Amanda Palmer: «Patreon ti aiuta a mandare a fare in c**o il mercato» | Rolling Stone Italia
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Amanda Palmer: «Patreon ti aiuta a mandare a fare in culo il mercato»

La regina della piattaforma che supporta il lavoro dei creativi non ha bisogno di streaming, né di visualizzazioni: le bastano i fan che le versano ogni mese un abbonamento. «È una liberazione»

Amanda Palmer: «Patreon ti aiuta a mandare a fare in culo il mercato»

Amanda Palmer

Foto: Vhoycreative

Otto anni fa Amanda Palmer era una popstar, ma d’una razza tutta sua. La si conosceva come cantante dallo stile furiosamente passionale e stranamente cabarettistico dei Dresden Dolls oppure come autrice di progetti solisti matti come il rifacimento delle canzoni dei Radiohead con l’ukulele. Il suo impatto commerciale, però, era inferiore alla sua fama. Negli Stati Uniti i suoi dischi faticavano a vendere 100 mila copie. Al posto di negoziare un contatto con un’etichetta discografica magari riluttante a finanziare un progetto ambizioso, aveva chiesto ai fan di contribuire alla realizzazione del suo disco successivo tramite la piattaforma di crowdfunding Kickstarter che permetteva di vendere l’album prima di averlo realizzato e di produrlo coi ricavi. Risultato: un milione e 200 mila dollari raccolti. Un record.

«È stato uno sforzo immane», racconta oggi Palmer in collegamento Zoom dalla Nuova Zelanda. «Ho capito che non si trattava di un sistema sostenibile, né replicabile ogni sei mesi o ogni anno». È stato allora che l’amico Jack Conte le ha proposto un’alternativa: una piattaforma chiamata Patreon a cui stava lavorando col socio Sam Yam. Grazie ad essa, le comunità di fan avrebbero finanziato i creatori non un progetto alla volta, ma in maniera continuativa. Lei ci ha pensato su per un anno e mezzo, poi ci si è buttata col suo consueto mix di passionalità e razionalità. Sei anni dopo, Amanda Palmer è la regina di Patreon. Circa 14 mila fan le versano ogni mese da uno a 250 dollari in cambio dell’accesso privilegiato al suo mondo, un case study degno di un corso universitario.

Ora che la piattaforma di micromecenatismo è arrivata anche in Italia le domande sono: si tratta di un modello di business replicabile da musicisti a cui la transizione dai supporti fisici allo streaming ha sottratto un bella fetta di introiti? Lo è tanto più in periodi come questo, in cui è saltata anche l’altra principale fonte di sostentamento per il 99% dei musicisti, ovvero i concerti?

Nata nel 2013, Patreon è una piattaforma pensata per ogni tipo di creativo, quindi anche per un musicista, che intenda ricevere un compenso mensile per le proprie opere direttamente da una community. Secondo i dati diffusi dalla piattaforma, oggi Patreon conta 200 mila creators che nel complesso hanno guadagnato più di 2 miliardi di dollari attirando oltre 6 milioni di sostenitori. In un mondo ideale, dove gli artisti hanno un seguito di fan accaniti e pronti a spendere, Patreon è uno strumento potente, in grado persino di assicurare entrate paragonabili a uno stipendio e al tempo stesso di liberare i musicisti dalla necessità di relazionarsi con etichette discografiche e piattaforme di streaming che non considerano la loro opera rilevante, poiché non profittevole. Gli artisti possono scegliere fra tre diversi piani attraverso cui interfacciarsi coi fan, i cosiddetti patrons. Questi ultimi versano una quota mensile in base alla quale hanno accesso a diverse tipologie di materiali esclusivi. Più spendi, più cose avrai: canzoni che non si trovano altrove, video, anteprime, contatti diretti con l’artista. Patreon trattiene una percentuale dei guadagni che va dal 5 al 12%. «Non si tratta di donazioni, né di carità, questa cosa dev’essere chiara», spiega Palmer. «È un business».

Grazie ai guadagni derivanti da Patreon, Amanda Palmer stipendia due persone a tempo pieno e mantiene un ufficio. «Ma non è una piattaforma buona per tutti», avverte. «A volte gli artisti pensano ingenuamente che sbarcando su Patreon si coagulerà attorno alla loro pagina una community di fan. È il contrario: bisogna avere una community solida affinché Patreon funzioni. E perciò la prima cosa che ho fatto, ancor prima di decidere di affidarmi alla piattaforma, è stato chiedere alla mia community attraverso i social media: che ne pensate? Siete con me? Avete voglia di sperimentare questa cosa? So che è quasi impossibile convincere un giornalista che sia così», dice ridendo, «ma ho un rapporto reale con queste persone. E un rapporto vero implica comunicazione costante e senso di responsabilità».

