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Andy Taylor è qui ed è pronto per la reunion coi Duran Duran

Intervista XL al chitarrista: la diagnosi che non lasciava scampo e la cura che gli ha allungato la vita; l’avventura con la band; la cocaina; l’album ‘Reportage’ mai finito; il disco solista ‘Man’s a Wolf to Man’; l’ospitata in ‘Danse Macabre’ e la voglia di suonare coi vecchi amici, a patto che…

Foto press

Doveva essere una delle serate più belle della sua vita. Il 5 novembre 2022 i Duran Duran sarebbero finalmente entrati nella Rock and Roll Hall of Fame. Lui, Andy Taylor, era stato il chitarrista e uno dei co-fondatori della band nel 1980, oltre ad aver scritto molte delle loro hit tra cui Rio e Hungry Like the Wolf. Non saliva sul palco con loro dal 2006, quand’erano riemersi vecchi dissapori durante la lavorazione di un album mai pubblicato, Reportage. E così, si erano separati per una seconda volta.

La cerimonia d’ingresso nella Hall of Fame sarebbe culminata nella reunion della formazione classica a cinque, il motivo per cui molti superfan dei Duran era arrivati al Microsoft Theater di Los Angeles provenienti da ogni parte del mondo. Quando il gruppo è salito sul palco, però, di Taylor non c’era traccia. Al suo posto, uno scritto letto da Simon Le Bon.

«Poco più di quattro anni fa, mi è stato diagnosticato un cancro alla prostata al quarto stadio, con metastasi», comunicava Taylor alla sala attonita. «Sono dispiaciuto e deluso per non essere lì. Ovviamente ero entusiasta della cosa, mi ero persino comprato una nuova chitarra col tremolo, che non poteva mancare. Sono orgoglioso dei miei quattro fratelli, sono colpito dalla loro tenacia e sono felicissimo di accettare questo premio. Ho spesso dubitato che questo momento sarebbe arrivato e ora sono contentissimo di vederlo».

Nei casi di cancro alla prostata al quarto stadio, il 29% dei pazienti possono sperare di vivere cinque anni. Il fatto che Taylor fosse al quarto anno e troppo debole per imbracciare una chitarra e fare tre canzoni non lasciava presagire alcunché di buono.

Eppure l’ultimo anno è stato straordinario per lui. Al momento sta seguendo una nuova terapia che, a suo dire, potrebbe allungargli la vita di alcuni anni ed è abbastanza forte da contribuire al nuovo album dei Duran Duran e portare a termine un LP tutto suo, Man’s a Wolf to Man. È il suo primo lavoro da solista dai tempi di Dangerous del 1990, che era una raccolta di cover, e passa dal  funk alla Power Station di Reaching Out to Get You al mood alla David Bowie di Influential Blondes alla ballata country-rock Try to Get Even, in cui Andy duetta con Tina Arena.

Abbiamo sentito Taylor via Zoom per parlare del nuovo disco, del suo stato di salute, della storia dei Duran Duran, della recente reunion con loro e delle sue speranze per il futuro. È stato brillante, vivace, divertente. Non diresti mai che lotta da cinque anni contro il cancro. A quasi un anno dall’ingresso agrodolce dei Duran Duran nella Hall of Fame, mi è sembrato un piccolo miracolo.

È bello vederti. Non credevo che avremmo potuto parlare così, a un anno dalla Hall of Fame.
Dopo aver perso la serata più importante della mia vita, ho cercato una cura che mi allungasse la vita di suppergiù cinque anni e poi ce ne sarà un’altra. Prima di quella sera, non volevo accettare la situazione. Mi ripetevo: ce la farò, ci sarò. Pochi giorni prima ho dovuto fare i conti con la realtà. Ho ricevuto aiuto, amore e sostegno da parte della gente. Non ne ho mai parlato apertamente, ma sono cinque anni che vivo questa situazione. Mi sono consultato con altri specialisti che mi hanno parlato di trattamenti alternativi e così ho trovato un nuovo tipo di terapia. Mi hanno fatto dei test e mi hanno detto che avrebbe funzionato bene.

