Anohni: «Viviamo in un mondo di plastica e schiavitù» | Rolling Stone Italia
Nel nome di Marsha P. Johnson

Anohni: «Viviamo in un mondo di plastica e schiavitù»

«Abbiate pietà di voi e accettate questa verità», dice la cantante che sta per tornare con ‘My Back Was a Bridge for You to Cross’. Una conversazione su capitalismo, Vaticano, patriarcato e altri mali del mondo

Anohni: «Viviamo in un mondo di plastica e schiavitù»

Anohni

Foto: Rebis Music

“In questa società non posso essere altro che un capro espiatorio”. Canta così Anohni nel suo nuovo album in uscita il 7 luglio. My Back Was a Bridge for You to Cross è un titolo eloquente per un disco che arriva a sette anni di distanza dal precedente Hopelessness e che a differenza di quest’ultimo, pubblicato a nome Anohni, è firmato Anohni and the Johnsons, scelta che va a ripristinare per la prima volta il nome della band dopo Swanlights del 2010. Non è un dettaglio, visto che l’immagine di copertina è un ritratto scattato dal fotografo Alvin Baltrop, scomparso nel 2004, di Marsha P. Johnson, figura di spicco delle rivolte di Stonewall scoppiate nel giugno 1969 allo Stonewall Inn, bar gay del Greenwich Village di New York, in seguito a una retata della polizia: fu la nascita del Gay Liberation Front.

Era il 1992 quando l’allora 21enne Antony Hegarty, nella Grande Mela per studiare teatro sperimentale, ebbe l’occasione di incontrare Marsha durante il Gay Pride; pochi giorni dopo il corpo dell’attivista e drag queen afroamericana fu ritrovato nel fiume Hudson, la polizia parlò di suicidio, ma le circostanze della morte restano tuttora misteriose. Il nome Antony and the Johnsons, oggi Anohni and the Johnsons, «è un omaggio alle sue battaglie non solo per i diritti delle persone gay, lesbiche e trans, ma più in generale per i diritti umani, per i diritti dei neri, dei diseredati, per l’inclusione e l’uguaglianza», spiega la cantante britannica, newyorkese d’adozione, in collegamento su Zoom.

Dopo la scomparsa della sua musa organizzò un raduno a cui si presentò vestita da sposa per poi scrivere il nome di Johnson sui muri e attaccare manifesti in suo onore. Da allora non ha mai smesso di celebrarla e My Back Was a Bridge for You to Cross è un ulteriore tributo che Anohni ha descritto sui social come «il più importante della mia carriera»: un album toccante, realizzato con Jimmy Hogarth, produttore e autore londinese già al fianco di Amy Winehouse, Duffy, Tina Turner, e anticipato da un singolo, It Must Change, scritto «pensando a What’s Going On di Marvin Gaye» (ma è impossibile non sentirci echi di Save Room di John Legend).

«Jimmy ha un carattere dolce ed è un chitarrista molto bravo», dice Anohni. «Abbiamo lavorato insieme alla musica di questo disco partendo dal mio desiderio di infondere alcuni brani di soul. Perché negli anni ’50 e ’60 la musica soul, specialmente nel Regno Unito, è stata il catalizzatore di un importante cambiamento culturale che ha avuto come effetto quello di trasformare il modo in cui i giovani cantavano. Da quel momento generazioni di bambini britannici – là il canto è parte dell’educazione, io stessa cantavo nel coro della scuola – hanno iniziato a cantare imitando i cantanti soul neri americani. E la ragione è che il soul gli permetteva di accedere all’espressione di sentimenti non contemplati nella loro esperienza culturale. Adesso questa cosa la chiameremmo appropriazione culturale, ma all’epoca poter usare il linguaggio del soul fu per molti un’àncora di salvezza: i neri americani avevano sperimentato ingiustizie così terribili che nella loro voce affiorava un’espressione artistica spirituale e pregna di sentimento tale da sconvolgere l’immaginario collettivo a ogni latitudine. Da lì sono emersi artisti che pur facendo generi diversi, penso in primis a Boy George e ad Alison Moyet degli Yazoo, erano sostanzialmente degli interpreti soul. Sono stati di grande ispirazione per me e con questo album ho voluto onorare loro e la storia di questo genere che nella mia vita ha avuto un ruolo salvifico».

