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Andrew Watt: «I Pearl Jam sono la più grande live band al mondo»

È nato nella stessa settimana del 1990 in cui nasceva il gruppo di Seattle, di cui è un superfan. Trentaquattro anni dopo s’è tolto la soddisfazione di produrre il loro ‘Dark Matter’. «Sono fatti per suonare insieme», racconta in questa intervista, dove spiega l’album canzone per canzone

Foto: Jeff Kravitz/FilmMagic

Andrew Watt e i Pearl Jam sono venuti al mondo praticamente nello stesso momento. Il produttore è nato il 20 ottobre 1990. Nella stessa settimana, Eddie Vedder volava da San Diego a Seattle per incontrare per la prima volta i futuri compagni di band. «M’hanno detto che probabilmente stavano scrivendo Release nel momento in cui mia madre mi dava alla luce. Due giorni dopo hanno fatto il loro primo concerto all’Off Ramp. Non voglio fare il mistico, eh, ma questa cosa è molto, molto curiosa».

Watt era troppo impegnato a imparare a gattonare e a mangiare cibi solidi per seguire i Pearl Jam nei primi anni ’90, ma da adolescente è diventato un fan sfegatato e ossessivo. «Sono il mio gruppo preferito di sempre. Sono stato a più concerti di quanti se ne possano immaginare, direi almeno 40. Ho tutte le loro magliette. Il mio show preferito, intendo di tutta la vita, è stato quello che hanno fatto allo Spectrum di Philadelphia a Halloween nel 2009».

Una decina d’anni fa Watt ha iniziato a produrre artisti pop come Justin Bieber, Selena Gomez e 5 Seconds of Summer. Lavorare a un disco dei Pearl Jam pareva un sogno irrealizzabile. Ha messo un piede nel mondo del rock nel 2020, quando Ozzy Osbourne l’ha ingaggiato per lavorare a Ordinary Man. Ha poi prodotto Every Loser di Iggy Pop e Hackney Diamonds di un gruppetto inglese che si chiama Rolling Stones. Nel frattempo, ha lavorato a Earthling di Eddie Vedder ed è stato in tour con lui come chitarrista insieme a Chad Smith, Glen Hansard e Josh Klinghoffer. Non ha solo realizzato il sogno adolescenziale di suonare Better Man e Porch con Vedder, ma si è trovato nella condizione di produrre il nuovo album dei Pearl Jam Dark Matter.

Un sabato sera, durante la pausa di una session supersegreta di registrazione, che potrebbe essere con Lady Gaga stando a quel che dice Ozzy Osbourne, Watt ha risposto alle nostre domande sulla passione per i Pearl Jam e la creazione di Dark Matter.

Qual è il tuo primo ricordo legato ai Pearl Jam?
Mi sa il video di Jeremy. Da ragazzino guardavo MTV con mio fratello Jason, che ha cinque anni più di me. Lui conosceva tutta la musica più cool e riceveva una paghetta più alta della mia e la spendeva in CD. Mi ha fatto conoscere un sacco di musica fra cui i Pearl Jam e Ten. Ci sono andato in fissa. Piazzavo il CD nel mio Discman, mettevo le cuffie e mi lasciavo trasportare. La prima volta che ho sperimentato cose come rabbia, depressione, felicità ed energia è stato ascoltando quel disco.

Conoscevi altri fan di band simili?
No, dalle mie parti non erano molti quelli che volevano far parte di gruppi rock. Così ho imparato a suonare un sacco di strumenti diversi e a registrarmi da solo. Ho imparato a suonare basso, chitarra e batteria ascoltando i Pearl Jam. Ognuno dei componenti della band mi ha influenzato moltissimo. Da fan, ho capito ciò che mi piace del loro modo di suonare. Così, quando si è presentata l’occasione di lavorare con loro, ho voluto lasciarli liberi, senza influenzarli.

Quando li hai visti per la prima volta in concerto?
Credo sia stato al Madison Square Garden, nel 2003. E da allora sono andato a sentirli più e più volte.

