci molto simili, in un certo senso, anche se Peter disprezzava Hipgnosis. Non per gli artwork, sia chiaro: non gli andavano a genio le band con cui lavoravano.

Alcuni punk indossavano magliette autoprodotte con sopra scritto…
“Odio i Pink Floyd”. Esattamente. Rigettavano quelle vecchie band. Eppure, se osservate la copertina dell’album che Jamie Reid ha disegnato per l’album dei Sex Pistols, si percepisce l’influenza di Hipgnosis. La sua semplicità è grandiosa. Ma io sono solo un vecchio rincoglionito che si comporta da eterno giovane, quindi… non lo so (ride).

Il tipo di rapporto tra una band come i Pink Floyd e Hipgnosis è qualcosa che conosci bene. Da quanto tempo lavori con i Depeche Mode?
Coi Depeche Mode dal 1986, quindi sono 37 anni. Mentre collaboro con gli U2 da 40.

Lavorare a questo documentario ti ha fatto riconsiderare la natura della tua collaborazione pluridecennale con certi musicisti? Hai pensato a come un artista visivo giochi un ruolo enorme nella costruzione della mitologia di band come quelle?
(Fa una lunga pausa) Mi ha ricordato che elementi come la foto di una band o la copertina di un disco costituiscono il primo impatto con la musica, per l’acquirente. Sono un momento importante, il primo approccio. Io ascolto sempre la musica e vedo se riesco a trovare un collegamento da rendere graficamente. A volte, alla fine, può anche sembrare che non ci sia alcun legame: è una cosa molto in stile Hipgnosis. Ho realizzato la copertina del nuovo album dei Depeche uscito a marzo e anche quella del disco degli U2, pubblicato nello stesso mese. Quindi sì, gravito ancora nelle loro orbite. Ma non è una cosa che do per scontata tipo «stanno per fare uscire qualcosa, di sicuro mi chiameranno». Bisogna lavorare sodo: il tuo ruolo di collaboratore te lo devi guadagnare.

Ma lavorare al documentario cosa ti ha lasciato?
Mi ha fatto apprezzare di più il lavoro che ho fatto. E forse, grazie al film, il mio modo di lavorare cambierà. Sai, cominciare a girare video musicali, nel 1983, ha avuto un impatto enorme sulla mia fotografia. Grandissimo. Ma mi ci sono voluti dieci anni per capire l’effetto che ha avuto.

Ovvero?
Ho iniziato a introdurre un certo senso di movimento, invece di fissarmi sulla staticità e i posati. Ho cominciato a usare oggetti di scena e a fare succedere più cose davanti all’obiettivo. È buffo, perché tutti i miei primi video musicali assomigliano molto a delle fotografie: ero ancora invischiato in quel modo di pensare. Poi, dopo aver girato più video, ho provato a cambiare il mio modo di fotografare. Non so che effetto avrà Squaring the Circle su ciò che farò d’ora in poi, ma spero che produca un mutamento. È necessario, per me, che il mio lavoro continui a cambiare.

Da Rolling Stone US.

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