A che punto sei con la nuova cura?
Ho iniziato otto settimane fa e ho fatto due cicli. È medicina nucleare basata sul Lutezio-177: identifica il cancro all’esterno delle cellule, non deve necessariamente penetrare all’interno. Individua quella cancerosa, la aggancia e la uccide, ma non danneggia le cellule sane. E la quantità di radiazioni è minima. Giovedì ho fatto il secondo ciclo. Mi ci vogliono soltanto quattro giorni per riprendermi da ogni seduta. È incredibile.

E ne sei venuto a conoscenza solo perché hai deciso di parlarne pubblicamente la sera della Hall of Fame?
Sì. Dopo ho incontrato un ricercatore inglese, Sir Chris Evans. È un oncologo ed è un tipo incredibile. Mi ha detto: «Posso dare un’occhiata alla situazione col mio team?». E io: «Certo, ho tutti i miei appunti qui». Mi ha fatto un test del genoma, a cui non mi ero ancora sottoposto: probabilmente nel Regno Unito siamo un po’ indietro nella cura del cancro. È venuto fuori che ho una mutazione genetica, una cosa ereditaria, e hanno visto che nel mio caso quest’altro trattamento poteva funzionare e poteva farmi andare avanti per anni. La scienza medica è in continua evoluzione e quindi puoi cercare sempre nuove cure. Mi hanno detto che adesso ho più probabilità di vivere che di morire. Quando mi è stata diagnosticata la malattia, cinque anni fa, mi avevano comunicato che mi restavano al massimo cinque anni. E quindi oggi sono in una specie di stato di grazia: è successo davvero? Sono stato così fortunato?

Coi Duran ai tempo dell’esordio. Foto: Fin Costello/Redferns

Parliamo della storia dei Duran Duran. Guardavo un video in cui facevate Planet Earth dal vivo, durante il programma televisivo svedese Måndagsbörsen, l’11 novembre 1981. È sorprendente vedere che già agli esordi avevate il sound tipico dei Duran Duran. È come se la band fosse nata già matura.
Quando sono andato a Birmingham per incontrare il gruppo, nell’aprile del 1980, non avevano nemmeno un cantante, mi hanno detto che era in vacanza. Ma avevano delle idee, e John e Roger suonavano bene assieme. Sono andato da loro e ci sono rimasto un paio di settimane. Poi, dopo un mese e mezzo, abbiamo conosciuto Simon. Abbiamo fatto il nostro primo concerto il 19 luglio: a quel punto avevamo quasi tutto il primo album.

Notevole.
Girls on Film era un pezzo diverso. Ne abbiamo fatte varie versioni. Non ricordo se allora avevamo già Planet Earth, ma il suono era quello. Arrivato l’autunno, abbiamo fatto da band di supporto a Hazel O’Connor e a quel punto avevamo già scritto e inciso in versione demo tutto il primo album. Fra il primo concerto e la pubblicazione del primo singolo sono passati sei mesi o giù di lì.

Guardando i video di quel periodo si percepisce nettamente la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80.
È incredibile come i decenni fossero così caratterizzati. Forse ora non lo sono più così tanto, dal punto di vista culturale. Noi eravamo troppo giovani per il punk, visto che avevamo tutti 13 o 14 anni quand’è esploso, quindi il nostro era una sorta di glam punk. Tutti gli altri membri della band erano fan degli Chic. Io ho imparato a fare quella roba quando suonavo nelle basi militari americane, prima di entrare nei Duran Duran: dovevi tenere sei spettacoli da 45 minuti a sera, per cui ho imparato a suonare materiale di ogni tipo. Facevamo solo cover, ho imparato tanti stili diversi ed è stato fondamentale per far funzionare la chitarra nei Duran. Tutti, allora, abbandonavano le chitarre per mettere al centro i synth, la LinnDrum, la 808. Noi abbiamo mantenuto le cose ibride e abbiamo conservato la chitarra.