Ogni show è incredibilmente unico e diverso. Non ci sono molti grossi gruppi, a parte le jam band come i Phish, che fanno concerti di questo tipo.
Amico, Eddie Vedder si presenta al locale alle 2 del pomeriggio del giorno dello spettacolo, a volte anche prima, e passa in rassegna ogni singola canzone che hanno suonato in quel posto o in quella città. Nessuno lavora sodo come lui sulle scalette per assicurarsi che i fan sentano qualcosa di speciale. Ci lavora tantissimo e la band è pronta a tutto. Fanno canzoni che non suonano o non riascoltano da dieci anni. Entrano in una sala prove e le studiano. Non temono nulla, amico. Salgono su quel cazzo di palco e spaccano.

Come li hai conosciuti?
Molti anni fa, suonavo la chitarra per un gruppo pop. A quel punto della mia vita, fumavo un sacco di erba, ora non più, e compravo chitarre in ogni città in cui mi andavo. Avevo appena preso una vecchia chitarra elettrica con la cassa grande. Ho fumato una canna, sono sceso dal bus, non sapevo dove mi trovassi e mi sono accorto di essere allo Shoreline Amphitheatre (a Mountain View, California, nda). Per un fan dei Pearl Jam è un posto importante, visto che lì si tiene il Bridge School Benefit.

Ero entusiasta di essere lì e ho trovato una signora che lavorava alla reception. Ho iniziato a farle domande su Eddie Vedder. Mi ha detto che era molto gentile. Le ho chiesto quando ci sarebbe stato il Bridge School Benefit successivo. Era fissato per il giorno del mio compleanno, il 20 ottobre. Non sapevo chi era stato invitato, ma ho pensato che ci sarebbe stato Eddie Vedder, visto che ci andava sempre. Ero molto su di giri e ho scritto una lunga lettera chiedendo alla signora di consegnargliela. Speravo che Eddie la leggesse. Finiva così: “A proposito, oggi è il mio compleanno. Ecco il mio numero”.

Poteva essere giugno, luglio o agosto. Mesi dopo, tornando a casa ho trovato una chiamata persa da Seattle, Washington. Ho pensato: «No dai, non può essere davvero lui». Poi ho ascoltato la segreteria telefonica ed era Eddie. Ho provato a richiamarlo, ma non ha risposto. Però mi ha lasciato un messaggio molto bello. Allora gli ho mandato un messaggio in cui gli confessavo che stavo pensando di lasciare il gruppo con cui suonavo perché non mi piaceva far parte di una band pop, di suonare coi click, di fare la stessa cosa ogni sera. Ha replicato con una lunga risposta dicendomi quanto fossi fortunato a suonare musica dal vivo davanti a un pubblico ogni sera. Mi ha spiegato che averei dovuto godermela. È stato uno dei motivi per cui non ho mollato, e poi siamo andati in tour con Justin Bieber. Da lì è iniziata la mia carriera di produttore. Le sue parole mi hanno guidato, come avevano fatto per molto tempo, prima d’allora.

E quando l’hai conosciuto di persona?
Ci siamo tenuti in contatto via sms. Ho iniziato a lavorare come produttore e ci siamo trovati ad avere amici in comune. Ci vedevamo. Michele Anthony, che lavora in Universal, e il manager della band Smitty (Mark Smith, ndr), hanno pensato che sarebbe stato bello che noi due facessimo musica assieme. Ci siamo incontrati quando Ed doveva fare uno show di beneficenza. La prima volta che abbiamo suonato insieme abbiamo scritto una canzone. Da lì è nata la più bella amicizia e partnership creativa della mia vita. Significa più di quanto io sia in grado di esprimere a parole. È il perfetto sogno che si avvera. Devi capire che ho fatto la fila al Madison Square Garden con un cartello che diceva: “Fatemi suonare l’assolo di chitarra di Alive”. E alla fine ce l’ho fatta.

Come sei passato da lavorare all’album solista e al tour di Ed fino a produrre Dark Matter?
Lui è altruista e pensa sempre agli altri e alle persone a cui vuol bene. Quando abbiamo iniziato a fare musica assieme, anche se era per il suo disco, continuava a dire: «Amico, non vedo l’ora che i ragazzi provino questa cosa». Così, nel pieno della lavorazione del disco, li ha chiamati: «Ragazzi, dovete venire qui. Mi sto divertendo come un matto. Sono ispiratissimo. Dobbiamo fare musica con Andrew». Nel bel mezzo di Earthling, è arrivata la band e abbiamo dato inizio a quello che sarebbe diventato Dark Matter. Alcune canzoni sono state incise nello studio che avevo nel mio seminterrato. Eravamo tutti lì, faccia a faccia. In quei primi otto o nove giorni sono nate quattro o cinque canzoni.

