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Anja Huwe e gli Xmal Deutschland, quando la new wave parlava tedesco

È stata uno dei simboli della Neue Deutsche Welle. È tornata con un album solista e una raccolta dei primi singoli della band. Storia di un’artista dallo spirito fieramente punk e indipendente

Foto: Ilse Ruppert

Il vero artista ritorna solo quando ha qualcosa da dire: la prassi di oggi direbbe il contrario, torna solo quando ha bisogno di cash, ma fortunatamente ci sono notevoli eccezioni. È il caso di Anja Huwe,  cantante e anima degli Xmal Deutschland, importante all-female band (all’inizio, poi sono entrati nel gruppo musicisti di sesso maschile) del post punk tedesco e non solo. Nei primi anni ’80 facevano concorrenza a band come Siouxie and The Banshees e venivano corteggiati dalle più disparate etichette (le cui proposte venivano sovente rispedite al mittente con spirito ribelle).

È dal 1990 che Huwe non registrava nulla, ed eccola invece con un nuovo disco (Codes, il suo primo da solista) mixato da Jon Caffery (Joy Division, Einstürzende Neubauten) e una raccolta di singoli degli Xmal (Early Singles 1981-1982), entrambi pubblicati da Sacred Bones. È quindi alta la curiosità su questa nuova operazione di una personalità importantissima della musica “altra” con la quale ci troviamo di nuovo a misurarci: non perdiamo tempo e le facciamo un paio di domande per capire questa scorpacciata di passato/presente/futuro della sua musica.

Posso dire che sei un’icona?
Un’icona? Vuoi dire che io sono un’icona? Grazie mille, ma non lo so. Se tu la pensi così e anche gli altri sono dello stesso avviso, forse è vero.

Eri un simbolo della Neue Deutsche Welle, no?
Non direi Neue Deutsche Welle. Abbiamo lasciato la Germania poco prima dell’inizio della Neue Deutsche Welle, che era più commerciale e noi non lo eravamo. Ecco perché ce ne siamo andati.

Eri molto hardcore come approccio e la musica della band era una strana miscela… perché poi eravate su ZickZack, vero? Un’etichetta piuttosto sperimentale.
Eravamo su ZickZack per il primo e il secondo singolo, ripubblicati ora su Sacred Bones. Poco dopo partimmo per la Gran Bretagna e fummo messi sotto contratto dalla 4AD, come sai.

Sì, probabilmente perché il tuo stile musicale, quando eri negli Xmal Deutschland, era una specie di versione post punk del pop, ma era proprio per questo, secondo me, ancora più di impatto rispetto a roba come gli Einstürzende Neubauten, vostri colleghi nella ZickZack. Qual era l’idea che avevi della musica?
Non ne avevamo alcuna idea (ride). No davvero, abbiamo iniziato in quei giorni in cui il punk o il post punk crescevano in Europa. Non eravamo capaci di suonare, ma ci siamo detti: perché non provarci come tutti gli altri? Ascoltavamo certa musica, ma non avevamo la minima idea di cosa fosse, né in quale direzione saremmo andati. Lo sviluppo della band è arrivato molto più tardi.

Questo stile eclettico era molto particolare.
Non c’erano etichette possibili.

Non eri una cantante, nei primi giorni della band eri la bassista.
Sì, ho iniziato a suonare il basso. Ho cantato qua e là, ma non in tanti pezzi. Poi la cantante originale, Rita, ha lasciato la band, non si è presentata in studio, tutti mi hanno guardata e hanno detto: «ok, è il tuo turno». Ho dovuto farlo. Mi piaceva essere in una band, provare e fare cose, sviluppare canzoni, ma alla fine mi toccava salire sul palco. Ma quello è stato più o meno l’inizio di tutto (ride).

Gli Xmal Deutschland erano riconoscibili grazie alla tua voce.
Sì, forse. Penso che fosse più o meno anche il suono generale a caratterizzarci, sai, perché non ero così centrale, ero la frontwoman, ma non lo ero fino in fondo. Ero il quinto membro, davvero. Poi c’è da dire che cantavo in tedesco e questo ha reso il tutto speciale.