Non che fosse una cosa alla Angus Young o alla Eddie Van Halen, con gli assoli eccetera. Diciamo che c’erano vari strati di chitarra. A volte erano due chitarre mixate insieme che sembravano una. L’ho imparato da Hendrix, che accorpava tre chitarre per farle sembrare una sola. In canzoni come Planet Earth, nel ritornello, ci sono una chitarra funk e una heavy mescolate insieme. Ho usato anche una chitarra synth e Nick Rhodes ha preso tutte quelle tastiere appena sono uscite. Verso dicembre 1980 abbiamo registrato Planet Earth.

Una cosa importantissima che avete fatto è stata girare tanto in America e fare di tutto per sfondare laggiù. Molti dei vostri competitor non l’hanno fatto.
Sapevamo che l’America era l’ostacolo più grande da superare. Ci dicevamo: «Vogliamo suonare al Madison Square Garden». Avevamo tutti la stessa ambizione e probabilmente era ciò che ci univa, anche se eravamo diversi, da molti punti di vista. Eravamo uno diverso dall’altro, ma tutti ambiziosissimi.

Con Simon Le Bon nel primo tour americano. Foto: Ebet Roberts/Redferns

Il gruppo ha toccato l’apice della popolarità con Rio, nel 1983. Quale consiglio daresti ai Duran Duran di allora, col senno di poi?
Eravamo tutti giovanissimi quando abbiamo iniziato e dovevamo imparare dai nostri errori. Eravamo ambiziosi, ma senza esperienza. Avremmo avuto bisogno di più persone, intorno a noi, che ci aiutassero. Qualcuno avrebbe dovuto prenderci da parte e dirci: «Sapete una cosa? Sarebbe bello, ma davvero bello se ci sedessimo a parlare insieme di quanta cazzo di cocaina vi fate».

La droga è il flagello di molte band. Non sto dicendo che tutti e cinque pippassimo, ma non c’era nessuno con sufficiente esperienza ed empatia da parlarci da fratello maggiore. Avevamo tutti meno di 25 anni quand’uscito Rio e nessuno ci ha detto: «Ok, ora facciamo un bel respiro, prendiamoci un anno di pausa». Nel 1984 avevamo già pubblicato tre album dei Duran Duran, un disco dei Power Station, un disco degli Arcadia e uno dal vivo. Sono sei dischi di platino in quattro anni, ma nessuno ha avuto la lungimiranza di consigliarci di prenderci una pausa. Roger non stava bene. John e io abbiamo toccato il fondo dopo i Power Station. Nessuna persona più grande d’età, nemmeno mio padre, ci ha consigliato di fermarci e questo perché nessuno voleva bloccare il flusso dei guadagni.

Hai lasciato la band nel 1986. Hai ascoltato il Wedding Album o la musica che i Duran Duran hanno fatto dopo?
Prima che pubblicassero il Wedding Album ho visto Simon, perché entrambi abitavamo a sud di Londra, eravamo vicini. Abbiamo bevuto e mangiato qualcosa. Mentre mi riaccompagnava, ha messo su una cassetta di demo con Ordinary World e Come Undone. Mi ha chiesto: «Che ne pensi?». E io: «Cazzo!». Ci sentivo la struttura melodica brillante di quando lavoravamo assieme. L’avevano ritrovata collaborando con Warren [Cuccurullo]. Poi ho iniziato a lavorare allo sfortunatissimo secondo album dei Power Station. Ah, penso che All You Need Is Now sia un grande pezzo, è nell’ultimo loro album che ho ascoltato.