Immagino che questo ti abbia portato in maniera naturale a produrre il disco.
Sì, credo che tutti si siano divertiti. La musica si basa sui risultati, giusto? Puoi anche spiegarmi quel che voi che io faccia come produttore, ma al dunque si arriva quando si inizia a lavorare e poi si ascolta il risultato, sentendo ciò che esce dalle casse. Tutti si sono divertiti e si sono goduti quello che stavamo facendo. Era come essere in paradiso, per me.

Che obiettivi avevi per il disco?
Tutto quel periodo musicale è nel mio dna. Sono un grande fan dei Soundgarden e dei Temple of the Dog. Dave Krusen ha fatto un gran lavoro su Ten, ma nei demo la prima cosa che Eddie Vedder ha sentito mentre surfava è stato Matt Cameron che suonava insieme a Stone, Jeff e Mike. E i Temple of the Dog sono i Pearl Jam con Matt Cameron alla batteria. Matt Cameron è un dio della batteria. Tutti si inchinano alla sua abilità e a quello che sa fare. In alcuni dei dischi successivi dei Pearl Jam, Matt, da straordinario musicista, produttore, batterista e polistrumentista qual è, ha suonato le sue parti per adattarle alle canzoni. Io volevo che si lasciasse andare, cazzo. Il mio obiettivo, e credo che fossero tutti d’accordo, era che in un album dei Pearl Jam ci fosse un drumming del livello dei Soundgarden e dei Temple of the Dog. Volevamo che emergesse la personalità di Matt.

Nei primi dischi dei Pearl Jam, come Ten e Vs., c’è una batteria pazzesca. Matt si è divertito un mondo. Mi mettevo davanti a lui e alla batteria, saltando su e giù, facendo di tutto per farlo suonare di più, per portarlo al livello successivo e fargli fare tutte quelle cose che lo rendono così fantastico e che nessun altro è in grado di fare. Nessun altro potrebbe mettersi lì e suonare quelle parti. Sono fortunato ad avere le incisioni originali dell’album. L’ho sentito da cima a fondo ascoltando solo la traccia di batteria, per dire quanto amo Matt Cameron.

Sono arrivati in studio con dei demo già pronti?
Sì, ma una delle cose più divertenti è che abbiamo iniziato a fare questa cosa per cui si diceva: «Ok, chi ha un ritmo?». Questo perché ognuno di questi ragazzi potrebbe essere l’elemento chiave di una band, compreso Matt. Cantano tutti. Sono polistrumentisti. Sono tutti dei virtuosi. Quindi l’idea non era: «Ok, ragazzi, questo è il mio demo completo con batteria e basso, qui c’è il groove e qui c’è la linea vocale». Era: «Ok, chi ha un riff, un inizio o una sequenza di accordi? Non ascoltiamo il demo. Sediamoci tutti insieme e suoniamo, mostriamo a tutti gli altri gli accordi e iniziamo a scrivere».

Quando questo accade, so che Stone suonerà accordi assolutamente non convenzionali e insensati, ma nell’accezione migliore. E Jeff troverà delle armonie che consentano a Ed di cantarci sopra. Mike ci porterà nel mondo di Reach Down. Matt imposterà il groove e lo cavalcherà, portando la band ovunque desideri. Volevo che partissero da lì e che ogni membro avesse la possibilità contribuire. Ed è stato letteralmente il modo in cui abbiamo creato le canzoni. Quando un pezzo veniva presentato per la prima volta, Ed era sempre al microfono. Si inventava subito qualcosa e i ragazzi modificavano di conseguenza ciò che suonavano. Una vera e propria collaborazione. Elimina uno di loro da una qualsiasi session e non avrai più Dark Matter.

Il disco sembra la summa di tutti i loro talenti.
Quanti gruppi in circolazione adesso sono bravi come i Pearl Jam? Sono la più grande live band al mondo. Se vai a un loro concerto, vedi uno dei più grandi spettacoli dal vivo sulla piazza. Sono una band. Sono fatti per suonare insieme.

Tu e Josh Klinghoffer siete accreditati in ogni canzone. Che ruolo avete avuto nella lavorazione?
Esattamente quello che ho appena spiegato. Ci sedevamo tutti insieme, ci inventavamo qualcosa, ci lavoravamo, davamo una forma. È stato molto libero. Zero ego. Ci si divertiva e basta.

