Altea, malinconia che rincuora | Rolling Stone Italia
Cantare quello che non c’è

Altea, malinconia che rincuora

Dopo i Thru Collected, riparte da ‘Nessuna’. La “pucundria”, le canzoni scritte in trance, la musica come terapia, «la sensazione di essere un po’ strana», la comunità di simili trovata a Napoli, l’importanza dei centri sociali

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Il Diego Armando Maradona di lato. Il Bar Vesuvio dietro l’angolo. Il vulcano Vesuvio alle spalle. È tutto come te l’aspetti. Altea ci viene a recuperare al cancello del condominio, regge un sacco della monnezza con la mano sinistra, mi stringe la destra. Ci chiede di aspettare un attimo mentre va a buttare la spazzatura: oggi, a quanto pare, è il suo turno.

Vive all’ultimo piano, assieme a Giovanni e Fabrizia. Fabrizia suona il basso e porta avanti la baracca tenendo ripetizioni di matematica e – se proprio è costretta – di latino. Giovanni è Giovanni Troccoli, che di Altea è coinquilino e produttore, dal giorno zero.  Casa loro è come la casa di Jessy, di Ste, di Paolo, o di Valeria, o casa mia. Il riscaldamento è tenuto al minimo, c’è la teiera orientale, una grossa pentola che ribolle sempre pronta per una tisana. Ci sono posacenere qua e là, le sedie dell’Ikea, una puntata di The Grey Area sul jazz etiope che risuona da una delle camere da letto, una scheda audio sul comodino. Le chitarre appese ai muri e il programma settimanale scritto con il gesso su una lavagna. Fuori sede: gli ultimi veri romantici.

Altea incarna in modo nitido la nuova generazione di cantautrici italiane che uniscono sonorità pop, urban e una scrittura intimista, costruita su immagini molto quotidiane, ma di grande densità emotiva. Sbarca a Napoli nel 2020 e per una significativa parentesi è parte attiva del collettivo Thru Collected, in cui inizia a sperimentare e costruire una propria identità sonora. Identità che trova corpo e prende forma autonoma nel suo primo EP Non ti scordar di me del 2022. Il radicamento biografico tra Salento e Napoli le consente di portare nella scena musicale italiana uno sguardo periferico e meridionalista, che spazia dall’esistenzialismo più puro fino al disagio e alla precarietà generazionale. L’uso di melodie delicate, linee vocali morbide e produzioni minimali danno origine a uno spazio sonoro marcato e fortemente riconoscibile, in cui la vulnerabilità emotiva non è esibita in modo retorico, ma filtrata attraverso una lingua semplice, frammentata – spesso sospesa – che la rendono uno dei prodotti pop nostrani più interessanti della sua generazione (e non solo).

Appeso al muro, nella camera/studio di Giovanni – dove ci siamo spostati per chiedere consiglio circa dove ordinare una pizza – assieme alla lista delle cose da comprare al supermercato ci sono otto fogli, con testo, accordi e titolo. Sono armonie e lyrics del nuovo EP di Altea. Si chiama Nessuna ed esce domani. «Tutta la mia musica è stata fatta in questa stanza. Vivo qui da tre mesi, ma frequento questa casa da quattro anni. Qui, “in bocca” allo stadio».

Da un piccolo paese salentino, quattro anni fa arrivi a Napoli. Come è successo?
Ci sono arrivata per caso e ci sono rimasta per volontà. Ero iscritta all’università a Lecce. Mio cugino, a cui sono legatissima, era partito per frequentare l’Accademia di Cinema a Napoli, e io non mi decidevo ad andare a trovarlo. A un certo punto, giustamente mi ha detto: «Basta, mi hai rotto, ti prendo il biglietto».


