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Andy Summers: «Che follia entrare nei Police»

Il chitarrista ci ha parlato della decisione di unirsi alla «punk band sconosciuta» di Sting e Stewart Copeland, dei primi anni difficili («Abbiamo fatto la fame»), del libro di racconti ‘Giù di corda’ in cui fa dello humour sui Sonic Youth, della possibilità di un nuova reunion: «Fosse per me la farei»

Andy Summers: «Che follia entrare nei Police»

Andy Summers

Foto: Valerie Macon/Getty Images

Perché hai lasciato una carriera più o meno sicura per far parte di una band finto punk che non andrà da nessuna parte? «Non lo so, che dici? Avrei dovuto fermarmi a Neil Sedaka?».

Il botta e risposta raccontato da Stewart Copeland a Rolling Stone la scorsa estate dice molto dell’atteggiamento di Andy Summers verso la musica e la vita. Quando il chitarrista entrò nei Police non era più di primissimo pelo. Aveva già 35 anni, l’età di un dinosauro nella Londra del fatidico ’77. Aveva suonato con Kevin Coyne, Joan Armatrading, Kevin Ayers e altri ancora. Eppure voleva di più, soprattutto voleva qualcosa di diverso.

Oggi che di anni ne sta per fare 81 non si è ancora fermato. Ci risponde via Zoom dalla sua casa di Los Angeles, alla vigilia di un breve viaggio in Florida per le ultime quattro date del suo intenso 2023, in cui salirà da solo sul palco per suonare e raccontare storie davanti a un grande schermo con una sequenza di sue fotografie preparate per l’occasione. «Mi piacerebbe farlo anche in Italia, ma qualcuno dovrebbe organizzare», dice.

Alcune di queste storie sono finite in Giù di corda (Sagoma), libro pubblicato in Italia nelle scorse settimane, fatto di racconti che hanno per protagonista la chitarra, lo strumento che Summers ha imbracciato in tenera età per non lasciarlo più. «Più che altro me l’hanno messa in mano», racconta. «Non è una cosa a cui avevo pensato prima. Avevo 11 anni e mio zio mi ha dato questa chitarra classica, un po’ malandata, che era stata sua per anni. Immediatamente ne ho colto la magia e non l’ho più messa giù. Non ci sono stati tanti ragionamenti, me l’hanno messa in mano e non se n’è più andata. È stato l’inizio di un’ossessione che è durata per tutta la vita».

I racconti di Summers sono spesso baciati da uno humour asciutto e sorprendente. Altre volte sono surreali, come quello in cui un musicista parla alla propria chitarra come se fosse una donna da cui è molto preso. «È una fantasia», chiarisce, «ma nella vita c’è spazio anche per quello. B.B. King per esempio chiamava la sua chitarra Lucille. Ci vuole fantasia per fare una cosa del genere, però si può pensare alla chitarra come a una donna, perché la sua forma ricorda quella del corpo di una donna. È chiaro che sono solo follie che possono entrarti in testa, però la chitarra è una compagna, un’amica, persino una musa. Fare questi pensieri è piacevole, ma non è che mi metto lì a dire: amore, come stai oggi? Non parlo alla mia chitarra in questo modo: penso a suonarla. Certo in qualche modo le parlo, perché è con me e contiene tante delle cose della mia vita, e poi la guardo e mi domando se ho suonato bene, se ero ispirato… Questo atteggiamento è quello che ti rende un musicista, un chitarrista in questo caso. Ti leghi allo strumento e ti ci identifichi. Amore è una parola grossa, però la chitarra si porta dietro una forza che attraversa la tua vita, e c’è sempre. E poi c’è la pignoleria, che ti fa scegliere una precisa chitarra, scartarne altre che non vanno bene per una particolare giornata e così via. Intorno a me in questo momento ci sono una dozzina di chitarre».

Un altro dei racconti parla di un musicista che odia dare interviste perché gli chiedono sempre le stesse cose. Il dubbio che in questo musicista ci sia almeno un po’ di Andy Summers ci assale quando definisce «stupid question» una delle classiche domande di avvicinamento che a volte si fanno per misurare un po’ la temperatura, che con due continenti e un oceano di mezzo può anche essere freddina. «A dare interviste si impara col tempo», spiega. «Quando inizi sei più innocente, naïf, e non ne sai molto. Con il passare del tempo diventa quasi un’altra carriera. C’è la carriera del musicista, con tutte le cose che si porta dietro, e poi c’è la carriera della persona famosa. Tocca fare un sacco di interviste, e bisogna avere idee da esprimere, saper provocare un po’. E ci sono cose di cui non si ha voglia di parlare, perché la stampa ne tira fuori storie eclatanti. In Inghilterra i tabloid cercano le cose più negative che possono trovare su di te. Ho rifiutato un sacco di interviste perché è quello che vogliono, perché pensano che gli faccia vendere copie. E quindi, come dicevo, anche rilasciare interviste diventa un lavoro, e bisogna imparare a sguainare la spada per proteggersi».