Dove avete registrato?
All’inizio, per qualche settimana, a casa mia, ma poi si è allagata a causa delle forti piogge a Los Angeles. Loro erano pronti per riprendere i lavori e io non ero riuscito a rimettere in sesto lo studio: c’era la muffa e tutto il resto. Così ho chiamato il mio mentore, Rick Rubin. Ogni volta che mi trovo in difficoltà e non so cosa fare, lui viene da me e mi chiarisce le idee. Gli ho detto: «Amico, non so che fare. Ho i Pearl Jam in arrivo. È l’unico momento in cui possono registrare. Posso venire allo Shangri-La?». E Rick, da bravissima persona qual è, ha spostato i suoi impegni e ci ha lasciato lo studio per un mese. Senza di lui non avremmo potuto fare l’album, da vero altruista disinteressato ha modificato la sua agenda così che potessimo finire il disco, con cui peraltro non aveva nulla a che fare. È stata una cosa bellissima.

Quando è successo?
Più o meno un anno fa. Un anno fa, oggi, avevo addosso una maglietta dei Pearl Jam e stavo facendo il disco con loro.

Hai messo una maglietta diversa dei Pearl Jam per ogni giorno di registrazione, come hai fatto con gli Stones?
Sì. Ho una collezione davvero enorme di magliette vintage. Ed è stato molto divertente, perché alcune erano bootleg. Loro dicevano: «Questa non l’abbiamo fatta noi!». Ma credo che alcune t-shirt bootleg siano più belle delle originali.

Passiamo in rassegna le canzoni: cominciamo da Scared of Fear.
Siamo partiti da quella. È stata la prima volta che i Pearl Jam si sono seduti faccia a faccia con me.

Mi piace quello che Jeff fa al basso in React, Respond.
È pazzesco, vero? È bello che tu lo dica. È una delle canzoni partite da Jeff. Era un suo riff. Abbiamo iniziato da lì.

Wreckage è più minimale. Mi piace dove dice “i fiumi esondano sommergendo tutti i nostri passati”.
È un pezzo speciale. Se siete fan dei Pearl Jam e amate Eddie Vedder, è tutto ciò che potete desiderare quando vi sedete ad ascoltare Eddie che canta per voi. Canta con tutto il cuore e ti regala versi che ti sembra di avere dentro da una vita.

La title track spaccherà dal vivo.
Tutto l’album è stato realizzato con l’idea di vedere i Pearl Jam su un palco. Avete presente quando ascoltate un loro disco e pensate: «Non vedo l’ora di vederli live»? E poi dal vivo è ancora meglio. Una canzone come Alive è migliore dal vivo, giusto?

Sempre.
Uno dei miei obiettivi era: «Facciamo in modo che suoni come un concerto dei Pearl Jam, ma in studio». Alcune cose sono sbagliate, amico. Le canzoni sono più lunghe del dovuto, ma non importa. Non interrompi Mike McCready. Lo lasci suonare, cazzo. Suona a occhi chiusi. La canzone finisce quando li riapre. Comunque, eravamo tra una take e l’altra quando è nata Dark Matter. Matt ha iniziato a suonare quel ritmo e Stone ha detto: «Fermi tutti. State registrando Matt Cameron?». E noi: «Sì, stiamo registrando». Lui ha suonato quel ritmo e poi Stone ha detto: «Jeff, lavoriamoci a casa. Scriviamo ognuno una canzone diversa e domani ci vediamo qui». Così entrambi hanno scritto dei riff diversi. Matt ha suonato di nuovo il ritmo e poi ci abbiamo lavorato insieme. Dark Matter è uscita fuori così.

Come è nata Won’t Tell?
Era un pezzo di Jeff, una canzone che gli era venuta in sogno. Dovresti parlarne con lui, perché è una storia incredibile.

Upper Hand è eccezionale. È davvero d’atmosfera e non ci sono voci per i primi due minuti.
Ci siamo impegnati molto per farla. La adoro. C’è quel riff incredibile di Stone e da lì è decollata. La batteria di Matt era fuori controllo. La band dà il massimo in ogni singolo pezzo dell’album. La cosa di cui sono più orgoglioso, in questo disco, è che in qualunque momento puoi chiudere gli occhi, concentrarti su qualsiasi membro dei Pearl Jam e sentirlo proprio lì, davanti a te.