Tanti fan muoiono dalla voglia di ascoltare Reportage, il disco lasciato incompiuto quando hai mollato nuovamente la band, negli anni Duemila. Pensi che sarà mai terminato?
Non lo so. Come si fa a finire un disco? Di sicuro non nel modo in cui loro lavorano adesso. Dovremmo tornare a fare le cose alla vecchia maniera e sarebbe una situazione a cui si dovrebbero adattare più loro che io, se ci pensi. Io sono l’unico della band che ha lavorato con tantissime altre persone. Sono capace di adattarmi alle cose di Robert Palmer, dei Ting Tings, di Reef e poi posso fare le mie. Nel corso degli anni ho imparato a entrare in una stanza e adattarmi alle circostanze e al tipo di impegno. Sarebbe facile per me dire: so esattamente qual è il mio ruolo qui, posso suonare ancora così. La domanda è: gli altri possono tornare alla formula di un tempo? È come essere in una squadra di calcio. La squadra può tornare alla forma che aveva prima, così che si instauri un dialogo e ci sia intesa? In realtà è qualcosa che non ha a che fare con la musica: si tratta di capire se si riesce a venirsi incontro così da tornare a capirsi e dimenticare tutto resto.

Di nuovo assieme ai tempi di ‘Astronaut’. Foto: Yui Mok/PA Images via Getty Images

Ora hai un nuovo album solista, Man’s a Wolf to Man. Come è nato?
Ho iniziato quando mi è arrivata una chiamata su FaceTime da Hartwig [Masuch], l’amministratore delegato di BMG. Meglio rispondere, mi sono detto. Lui ha un amore per la musica che alcuni CEO si possono solo sognare ed è un grande fan dei Duran. Sapeva tantissime cose sul mio conto. «Vorrei che tu facessi un disco per noi», mi ha detto. «Magari parla con John, se vuoi fare un album dei Power Station, oppure fanne uno solista, come vuoi». Ho fatto chiamare l’ufficio dei Duran Duran per contattare John, ma credo che in quel momento non sarebbe stato possibile. Non tanto per via degli impegni, ma più che altro perché allora non eravamo nelle condizioni di farlo. Così ho iniziato a sviluppare una mezza idea di fare un disco dei Power Station da solo. Il punto era trovare un batterista. La band è nata con Tony Thompson e con quel suo incredibile cazzo di piedone destro. Trovare un nuovo batterista sarebbe stata una sfida. Alla fine ho deciso di fare un album da solista. Mi hanno lasciato carta bianca, era l’unica cosa che avevo chiesto.

E come è andata?
Abbiamo terminato una versione del disco e tutto, a livello di marketing e pubblicazione, ha preso il via alla fine del 2019, ma poi è stato stoppato. Quando mi è stato diagnosticato il cancro ho detto: «Dovrete tenerlo nel cassetto ancora per un paio d’anni». Pensavo che forse la BMG avrebbe lasciato perdere l’idea, una volta finita la pandemia, e invece… Ho ripreso in mano il progetto l’anno scorso, verso luglio, sapendo che alla fine dell’anno saremmo entrati nella Rock and Roll Hall of Fame. Ho pensato: «Ottimo tempismo». Poi la mia salute è peggiorata. Una cosa che mi ha permesso di restare lucido è stata trascorrere tanto tempo in uno studio a Ibiza. Continuavo a dire alla gente: «Non c’è mai stato un momento in cui la musica ha avuto più valore, per me: perché così, quando stai malissimo, puoi trascorrere otto ore dimenticando tutto quello che ti succede attorno». Diciamo che l’album è diviso in due parti. La prima metà risale all’inizio della pandemia, quando mi hanno diagnosticato il cancro e non stavo molto bene. Poi mi ho iniziato il nuovo trattamento, mi hanno allungato la vita e ho finito il disco.

