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Amyl and The Sniffers portano il punk-rock a bere una cosa al pub

Oggi il rock passa anche da questi australiani che al pop preferiscono il popper, tre ragazzi che paiono usciti da un documentario sul disagio giovanile e una cantante che scalcia, corre e urla come un’ossessa

Foto: Jamie Wdziekonski

L’immagine della band è indicativa del fatto che ci si trova di fronte a un’entità fuori dal comune: tre ragazzi che sembrano usciti da un documentario sul disagio giovanile di 40 anni fa, immobili e impassibili, quasi annoiati e disinteressati, e una biondina dal fisico secco e nervoso e dalla voce che spesso è un recitato/urlato, e che soprattutto non sta ferma un istante, dando pugni ai fantasmi, scalciando, correndo e agitandosi in una danza parossistica perennemente in bilico fra una rissa al pub e un moto liberatorio.

Amyl and The Sniffers hanno da poco pubblicato il loro secondo album, un disco che è difficile non apprezzare e che distilla l’essenza del gruppo con un suono allo stesso tempo grezzo e rifinito: insomma, è uno dei rari casi in cui energia magmatica e produzione sapiente riescono a convivere senza fare a cazzotti. «Ci abbiamo messo un sacco di tempo a terminare il mixaggio», mi spiega il chitarrista Dec Martens durante una call via Zoom con tutti i membri della band presenti. «Credo che la faccenda si andata avanti dieci mesi circa: noi eravamo a casa nostra e il produttore negli Stati Uniti, così lui ci inviava i file col suo lavoro via Internet. Ogni giorno ascoltavamo tutto attentamente e poi gli mandavamo i nostri feedback. Così lui poi ci lavorava nella notte e il giorno seguente ripetevamo il processo».

Il risultato è Comfort Me, un LP di 13 tracce (di 17 incise in studio: per la prima volta c’era del materiale in sovrabbondanza) e con un sound che la band definisce «rock da carrozzieri imbastardito col punk da concerto improvvisato in un capanno». Che, al netto delle immagini colorite e folkloristiche, significa un mix di punk-rock anni ‘70, hardcore, hard rock, proto punk, pub rock e soprattutto rock australiano, quello di Radio Birdman, Saints, Hoodoo Gurus e (perché no) AC/DC d’antan. Senza trascurare la passione di Amy per certo hip hop e per gli Sleaford Mods (con cui ha anche inciso un brano), che aleggia in particolare fra le pieghe di certe linee vocali.

In Comfort Me, come nell’album omonimo del 2019 e nei due EP precedenti, è palpabile la presenza di quell’indefinibile quid che distingue e rende unico il rock (in senso lato) made in Australia. Un elemento che, di fronte a una domanda diretta, la band non sa definire, tanto che Amy, con candore disarmante e una sicurezza che non ammette repliche, mi dice: «Non ho la minima idea di cosa sia quel fattore. Il rock australiano è così e basta. Non so perché». Prova il bassista Fergus Romer ad articolare una teoria a questo riguardo, e senza convincere appieno: «Non è facile dirlo. Probabilmente è una cosa che deriva dal fatto che questa è una terra grande, ma isolata, per cui le cose restano molto più circoscritte e per più tempo rispetto ad altri luoghi. E poi c’è il nostro accento», dice ridendo.

Qualunque sia la risposta a questa domanda da un milione di dollari, ciò che conta è la musica e quella di Amyl and The Sniffers, se di primo acchito può non colpire e far pensare a un’onesta rivisitazione di sonorità del passato, ha una sfaccettatura personale che fa crescere il coinvolgimento a ogni ascolto. C’è chi li ha paragonati ai Blondie, probabilmente solo per via della chioma di Amy Taylor. In effetti mai paragone musicale fu più fuori bolla, visto che del pop energico e patinato della compagine guidata da Debbie Harry non c’è praticamente traccia nella band australiana.

Certo le affinità con le vecchie glorie punk del passato ci sono, ma il sound di questi quattro soggettoni di Melbourne (pensate che hanno vissuto tutti assieme per molto tempo, facendosi anche un lungo lockdown a inizio 2020: una faccenda che mi evoca l’immagine di una specie di Grande Fratello Punk da terza serata in tv) ha un piglio che riflette una sorta di ansia contemporanea, un nervosismo e uno stress dell’anima che sicuramente non appartengono a chi 40-45 anni fa si cimentava con la stessa variante musicale.

In particolare Amy, con le sue movenze, dà una spinta ulteriore ai pezzi, tanto che anche solo ascoltando il disco sembra di vederla in azione. Si agita, tira pugni all’aria, scorrazza, balla scompostamente… un moto anarcoide e pieno di energia repressa che esplode, ma che pare avere una propria logica intrinseca, tanto che le chiedo se abbia qualche tipo di training in sport di contatto o combattimento. Piuttosto incredibilmente, la risposta è negativa: «No, non ho mai fatto niente del genere: nessun allenamento… non ne so nulla! Mi viene tutto spontaneo, però mi piacerebbe provare la kickboxing».

Insomma, un’altra volta è così e basta. Ed è esattamente il tenore di risposta che ottengo, sempre da Amy, quando domando dei mullet sfrontatamente poderosi (a livello da banda di metallari tedeschi anni ’80) che in certi momenti almeno i tre quarti del gruppo sfoggia: sono una dichiarazione d’intenti di qualche tipo? «Non direi», ribatte la frontwoman, «non penso ci sia alcuno statement dietro a questo look. Non so, davvero, però i capelli ci piacciono così. Più che una dichiarazione d’intenti sono l’espressione di come viviamo le nostre vite». A questo punto, stile Antonio Lubrano, la domanda sorge spontanea. E la faccio: ma quindi il popper (“Amyl” è la storpiatura del nome di Amy ed è un chiaro riferimento al nitrito di amile) fa parte del lifestyle della band? Lei ride e mi risponde: «Certamente! Ci piace! Ce l’avete anche in Italia? Qui si trova nei sexy shop!».

A questo punto non resta che sperare di vederli in azione dal vivo in tempi brevi o non troppo dilatati (Covid e restrizioni permettendo), per una sana dose di shadowboxing, mullet al vento e soprattutto punk rock capace di dare una bella botta stile popper.

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