Diversi dei protagonisti del libro vanno incontro a fallimenti e delusioni più o meno grandi, nella carriera o nella vita, ma molti di loro ne approfittano per scriverci una canzone. «Penso che se vuoi scrivere della buona letteratura, ma vale anche per la pittura o la musica, questa debba arrivare dalla tua esperienza. Certo, puoi anche immaginarti le cose, ma quelle migliori vengono dalle esperienze vere. Si chiama talento artistico. È stato così anche per il mio libro».

Uno dei ritratti più memorabili di Giù di corda è quello dei Deaf Mutes. Vengono da New York, il chitarrista è alto due metri e dieci e la loro storia è raccontata dalla bassista, che è la sua fidanzata. Quando se ne vengono fuori con una vera melodia, e incidono addirittura un album con vere canzoni, la loro copertura salta e finiscono per sciogliersi. Scioglimento a parte, a chi somigliano? Andy Summers non ama i Sonic Youth? «È una cosa che va presa con humour», chiarisce. «Loro avevano una posizione molto chiara. Venivano dal punk, Thurston Moore era un punk radicale, e non gli interessavano la musicalità o il songwriting. Già il nome, Sonic Youth, diceva molto. Loro erano proprio così: crudi, aggressivi, intensi. La parola Sonic mi fa venire in mente un rumore pesante. Mi sono divertito a scrivere quella storia, con sarcasmo britannico, se vogliamo. In realtà quando li ho ascoltati li ho trovati più melodici del previsto. Ma non come altre band emerse dal punk. I Blondie erano un gruppo pop, ma anche i Ramones, che per certi versi erano fantastici. I Sonic Youth li accosterei più ai Suicide. Penso che nel corso della loro carriera abbiano avuto degli ottimi batteristi, ed è ciò che ha tenuto insieme la band. E poi c’era Kim Gordon, bella e sexy, che dava al gruppo un look diverso. Non penso che fosse una grande bassista, ma in quella band ci stava benissimo».

Foto: Lynn Goldsmith/Corbis/VCG via Getty Images

Quando gli chiediamo chi era il suo chitarrista preferito nei gloriosi anni Police, Summers decide di rispondere sfasando i piani temporali. «I Police si sono formati al culmine della scena punk, ma si sono proposti come musicisti diversi da quelli che c’erano in giro in quel momento. Io certamente non copiavo nessuno. Ti risponderò con il nome di una band che è arrivata più di dieci anni dopo: i Nirvana. Avevano una sorta di spirito punk, ma Kurt Cobain scriveva canzoni molto belle e sapeva cantarle. Secondo me loro hanno preso alcuni ingredienti del primo punk e li hanno trasformati in qualcosa di più musicale. E hanno avuto un grande successo. In un certo senso il mio gruppo punk preferito sono stati i Nirvana. Dico punk perché del punk avevano l’aggressività».

Dei Police, Summers parla volentieri e con grande orgoglio. «Abbiamo dominato il mondo per sei-sette anni, con una serie infinita di hit. Oggi ci sono tante band ma non c’è niente di paragonabile». Il miglior album, secondo lui, è stato Reggatta De Blanc, opera seconda del 1979. «In quel momento la nostra era una parabola ascendente, ci stavamo facendo conoscere ed eravamo ancora abbastanza grezzi. Prima di diventare superfamosi avevamo ancora un certo spirito. In quel periodo ce la mettevamo tutta per mostrare di che pasta eravamo fatti. Era come se dicessimo: siamo una grande band e voi dovreste ascoltarci. Mi piace quel disco perché mi piacciono tutte le canzoni che contiene, e poi c’è Message in a Bottle, che è la più bella canzone dei Police. Con Synchronicity siamo arrivati in una categoria completamente diversa: con gli stadi e i milioni di dollari cambia tutto. Il primo album invece è stato molto difficile da fare perché abbiamo dovuto lavorarci nei weekend e ci abbiamo messo sei mesi. Il tempo passava e noi continuavamo a cambiare. Con Reggatta De Blanc non eravamo più grezzi come all’esordio: eravamo ancora tosti, ma non ce l’avevamo ancora fatta. E proprio per questo mi piace, penso sia stato il nostro momento migliore. Eravamo molto concentrati su quello che stavamo facendo».