Secondo Palmer, Patreon non funziona per tutti, men che meno per i debuttanti, ma il problema non sta nel numero di sostenitori. «C’è flessibilità. Per mantenere il mio livello devo avere migliaia di patron, ma per un’artista che non deve mantenere collaboratori o un ufficio funziona anche con 150 sostenitori. La misura del successo è variabile». L’uso di Patreon comporta un pericolo, «la mia vita finanziaria dipende ora da una piattaforma gestita da qualcun altro ed è un bel rischio», ma promette un altro guadagno non tangibile e prezioso ovvero «l’impatto emotivo che deriva dal realizzare che c’è gente che crede in te e che è disposta a spendere dei soldi affinché tu possa lavorare. È una cazzo di liberazione».

Una liberazione, sì, ma da che cosa? Amanda Palmer si è messa alle spalle il mondo in cui il successo si misura in termini di certificazioni di dischi d’oro e di platino, posizioni in classifica, visualizzazioni, numeri di stream. È un’artista di successo, molto di più di tanti che appaiono continuamente nei nostri feed, eppure è virtualmente invisibile. Appare raramente nei media tradizionali, non deve lanciare canzoni di continuo secondo il modello di Daniel Ek di Spotify, né usa il suo profilo Instagram per pubblicizzare brand. Eppure per i suoi sostenitori è una presenza costante. «È tutto un altro modo d’essere artista. È una pena vedere i colleghi costretti a usare l’advertising su Instagram per pagare l’affitto. Non li biasimo, ma non è sano. La cultura pop è ossessionata dal concetto di empowerment, ma nell’ecosistema vigente non vedo alcuna forma di emancipazione, di presa di coscienza, di potere da parte degli artisti. O forse lo dico perché vengo dagli anni ’90, sono della generazione di chi crede che pubblicizzare il prodotto di una multinazionale significhi una sola cosa: che sei un venduto. Patreon è anche femminista: permette di non metterti in affari con multinazionali guidate da uomini e consente di avere una gestione flessibile del lavoro quando sei incinta, com’è successo a me. Permette di avere una vita al posto di pensare costantemente a un prodotto da vendere».

Se è vero, come dice Palmer, che Patreon «libera dalla fatica di dover vendere cose e dà un’alternativa alle artiste che non vogliono finire a letto con l’industria del make-up, delle scarpe, delle borse», d’altra parte condanna alla produzione continua di materiali per i fan. Pena: la diminuzione del numero di sostenitori. «Io però non pretendo di fare arte per l’arte», ribatte Palmer. «Faccio arte per entrare in connessione con le persone. Se fossi l’ultima persona rimasta sulla Terra, non farei arte perché non avrei nessuno con cui condividerla. Però non considero l’arte un prodotto da vendere a dei consumatori. Voglio fare arte autentica, con l’anima, che smuova qualcosa. Che sia vera, onesta, necessaria. Più il legame col mio pubblico è stretto e più fare arte diventa soddisfacente e permette di non preoccuparmi se una canzone o un video non diventano virali. Cambia proprio la mentalità nel momento stesso in cui componi musica. Grazie a Patreon posso mandare il mercato a fare in culo. Le mie canzoni hanno già un valore ed è quello che è stato loro attribuito da chi mi sostiene».

Creatori e musicisti italiani hanno cominciato a sperimentare la piattaforma prima che venisse lanciata nel nostro Paese nel gennaio 2021. Uno di essi è Xabier Iriondo, chitarrista degli Afterhours e divulgatore attivo in decine di progetti in un mondo a cavallo fra alternative e sperimentazione. È all’estremo opposto dello spettro rispetto a Palmer: lei ha quasi 14 mila patron, lui una decina. Il suo profilo contiene sei livelli di offerta che vanno dai video-racconti di storie vissute nella sua vita di musicista alla possibilità di collaborare con lui. «Patreon ha un merito: mette al centro i contenuti», dice. «Ed è una piattaforma democratica: arriva ovunque e permette ai sostenitori di partire spendendo pochi euro. Non è però facile convincere le persone a pagare a un solo artista quello che somiglia a un abbonamento a Netflix o a Prime Video».