Da un biglietto a sorpresa a un cambio di vita radicale.
La sera stessa che arrivo a Napoli conosco Francesco (Savaglia, che cura la parte visiva del progetto, nda), che è diventato il mio compagno. Mi sono innamorata contemporaneamente di lui e della città. È stata una via di fuga da una quotidianità che mi stava stretta. Sono cresciuta con la sensazione di essere un po’ strana, e che non ci fosse spazio lì per quell’eccentricità. Vivevo in un posto un po’ bigotto: la chiesa impera nei piccoli paesi del Salento. A Napoli in un attimo ho visto che c’era di tutto, che improvvisamente non mi sentivo fuori luogo, e che – soprattutto – c’era gente che si dedicava veramente all’arte. Quello che io sognavo di fare un po’ da tutta una vita, ma che non mi sembrava possibile. Lì lo era. Ho deciso di finire la laurea in psicologia da Napoli, mentre lavoravo per mantenermi e iscrivendomi all’Accademia di Musica. Facevo tre cose contemporaneamente in maniera sfacciata, ma la mia volontà era così forte che mi sembrava tutto risolvibile. E poi sono rimasta. E non intendo muovermi.

Tu sei ferma qui. È la città che cambia?
L’ho vista peggiorare, molto, anche in così pochi anni. E mi dispiace ammetterlo. Si sta contaminando di un’essenza capitalista. Anche per ragazzi come noi le cose da fare sono poche. Non c’è una rassegna. Fanno i festival con i concerti, ma sono estremamente elitari. Il palco di Piazza del Plebiscito se non hai il biglietto non si vede: ci sono transenne ovunque. Anche l’ingresso al concerto memorial di Pino Daniele costava una fortuna. È un grandissimo controsenso. Si utilizzano le icone così, senza significato. Sono andata, da fuori, per vedere com’era, e ho finito per odiare quello sfruttamento dei nomi per eventi di vetrina.

Eppure rimani qui.
Al di là dell’offerta istituzionale, a Napoli, al contrario di molte altre città italiane, esistono ancora luoghi di assembramento vitali: i centri sociali. La cui presenza per me è doverosa. Io ci sono cresciuta nei centri sociali. Erano l’unico luogo dove, al mio paese, c’erano scambi tra artisti. Luoghi fertili. A Napoli sono quasi gli unici posti dove si possono fare concerti, dove andare a sentire musica, dove fare rassegne più indipendenti. Se non fosse per loro non esisterebbe la città. Poi io personalmente non riesco ad essere pienamente parte di gruppi intrappolati intellettualmente, con un’etichetta e una linea da seguire ciecamente. Però sono persone che fanno quelle cose. Se non ci fossero quelle persone che si prendono la sbatta di andare contro tutto e tutti pur di dare spazio a tutto e tutti, non ci sarebbe nulla. E Napoli è questo. Senza centri sociali saremmo già Venezia. Come vorrebbe il sindaco.

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Arrivata a Napoli, finalmente ti sei potuta dedicare alla musica come prima non ti eri data – o non avevi trovato – la possibilità di fare.
Io non mi sento assolutamente un’isola. Ho bisogno di esprimermi avendo a che fare con tante persone diverse: qui ho trovato uno spazio di condivisione di talenti differenti. A Napoli ho trovato questa mentalità, questo bisogno e desiderio di collettività. C’è molta collaborazione, in maniera naturale. Ho proprio sentito la voglia di tante menti fresche che avevano un bisogno di esprimersi, di bruciare tantissimo. Banalmente avere la possibilità di incontrare gente con uno studio in casa, che produce, che mette a disposizione materiale e competenze. Viaggiando mi sono resa conto che non era affatto scontato, e di quanto tutto ciò fosse prezioso. Se manca questa modalità di condivisione, giustamente una persona si ritrova con un budget per produttore, studio, mixing. Io quando sono arrivata qui non avevo nemmeno idea di cosa fosse un budget.

Quella che descrivi appare veramente un’isola felice per chi ha pochi mezzi e prova a fare musica in Italia.
Purtroppo in Italia i musicisti non sono veramente riconosciuti. Ho appena letto che in Irlanda gli artisti hanno un reddito. Che è molto basso, certo, però è un forte segnale di riconoscimento per la categoria. In Svizzera esiste da tempo, ed è garanzia non solo di sopravvivenza, ma anche di dignità. Io sono stata molto fortunata a trovare questa casa e persone come Giovanni che mi hanno sempre aperto le porte.