Per tornare al botta e risposta iniziale raccontato da Stewart Copeland, Summers ha un ricordo molto nitido dei motivi che lo spinsero a far parte dei Police, abbandonando una carriera sicura da session man. «Non è che fossi il dominatore di Londra», racconta, «diciamo che mi stavo facendo conoscere. Ero abbastanza richiesto e ho fatto la follia di entrare in una punk band sconosciuta. Una cosa da pazzi che ho fatto perché ho sentito qualcosa. Volevo suonare in un trio, senza piano, senza altri chitarristi, perché pensavo che me la sarei cavata bene. Sentivo l’energia, era un momento emozionante. Ci sono finito un po’ per caso: è capitato di provare insieme e abbiamo tutti pensato la stessa cosa: che eravamo una grande band. Abbiamo capito quello che sarebbe potuto succedere, anche se in quel momento non c’erano concerti in programma e non c’erano soldi. Quindi in pratica sono entrato in una cosa che non esisteva. Ho seguito una fantasia. Abbiamo fatto la fame, e non sapevamo se ce l’avremmo mai fatta o se magari Sting avrebbe preso e se ne sarebbe andato per suonare con qualcun altro. Sono stati momenti difficili». Poi ne sono decisamente usciti.

«Quello che ci ha salvato è stato un piccolo tour negli Stati Uniti», ricorda. «Ci davano 200 dollari a concerto e abbiamo suonato al CBGB, il che è stato importante perché era la mecca del punk, dove avevano suonato tutti: Talking Heads, Blondie, Suicide, Ramones… In quel momento è come se ci avessero impresso un timbro: ok, siete una vera band e fate parte di questa scena. A Londra facevamo fatica a farci accettare come un vero gruppo punk. Non che la cosa ci interessasse più di tanto, solo che così non ci facevano suonare. Dopo New York siamo andati a Boston, e lì la WBCN, la radio principale, aveva iniziato a trasmettere Roxanne facendola diventare una hit. È stata la prima volta in cui abbiamo pensato che la cosa poteva funzionare. Tornati in Inghilterra ci siamo trovati al punto di prima: niente concerti. Nonostante il tour negli Stati Uniti, abbiamo rischiato che la band finisse lì. Ma il nostro manager ci ha trovato un ingaggio da gruppo spalla per gli Albertos, un gruppo che faceva rock in chiave umoristica. Il primo concerto fu a Bath, ci davano 50 dollari a serata. Eravamo contenti e caldissimi, perché avevamo suonato negli States tutte le sere per tre settimane. C’era gente di tutti i tipi, compresi i punk, e quando abbiamo attaccato sono saltati sul palco, ed è stato un casino totale dall’inizio alla fine. Stessa cosa per altri venti concerti. A quel punto il pubblico veniva per noi, e lì abbiamo capito che era iniziato il nostro viaggio. È stato un grande momento».

Foto: PA Images via Getty Images

Meno di sette anni dopo l’avventura era finita, ma nel trentennale della formazione della band Summers è tornato sul palco con Sting e Stewart Copeland per un reunion tour che ha toccato anche l’Italia, prima allo Stadio Delle Alpi di Torino e poi al Parco San Giuliano di Mestre, in occasione del Jammin’ Festival. Era l’estate del 2008 e l’Italia si giocava a Vienna l’accesso alla semifinale degli europei di calcio contro la Spagna. La partita che costò la panchina a Roberto Donadoni venne mostrata sui maxischermi ai lati del palco. «Anche se abbiamo fatti 150 concerti, quello di Venezia me lo ricordo particolarmente perché ci hanno portati là in motoscafo con il sole che stava tramontando e aveva il colore dell’oro. Era molto bello. Si prospettava una serata incredibile, anche perché era tutto pieno, ed eravamo un bel po’ carichi. Mi ricordo che prima di noi c’era Alanis Morissette e poi avremmo dovuto suonare noi, ma c’era la partita dell’Italia che è arrivata fino ai rigori, e quindi per salire sul palco abbiamo dovuto aspettare un bel po’». Un paio di mesi dopo, i Police misero mise fine alla propria seconda vita con un concerto al Madison Square Garden. Si è scritto di tutto. Soprattutto che i caratteri dei tre musicisti avevano cozzato di nuovo, e che nessuno aveva più voglia di condividere palchi, studi e viaggi con gli altri due, nonostante gli oltre 350 milioni di dollari fatturati con il tour.

Oggi, per parte sua, Summers è decisamente possibilista. «Un reunion tour lo farei», dice, «ma non penso che ci siano molte probabilità. Sting fa i suoi concerti, Stewart pure e anch’io faccio le mie cose». Tra le quali suonare nei Call the Police, una tribute band di cui lui ovviamente è la superstar. Messa su anni fa con due musicisti brasiliani, anche quest’estate è andata in giro per il Sudamerica portando sul palco l’invidiabile repertorio e il chitarrista originale di una delle band più amate degli anni ’80. Sembra una delle storie del libro di Andy Summers.

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