Mi hai detto che nel momento in cui veniva fuori la Neue Deutsche Welle tu eri già in Gran Bretagna…
Esatto, la NDW stava diventando un grosso fenomeno ed è stato allora che ce ne siamo andate, perché puoi immaginare cosa ci sarebbe successo se avessimo firmato per un’etichetta più grande: sai, cinque ragazze di bell’aspetto…

Eravate una delle prime band tutte femminili in Germania e nel Regno Unito eravate più popolari che in Germania.
Sì, il pubblico tedesco ci seguiva di meno.

Eppure cantavate solo in tedesco.
La lingua era importante per me, ma la gente fuori dalla Germania la vedeva in modo completamente diverso. Non credo ascoltassero le parole ed è ancora oggi così.

Ma eravate internazionali c’è stato un breve periodo in cui avevate il manager dei Simple Minds, avete avuto la possibilità di firmare per la Island…
In quei giorni i Simple Minds avevano fuori Don’t You (Forget About Me) che è diventata loro malgrado una hit. E quindi il management ha dovuto prendersi cura di loro perché si stavano ribellando. Abbiamo anche iniziato a cercare etichette più importanti quando abbiamo lasciato la 4AD e ovviamente dalle più grosse veniva la domanda fatale: perché non canti in inglese? E io ho detto no, cantare in inglese no. È stato non direi un errore, ma potevamo scendere un minimo a compromessi. Non abbiamo lasciato entrare nessuno nella nostra cerchia, quindi quando alla fine ci siamo sciolti c’era un manager qui in Germania, che non è più vivo ma che è riuscito a fare successo con i Die Toten Hosen e ci ha detto: «Eravate a tanto così da avere successo prima di loro e voi idioti vi siete sciolti, vi rendete conto che anche questo è un lavoro?». Aveva ragione.

Ma la cosa bella è questo essere assolutamente indipendenti. I i vostri primi due album sono per l’appunto su 4AD, Fetisch e Tocsin. In quel periodo tutte le band alternative volessero essere su 4AD.
Sì, molte, ma alla 4AD erano molto esigenti e hanno scelto noi. È stato un bel momento. Quegli album, comunque, usciranno quest’estate in un cofanetto.

Ivo Watts-Russell, il boss della 4AD, come vi ha ascoltato? Tramite una demo o dal vivo?
Dal vivo. Ha sentito parlare di noi tramite John Peel che ci passava molto alla radio. Ci ha incontrati e poi ha chiesto di venire a Londra e registrare un album. Avevamo sette o otto canzoni, c’era l’urgenza di comporre.

Quei due album sono stati fondamentali anche per band della seconda ondata shoegaze come le Lush.
A proposito di Lush, ho incontrato Miki Berenyi a Newcastle qualche mese fa e mi ha detto che era un piacere incontrarmi di nuovo. Di nuovo? Non lo ricordavo. «Ero una fan», mi ha detto, «avevo una fanzine e ti ho intervistata poco prima che salissi sul palco a Londra. Ti amavamo quando abbiamo formato le Lush».

Eravate amici dei Cocteau Twins?
Sono arrivati alla 4AD quando siamo arrivati ​​noi, ma parlavano scozzese, noi parlavamo tedesco, quindi era difficile comunicare. Alcuni di noi sono rimasti insieme a loro per un po’ in uno squat, e sì, poi finalmente abbiamo suonato insieme. Non direi che eravamo amici, ma ci siamo frequentati, quello sì.

Perché avete lasciato la 4AD?
Perché le aspettative dell’etichetta erano diverse rispetto a ciò che volevamo ottenere. Volevamo svilupparci e iniziare a scrivere canzoni, essere più professionali. Loro volevano che fossimo una band sperimentale, immagino. È stato triste, ma a volte va così. È come quando le grandi amicizie finiscono.

Prima hai detto che non facevate entrare nessuno nella vostra cerchia, ma avete lavorato con tanta gente tra cui Hugh Cornwell, colonna portante degli Stranglers.
Sapevamo cosa volevamo e cosa eravamo in quanto amici, e non era scontato far entrare la gente nel nostro giro. Erano pochissimi quelli con cui ci piaceva lavorare, eravamo molto uniti, prendevano le decisioni tutti insieme, nessuno ci diceva cosa fare.

Alla fine del 1989 avete pubblicato un album in inglese, Devils.
È ok, ma le demo erano molto meglio. Non ero esattamente entusiasta delle idee del produttore. Il cantato è davvero bello in quell’album.