Nella title track ti riferisci chiaramente a quanto la nostra società sia diventata perversa.
Si ispira al filosofo politico inglese Thomas Hobbes. La canzone dice: se non vi civilizzate e non vi democratizzate, continuerete a uccidervi come tribù rivali. Siamo giunti alla chiusura del cerchio. Quello che mi ha fatto incazzare, ancora prima di quello che è successo a voi in America, è stato quel cazzo di Boris Johnson con la Brexit. Il razzismo è tornato in auge per colpa sua, per conquistare i voti del nord e delle generazioni più vecchie della mia. Ho iniziato a sentire la gente parlare come non la sentivo dagli anni ’70. È una strategia basata sul dividere le persone. Trump non ha forse fatto lo stesso, in America?

Reachin’ Out to You somiglia ai Power Station.
Ha un testo piuttosto working class. Io vengo da Newcastle, Ricky [Warwick] da Glasgow. Siamo originari di due fra le città più toste del Regno Unito. Sono città portuali, posti di mare. Lui se n’è uscito con “Stiamo chiudendo…”. E io ho detto: “Stiamo chiudendo le fabbriche / Tutte le nostre bollette sono scadute”. Pensavo agli anni ’70, a quello che è successo alla generazione di mio padre.

Deve averti fatto piacere il fatto che i Duran Duran si siano esibiti al concerto benefit per te, poco tempo fa.
Sì. Simon mi ha chiamato dopo che avevamo lavorato insieme al nuovo album dei Duran Duran, da me. Mi ha chiesto: «Come va la terapia?». «Nessun problema, è tutto sotto controllo». «No, voglio aiutarti. Questa cosa potrebbe andare avanti per anni. Voglio aiutarti». È una delle poche persone di cui mi fido, perché è un vero gentleman È un uomo davvero onestissimo. Amo la sua famiglia. Sono fantastici, lui, Yas e i bambini. Mi ha detto: «Senti, potremmo fare un concerto e poi collaborare con un ente di beneficenza per raccogliere molto, molto più denaro».

Si tratta del Cancer Awareness Trust, di cui si occupa Sir Chris. Con quell’evento i Duran Duran mi hanno dato una bella spinta, mi hanno offerto una piattaforma per parlarne, perché l’ho scampata davvero bella. Voglio informare la gente. Ci sono tanti uomini ricchi che possono contribuire a raccogliere fondi per la salute maschile, che è molto trascurata. Gli uomini non ne parlano nemmeno di certe cose. Gli uomini adulti non dicono: «Hai avuto un po’ di disfunzione erettile o sei andato a pisciare durante la notte?». Le donne sono molto, ma molto più aperte a riguardo della loro anatomia. Gli uomini sono… uomini.

Hai accennato al nuovo album dei Duran Duran Danse Macabre. Che ruolo hai avuto nel disco?
Sono alla chitarra in vari pezzi: in pratica mi ritrovo con due album in uscita, ma cerco di non parlarne troppo. Comunque l’ho fatto, in aprile, e dentro ci sono dei bei pezzi in cui suono.

Tanti fan sognano di rivederti sul palco con la band. Succederà?
Dipende da loro. Il fatto che io sia qui dimostra che non ho alcuna intenzione di mettermi di traverso. Ma di certo non andrò a bussare alla loro porta dicendo: «Dovremmo…». Se vogliono farlo, qui la porta è aperta. Ma devono chiedermelo loro.

Il discorso fila.
Non è che parliamo molto. Ci vediamo ogni tanto, ma questo non è un argomento di conversazione. E la mia opinione in merito è che, dopo 43 anni, questo è come se fosse il terzo round della carriera dei Duran, una nuova ondata di successo. Ci sono altre cose in cantiere, già terminate, su cui stiamo lavorando. Il mio approccio e la mia idea sono che dovremmo suonare insieme dal vivo: siamo debitori a questa incredibile fan base che ci ha votati per la Rock and Roll Hall of Fame, tanto per cominciare. Ho sempre pensato che suonare tutto l’album Rio sarebbe fantastico, qualcosa di speciale e diverso. Credo che dovremmo fare qualcosa del genere, che sia per i fan, non per promuovere un nuovo album. Non devono necessariamente esserci in ballo soldi e stadi.