ANOHNI and the Johnsons - It Must Change (Official Video)

Nel corso dell’intervista il termine salvezza tornerà più volte, perché nel profondo Anohni, che per la sua transessualità ha subìto discriminazioni, si sente una sopravvissuta, ma anche perché mai come oggi è il pianeta intero che ha bisogno di essere salvato. In questa cornice il brano It Must Change, proposto in quella che è stata la prima esecuzione e accompagnato da un video recitato da un’altra attivista, Munroe Bergdorf, è una riflessione critica su quel pensiero binario che nei decenni ha finito per polarizzare l’opinione pubblica dividendola in due fronti contrapposti, il tutto a vantaggio delle classi dirigenti. “Sai quando si dice che la luce è l’opposto del buio? È solo il fuoco nelle tenebre che crea la vita, quindi questi opposti non esistono, è solo un’idea che qualcuno ti ha detto…”, recita il testo della canzone evocando la locuzione latina “divide et impera”.

Nelle altre tracce affiorano temi oggi centrali nel dibattito pubblico, dai diritti delle minoranze a quelli delle donne all’ecologia. Questioni che per la cantante di Drone Bomb Me sono correlate: «Il titolo My Back Was a Bridge for You to Cross rimanda all’interconnessione tra generazioni, al modo in cui viviamo, evolviamo e costruiamo la nostra esistenza sulle esperienze dei nostri antenati, esperienze che ci portiamo dentro, e sui rapporti che ci legano alle nostre famiglie di origine e non, agli amici e compagni di oggi e di ieri così come a coloro che verrano dopo di noi. Nel mondo occidentale abbiamo lasciato perdere sempre più quel senso di interconnessione lasciando passare l’idea che siamo isole e che tutto sommato le nostre storie e azioni non hanno un reale impatto sulla realtà. È come se in quanto consumatori occidentali ci astraessimo dal corso delle cose, mentre credo sia essenziale recuperarlo, quel senso di interconnessione, e sono convinta che la strada da imboccare per riuscirci consista nel pensare in termini di discendenza e di unione con la natura: l’idea che siamo separati da quest’ultima è una specie di malattia».

Nelle sue parole è intrinseca la filosofia della danza Butoh e di uno dei suoi principali esponenti, quel danzatore Kazuo Ōno che Anohni ha studiato a fondo e che campeggia sulla copertina di The Crying Light, il suo terzo album uscito nel 2009 dopo l’acclamato I Am A Bird Now, opera premiata con il Mercury Prize nel 2005 di cui My Back Was a Bridge for You to Cross sembra voler recuperare l’essenzialità combinando lo spirito soul di cui sopra con un folk scarno e un’anima acustica anni ’70. Rispetto al pop intriso di elettronica di Hopelessness, l’opera che nel 2016 segnò il passaggio da Antony and the Johnsons ad Anohni, qui siamo in un altro universo sonoro, ma a livello di testi la missione rimane quella di usare la voce per la denuncia politica e per divulgare quanto affermato assieme ad altre artiste nel manifesto Future Feminism incentrato su 13 principi e diffuso nel 2014. Ossia, per citare il primo di quei principi, che “il soggiogamento delle donne e della Terra è una cosa sola”. Chiediamo di approfondire.

«Ho molti amici che credono che l’unica via per un futuro sostenibile sia un cambiamento profondo nel modo in cui le donne partecipano a tutti gli aspetti della società odierna. Hanno ragione: non c’è modo di smantellare il disastro che abbiamo di fronte utilizzando gli strumenti degli uomini, solo gli strumenti storicamente soppressi della femminilità archetipica possono portarci a una transizione che conduca a un mondo autenticamente sostenibile. È ormai evidente che gli uomini e il patriarcato ci hanno spinti molto vicino alla nostra stessa estinzione, un suicidio supportato dalle religioni, oltre che dal capitalismo. Voi italiani siete un caso unico, perché avete il Vaticano in casa e la Chiesa cattolica è la maggiore responsabile di tale deriva: invece che facilitare l’emergere di una sensibilità che consenta all’umanità di continuare a esistere come parte della natura, è andata in direzione opposta».