Il titolo Waiting for Stevie ha attirato l’attenzione di tutti. Non so di cosa parli, forse di qualcuno che aspetta che i Fleetwood Mac salgano sul palco per uno show.
È una storia fantastica, che penso solo Ed dovrebbe raccontare. Ha a che fare con l’attesa di Stevie. Abbiamo iniziato a cazzeggiare, suonando le chitarre, ed è nato il brano. È una delle canzoni che abbiamo registrato nello studio a casa mia.

Running è una canzone dei Pearl Jam molto old school, veloce e furiosa.
Punk-rock alla Pearl Jam.

Ha un feeling alla Lukin.
Sì. Verso la fine diventa un gran casino.

Something Special ha un’atmosfera molto diversa, rilassante.
È un brano incredibilmente bello. I Pearl Jam fanno sempre qualcosa con cui ti fanno schizzare l’adrenalina alle stelle, come dopo aver ascoltato Running. E poi ti regalano un sapore completamente diverso. Mi piace la direzione che ha preso questo pezzo. È una bellissima canzone d’amore.

Setting Sun chiude l’album in modo piacevole e tranquillo.
Vero. È una bella cosa. Per me è quasi alla Temple of the Dog. È qualcosa di simile, ovviamente molti anni dopo. Dal punto di vista sonoro è attuale, ma la progressione mi fa pensare a quel mondo.

Questo è il primo disco che hanno fatto da quando Josh Klinghoffer è diventato ufficialmente o meno membro della band. Come ha contribuito a plasmare le canzoni?
Qui parliamo di un vero virtuoso. Josh può fare letteralmente di tutto. Può essere il chitarrista dei Red Hot Chili Peppers. Può suonare le tastiere nei Pearl Jam. E quando Matt Cameron ha avuto il Covid, ha suonato la batteria per un intero set dei Pearl Jam. È un tipo incredibile. I Pearl Jam erano la sua band preferita da ragazzino, proprio come me. Ci siamo sempre divertiti assieme. Ha una conoscenza incredibile della band. È in grado di aggiungere un sacco di strati bellissimi. Qualunque cosa serva a una canzone, lui arriva, la trova e riempie lo spazio in modo meraviglioso. È quasi come avere Brian Eno nella tua band.

Chiaramente vuoi evitare che gli artisti con cui lavori pensino troppo ai loro dischi. Alcune band impiegano due anni per realizzare un album. Non è mai stato il tuo modo di lavorare.
E neanche dei Pearl Jam. Quello che sentiamo è il risultato di una band che suona insieme. Sembra un concetto strano oggi. Non è un disco lavorato con Pro Tools. Si muove, accelera e rallenta. È la combinazione dei dna di esseri umani. I loro cuori battono assieme. Questo album è così.

Ci hai lavorato nel periodo in cui hai inciso anche il disco degli Stones?
L’ho iniziato letteralmente due giorni dopo aver finito con gli Stones.

Sono stati due mesi surreali.
È stato pazzesco. Incredibile. Eddie Vedder, da quel cazzo di essere umano straordinario che è, un giorno mi ha portato questa enorme cosa incorniciata. Era il poster della sua collezione personale di quando i Pearl Jam avevano aperto per gli Stones. Così non potrò mai dimenticare di aver fatto quegli album uno dopo l’altro. È una persona fantastica, un grande amico.

Ti ho visto suonare la chitarra con Iggy Pop, l’anno scorso, a Los Angeles. La tua vita sta diventando una specie di fantasia rock’n’roll.
Lo so. È difficile anche solo immaginarlo. Cerco di non pensarci mai. Tento di progredire, è come andare al college. Ho imparato tantissimo da tutte queste persone e da come fanno ciò che fanno. Così migliori di continuo. Ho assorbito tutto come una spugna. Ho parlato con Iggy di Bowie e degli Stooges a Detroit. Non sono cose che capitano a tutti.

Come potresti fare qualcosa di ancora più importante degli Stones e dei Pearl Jam? Ti piacerebbe lavorare con Bruce Springsteen o Neil Young?
Non lo so. Per citare il nostro uomo, vado dove mi porta l’onda. In questo momento sono nel bel mezzo di un progetto e ho appena finito un altro album prima di questo. Non vedo l’ora che arrivi l’estate. Mi guardo attorno per vedere cosa succede.

Da Rolling Stone US.

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