Coi Duran Duran nel 1983. Foto: Fin Costello/Redferns

È bello che, a quanto pare, abbiate rinsaldato la vostra amicizia. Quando te ne sei andato, l’ultima volta, ovviamente c’era del risentimento.
Aveva a che fare con la direzione del gruppo, non necessariamente con fatti personali. Però è ovvio che le due cose si fondano, quando sei in una band: a volte non riesci a distinguere l’una dall’altra. Ok, sarò onesto: è stata colpa mia. Per me è diventato un problema inserirmi in una band e rispettarne le regole, perché da quando ho lasciato il gruppo mi sono abituato a decidere io, sui progetti, e a fare le cose per conto mio. Con loro, se arrivava qualcuno e mi diceva «Ehi Andy, vuoi fare questa cosa con noi?», io dovevo rispondere «Oh, no, non posso, cazzo, perché la band deve fare un tour promozionale in Cina o chissà dove». E poi arrivi a un punto in cui hai figli e nipoti. La band può essere tutta la tua vita e puoi arrivare ad accettarlo, come credo che loro abbiano fatto, ma io non potevo continuare a darle la priorità su tutto.

Il problema non era dato solo da Justin Timberlake, Timbaland o dall’optare per un altro tipo di produzione… io non volevo scrivere canzoni con Justin Timberlake, lo ammetto apertamente. E questa cosa non ha niente a che fare con lui: sono io. La band aveva intenzione di cambiare le regole e diventava molto difficile, per me, andare in una stanza con una decina di persone, visto che invece posso fare un sacco di cose per conto mio. Perché in quel modo usi solo una piccola frazione della tua testa. Finiremo Reportage quando finalmente potremo dire: «In questa stanza ci siamo solo noi. Se qualcosa non vi piace, ditemelo, io farò lo stesso. E se vi piace, ditemelo: anch’io lo farò». Una volta era così che andava e se tornassimo a fare in questo modo finiremmo Reportage in un secondo.

Pensi che farai dei concerti da solista, prima o poi?
Sì. Dovrò fare delle sedute di terapia e sto definendo gli obiettivi per il prossimo anno. Il mio primo concerto sarà il 30 settembre: non dirò dove, ma il primo piccolo show che cercherò di suonare sarà in quel fine settimana. Probabilmente si tratterà di un set breve. Sto cercando di darmi degli obiettivi, di ricominciare a lavorare e rimettermi a provare.

Dopo tutto quello che hai passato, pensi di riuscire ad apprezzare meglio ogni singolo giorno della tua vita?
Una cosa del genere ti costringe a fermarti e a premere il pulsante reset chiedendoti: ok, sai già quali sono le cose fai bene, in cosa potresti migliorare? E poi è con la tua famiglia che superi quel tunnel. Voglio essere al mio meglio per la mia famiglia, dopo quello che hanno passato.

Spero tanto che i Duran Duran ti riaccolgano presto nella formazione che va in tour. Per me loro sono una band formata da cinque elementi e senza di te non è completa.
C’è la possibilità concreta che accada. Loro mi hanno aiutato a rimettermi in piedi, quindi c’è un altro posto dove i miei piedi potrebbero essere, ed è…

Sul palco con loro…
Non lo escluderei. Come ho detto, la porta è spalancata, ma i ragazzi devono creare le giuste condizioni e sentire che quella è la cosa giusta da fare. Tutti noi abbiamo vissuto un’esperienza unica con dei fan eccezionali e questo, per me, è la cosa più importante. Persone vicine a noi hanno chiesto: e dove starebbe il problema? Io rispondo che per me non ci sarebbero problemi. È solo che tutti devono essere in sintonia e avere un obiettivo comune. Perché lo facciamo? Potrebbe essere anche solo per fare impazzire i fan. E poi, quanto mi piacerebbe suonare di nuovo al Madison Square Garden.

Da Rolling Stone US.

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