Foto: Rebis Music

È un discorso di stampo filosofico che ambisce ad andare alle radici del problema, quello di Anohni, maturato anche attraverso le esperienze con il collettivo queer Blacklips Performance Cult da lei co-fondato nei primi anni ’90 e allora di casa al Pyramid Club di Manhattan: l’intento è di scardinare paradigmi alla base delle strutture sociali in cui ci muoviamo, paradigmi che introiettiamo perlopiù senza rendercene conto e che condizionano il nostro stesso pensiero.

«In Occidente non c’è nulla che protegga il valore dell’interconnessione tra generazioni e tra passato, presente e futuro. Una delle ragioni è che il sistema capitalistico ha l’esigenza di continuare a trattarci come consumatori, ma per soddisfare questa esigenza deve impedirci di cogliere i problemi infrastrutturali che stanno distruggendo la natura e l’antica qualità e il valore delle nostre stesse vite. Come? Distraendoci, mettendoci gli uni contro gli altri, trovando capri espiatori, affidandosi alle dinamiche della subordinazione all’interno delle famiglie, delle comunità, delle società. Hai presente quello che avveniva al Colosseo durante l’impero romano? Si organizzavano duelli come intrattenimento per il popolo, il quale vi assisteva diviso in fazioni secondo un rituale che lo distraeva dalle proprie frustrazioni e da una domanda: come mai certe persone sono costrette a una vita miserabile? È una forma di controllo sociale, un disegno malevolo cui la Chiesa cattolica ha contribuito».

«Il Vaticano è una delle principali cause di 2000 anni di subordinazione delle donne», sostiene Anohni, che in Scapegoat racconta la violenza soggiacente alla creazione di qualsivoglia capro espiatorio e in There Wasn’t Enough implora la fine della guerra contro l’ambiente. Perché c’è un fil rouge che lega tutto, dichiara: «Negli ultimi due secoli la Chiesa cattolica non ha fatto che perpetuare la disuguaglianza nelle nostre società, disuguaglianza che si è sublimata dentro al pensiero razionale e secolare, ma basata su due menzogne diffuse dalla Chiesa stessa abbracciando una narrazione patriarcale: la prima è che il principio maschile e la mascolinità sono la forza suprema della creazione; la seconda è quella che ha fatto coincidere il destino dell’umanità con una trasformazione apocalittica al di fuori del mondo naturale. Sono questi i miti su cui si basano le nostre esistenze e per me tutto ciò si ricollega alla sottomissione delle donne e alla soppressione della femminilità e dei valori femminili. Per questo dicevo che non possiamo salvarci usando gli strumenti degli uomini, perché l’umanità ha tre modi di percepire la realtà, può pensare oppure sentire e intuire, ma in Occidente si pensa soltanto. Abbiamo respinto il sentimento e l’intuizione in quanto modi archetipici femminili di percepire il momento».

L’argomento è così caro ad Anohni che benché ci sarebbero altre domande da porre dispiace interromperla. Anche perché My Back Was a Bridge for You to Cross è la fotografia in musica di questa sua visione. «Non dico che la colpa sia tutta della religione, penso che la religione sia subentrata per supportare una narrativa in evoluzione che gli umani avevano su se stessi. Le persone inventano mitologie a sostegno delle proprie traiettorie culturali, creano le storie di cui necessitano per confermare e rafforzare i propri valori ed è questo che è successo: la Chiesa è diventata il primo supporto strutturale per la subordinazione delle donne, la sua mitologia è il supporto strutturale plasmato dagli uomini per credenze che avevano già programmato di sviluppare per farsi registi della storia. Hai presente la storiella secondo cui Eva sarebbe nata da una costola di Adamo? Al contrario, gli uomini nascono dal corpo delle donne, anzi, la verità è che gli uomini sono un sottoinsieme delle donne perché è l’oceano della femminilità universale che crea ogni cosa. Ci è stato insegnato che discendiamo tutti da un Dio maschio e questo mi ha creato grande rabbia e frustrazione quando ero un ragazzino».