Forse la tua migliore prova canora.
Ma il disco non è come lo volevo, considero quell’album una parentesi, fuori dal nostro spirito. Ma conosco tutta la storia dietro, quindi forse non sono obiettiva.

Hai sempre lottato con le etichette.
Eravamo giovani indipendenti e sapevamo quel che volevamo. Quando firmi con una major, c’è gente che ti dice cosa fare. Alla fine, ho deciso che dovevo lasciare tutto, perché voglio essere e sono indipendente, qualunque cosa faccia, ancora oggi. Volevano che facessi una carriera da solista, ho detto no. Sono un’artista. Sono una persona libera. Ho le mie idee. E non voglio seguire quelle regole, anche se ti pagano un sacco di soldi.

Anja Huwe. Foto: Jan Riephoff

È strano infatti che il tuo primo album solista sia uscito solo ora, nel 2024, Codes. Dopo aver lasciato gli Xmal Deutschland hai realizzato alcuni programmi sulla techno per la tv tedesca.
Mi piaceva la musica elettronica e, tipo, la scena house, l’acid house, le cose che vedevo a Manchester e Londra. Ne ero affascinata. Era un movimento nuovo. Stavo cercando qualcosa di inaudito e a un certo punto ho deciso di seguire l’idea di un amico di creare un programma house e techno per una specie di MTV tedesca chiamata Viva. Facevo la produttrice, era divertente, viaggiavo per il mondo, facevo un sacco di interviste. Stavo con dj e produttori, senza mai dire che ero anche io una musicista. A loro piaceva lavorare con me perché li capivo. Per un po’ mi è piaciuto stare dietro.

Nel nuovo disco ci sono tracce del tuo periodo con la techno…
C’è molta elettronica, sì. Sono più che altro una persona analogica e Mona (Mona Mur, nda), con cui lavoro, è più una persona digitale. È stato un modo di lavorare interessante perché non è stato sviluppato in una sala prove. Poi è arrivata Manuela, la chitarrista degli Xmal, e ha fatto delle aggiunte perché adoro la sua chitarra. Per me è essenziale, sai, il suono della chitarra. Ma ancora una volta, è stato un modo molto aperto di stare insieme, senza problemi. È stato come un lavoro costante per un periodo piuttosto lungo, sai.

Perché Codes?
Tutti noi abbiamo dei codici: come parliamo, cosa siamo, cosa indossiamo, è tutto un codice. Ci sono codici nel linguaggio e nella musica. Siamo circondati da codici. È una parola che puoi usare in ogni aspetto della vita. E se perdi i codici, se non ci sono più, come puoi comunicare? Non è più possibile. L’idea di usare la parola codice viene dal diario che Yishai Sweartz, il cantante del gruppo death metal Tomorrow’s Rain, ci ha fatto vedere. Era di suo nonno (il partigiano Moshe Shnitzki, nda) e c’era una frase tipo: se perdi i tuoi codici, perdi te stesso. È una cosa che mi ha molto affascinata.

C’è stato un momento nella tua vita in cui hai sentito di aver perso i tuoi codici?
Mai, ecco perché sono ancora qui.

Prima parlavi della tua collaboratrice Mona Mur, che è un’altra icona della new wave tedesca. È stata lei che ti ha spinto a fare musica di nuovo?
Per anni ha insistito: perché non torni alla musica prima o poi? Io ho sempre detto di no, ma è tutto cambiato quando durante il lockdown mi annoiavo e Mona, che era a Berlino, mi ha detto di andare da lei a registrare una canzone che le avevo cantato al telefono, tipo «se ti piace la teniamo, sennò dimenticala e basta».

Ti piace il lavoro sulla compilation dei singoli originali degli Xmal Deutchland che ha curato la Sacred Bones?
L’hanno proposto loro, ma ho curato io il design. Ho trovato tantissime immagini e foto, un sacco di lavoro. Era tutto analogico, abbiamo digitalizzato tutto per fare dell’artwork una sorta di replica d’autore. È stato bello.

Sulla copertina di questo album sembri quasi una modella. So che a inizio di carriera ti chiesero anche di fare anche quello.
Ero molto giovane. A un certo punto, però, ho deciso di essere una punk, perché lo sono sempre stata. E lo sono ancora.

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