«Durante il lockdown», racconta Iriondo, «ho fatto dirette su Instagram molto seguite e ho pensato che avesse senso, nel momento in cui era impossibile fare concerti, portare quel pubblico su Patreon». Il numero di sostenitori non è però cresciuto, di certo non al tasso di conversione dei follower su Instagram in patron pari al 5% stimato dalla piattaforma. «Se faccio un post su Instagram in cui pubblicizzo un contenuto esclusivo su Patreon ricevo 1000 like dai miei 12 mila follower. Però poi solo un paio vanno a vedere che cos’è la piattaforma. Forse è un problema italiano quello di non volere pagare i contenuti o forse i miei non sono diciamo così digeribili. Sono in una fase transitoria, ma non demordo». Oltre alla voglia del pubblico di essere ricettivo e di pagare un abbonamento mensile a un solo artista, abbonamento che si può annullare in qualsiasi momento, secondo Iriondo conta anche la predisposizione del musicista a «essere costantemente collegato ai fan, offrire di continuo contenuti e aggiornamenti, martellare il pubblico insomma». E non tutti naturalmente ce l’hanno.

Jack Conte, co-fondatore di Patreon con Sam Yam. Foto press

Mettendo bene in chiaro il legame economico tra creatori e sostenitori, Patreon contribuisce a demitizzare il rapporto tra artista e pubblico, strappandolo dalla retorica dell’arte che è tale solo se separata dai soldi. L’uso di piattaforme come Spotify, per non dire di YouTube, ha abituato il pubblico alla pressoché gratuità della musica. Per 10 euro al mese pretendiamo di avere tutti i dischi del mondo a portata di click. E anche se su Spotify ascoltiamo solo ed esclusivamente i dischi di Xabier Iriondo, per i meccanismi di ripartizione dei guadagni i nostri 10 euro non andranno a lui, ma agli artisti che in ottica aggregata ottengono più stream dalla piattaforma, il famigerato 1% di big che si spartiscono il grosso della torta.

In altre parole, i servizi di streaming hanno contribuito a dissolvere il rapporto economico più o meno diretto che c’era fra artista e fan, anche solo nella forma dell’acquisto di un CD. Patreon ristabilisce tale rapporto. Dare dei soldi a un artista significa anche dirgli: quello che fai per me ha un valore. «Non puoi scindere l’arte dal denaro», commenta Iriondo. «È necessario e utile che gli artisti abbiano in cambio un sostentamento. Ma c’è un passaggio ulteriore: ci sono artisti che stanno cercando di superare ogni intermediario, offrendo contenuti a pagamento direttamente alla fanbase. È qualcosa che somiglia al vecchio concetto di do it yourself. L’idea è un po’ questa: al posto di riempirci le memorie di computer e telefoni di contenuti che non ascolteremo, né vedremo mai, cerchiamo le cose che davvero desideriamo e che ci fanno stare bene».

Una delle condizioni affinché avvenga è che gli artisti chiedare soldi direttamente al pubblico e non tutti hanno la forza di farlo, né lo fanno volentieri. Amanda Palmer non ha mai avuto paura di farlo. L’ha trasformato anzi in un’arte e ci ha scritto un libro titolato The Art of Asking, una cosa che ha imparato quando da ragazza faceva la statua vivente a Cambridge. «Nessuno pensa che una canzone possa valere un dollaro», dice la cantante. «Quanto vale la musica che ti fa piangere tre giorni dopo che hai sepolto tua madre? Non le puoi dare un prezzo, eppure siamo costretti a darglielo. E non c’è niente di male. Ai tempi di Kickstarter c’era chi mi domandava come potessi chiedere alle persone di finanziarmi la vita. Guardate, rispondevo, è come quando compri un disco di Madonna e due o tre dollari andranno a lei e al mantenimento della sua villa. È la stessa identica cosa, solo più in piccolo».

Stiamo abituando intere generazioni di ascoltatori a pensare che la musica sgorghi dal rubinetto come acqua, dice Palmer. «E invece anche i creatori di musica devono pagare l’affitto. Il rapporto fra arte e soldi è colpito da uno stigma. C’è l’idea che l’arte debba essere pura, ma è negazione della realtà. Pensiamo che un dipinto che ci piace si sia materializzato per magia e che dietro non ci sia un artista con la necessità di mangiare e di avere una casa. E sai perché? Perché è un’idea romantica. Io non ho paura di dire che è una grossa stronzata. Gente, abbiamo bisogno dei vostri soldi».

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