Nemmeno le aperture pur relative di papa Francesco la convincono: «Non si può essere grati nei confronti di qualcuno che è gentile con te per sei giorni a settimana e al settimo giorno ti taglia la gola. Questo pontefice aveva bisogno di rinnovare il volto della Chiesa dopo gli scandali provocati dagli abusi sessuali all’interno della medesima. Serviva una massiccia campagna per rendere l’istituzione ecclesiastica nuovamente rilevante e quella campagna la sta portando avanti Bergoglio mostrandosi più gentile dei suoi predecessori con i poveri e facendo finte dichiarazioni in difesa dell’ambiente, ma non si è mai scusato per i 2000 anni di esecuzioni e omicidi di persone trans e gay in tutto il globo. La sua è una campagna di disinformazione. Capisco stia cercando di trasformare un’istituzione conservatrice, ma il portato della Chiesa va ben oltre il conservatorismo, è creatore di miti che sono alla base del collasso di cui parlavo poc’anzi».

ANOHNI and the Johnsons - Sliver Of Ice (Official Video)

La conversazione torna sull’album in uscita, nato da alcuni provini realizzati da Anohni e Hogarth – lei al pianoforte, lui alla chitarra – mettendo a frutto alcuni quaderni della songwriter zeppi di idee per i testi. In seguito si sono aggiunti Leo Abrahams alle chitarre, Chris Vatalaro alla batteria, Sam Dixon al basso, Martin Slattery a tastiere e percussioni, l’arrangiatore d’archi Rob Moose e il rinomato compositore William Basinski, storico collaboratore di Hegarty, al sax. Nei 10 brani così ottenuti il vibrato di Anohni suona solenne e vulnerabile al contempo. Non solo It Must Change, ma anche Can’t mette in scena la prima take vocale registrata dalla cantante con Hogart. Ne risulta un pezzo che vira verso il jazz-rock, laddove Go Ahead è un’invettiva su chitarre distorte e Sliver of Ice è un commovente ricordo del compianto amico Lou Reed.

«L’ho scritto ripensando ad alcune cose che mi confidò nelle settimane prima di morire, piccole sensazioni che mi diceva gli regalavano una sorta di rapimento, di estasi. Era come se la consapevolezza della propria mortalità lo avesse spinto, in quegli ultimi momenti della sua vita, a dare valore a ogni minima percezione, persino a quella di un cubetto di ghiaccio in bocca. Un grande insegnamento».

Le facciamo notare che sebbene in My Back Was a Bridge for You to Cross non abbia rinunciato a mettere in musica le sue battaglie, l’approccio sembra più tenero. Lei, 51 anni, in parte attribuisce questo cambiamento all’età: «Invecchiando si cambia, continuo a trattare gli stessi temi, ma da prospettive diverse. Certo è che se vogliamo sul serio un mondo migliore è anche necessario perdonarsi».

Il tempo della videochiamata sta per scadere, le lasciamo la parola fino all’ultimo. «In quanto beneficiari di secoli di colonialismo e di estrazione delle risorse del pianeta siamo chiamati a sviluppare una nuova resilienza che ci porti a comprendere la verità su chi siamo, su cosa abbiamo fatto, su come abbiamo ferito gli altri e il paesaggio che ci circonda. Per riuscirci dobbiamo avere pietà di noi, perché quella verità è dolorosa. Per questo, forse, si avverte una dose di tenerezza in questo mio nuovo disco, rispecchia qualcosa che ho fatto io stessa con il mio corpo: ho avuto pietà di me e accettato la verità, ossia che anch’io sono complice del sistema in cui vivo e che subisco come lo sono tutti. Perché non c’è modo di partecipare alla vita moderna senza fare parte del problema, tutto è progettato per coinvolgere ognuno di noi come consumatori e questo ai fini del perpetuarsi del sistema stesso. Siamo stati trascinati in questo mondo fatto di plastica, di combustione di petrolio e di schiavitù moderne che ci vede vivere da parassiti sulle spalle dei più poveri e spogliare la Terra delle ultime risorse naturali rimaste. Questo nel cosiddetto primo mondo, che però non è affatto il primo: è solo il mondo ricco che ha vinto. Per ora».

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