E in questa casa è nato Nessuna.
Il lavoro che esce domani per me non è nuovo. Le prime canzoni risalgono al 2022. Sono tutti brani vecchi che ho rilavorato come se fossero stati scritti adesso. Ogni brano è un quadretto di un momento che ho voluto mettere per iscritto. Una sorta di promemoria. Significa che avrò bisogno di rivivere in futuro quel momento, o che – tramite quella canzone – lo sto lasciando andare. Per me si tratta di un processo duale. Quando ho cominciato Nessuna l’idea di partenza non era così legata a quella che sono adesso. Mi stavo emancipando da una dimensione molto da studio e produzione, che con Thru Collected era molto più accentuata. Eravamo in tanti in una stanza a scrivere, scrivere, scrivere tutto il tempo. Poi chi voleva registrare andava. Facevamo questo esercizio, che mi ha concesso per la prima volta di sperimentare la scrittura in italiano. Prima scrivevo solo in inglese, perché la dimensione estremamente personale che implicava l’utilizzo dell’italiano per me era complessa, proprio perché quello che scrivo lo sento molto. Con Thru sono riuscita a sdrammatizzare, risolvendo questa difficoltà.

Trovo che tu abbia una rara capacità di sintesi. I tuoi testi sono in grado di creare immagini molto nitide, pur utilizzando pochissime parole. Le strofe sono aforismi che si incastonano perfettamente nel corpo sonoro. Una capacità che – nel tuo genere – ritrovo in pochi altri artisti in Italia. Come ci sei arrivata?
I testi li ho sempre scritti da sola, in una capanna, quando nessuno mi guardava. Quindi tradiscono spesso emozioni forti, di rabbia, di nostalgia. Perché ero sincera nel momento in cui li scrivevo. Tengono assieme tante sfumature di me, che magari nemmeno io capisco troppo, però che sono lì. Dopo l’esperienza con Thru ho cercato la mia personale strada nel capire come effettivamente concepire una canzone. E mi sono sempre basata sulla semplificazione. Pochi fronzoli. E quindi scrivevo con l’ukulele, con la chitarra, o con il piano. E basta. Mi veniva da andare in loop con degli accordi finché non entravo in una dimensione mantrica. Un po’ come una trance. E lì, le parole, mi escono di getto. Queste canzoni le ho scritto così.

La mantricità nel metodo, ma non nell’esito.
Esatto. Era il fine, non il mezzo. Era quello che serviva per arrivare a quel suono e quei testi. Queste canzoni sono nate come demo semplicissime e poi le ho sottoposte ai miei amici. Ci abbiamo lavorato intensamente, quotidianamente, per quasi due anni. E a me serviva proprio questo disco per lasciare andare quella roba lì. Non a caso negli ultimi giorni mi sento proprio leggera. Per quanto si tratti di storia passata, ci ho lavorato così costantemente che l’ho fatta rivivere. Si è attualizzata. Ha preso un’altra vita. Sento che è un percorso iniziato nel 2022, ma ancora aperto. Sono canzoni per me universali: rappresentano un momento di grande chiarezza che spero mi accompagnerà a lungo.

Altea - alto il mento

Mi sembra che ci sia uno scatto in Nessuna, più o meno a metà. Cambia un po’ il clima, e sembra di sentire questo tuo lasciare/lasciarti andare.
Bello che me lo dici. Effettivamente credo sia un processo naturale. È come quando attraversi una cosa e devi per forza passare da sensazioni un po’ sgradevoli e forti – rabbia, turbamento – che poi pian piano elabori. Io sono fatta così. Non mi piace tenermi dentro pietre che poi diventano macigni. Preferisco guardare le cose in faccia, anche se fanno male.

La musica come terapia. Ritorna un po’ la tua tesi di psicologia “La taranta come rito di guarigione”. La liberazione dal morso della tarantola attraverso il rituale in cui la persona “tarantata”, spesso donne contadine, veniva sottoposta a musica e danza convulsiva fino allo sfinimento, in casa o nella piazza del paese, davanti alla comunità.
Si possono fare infiniti discorsi sulla musica popolare salentina. Per le lotte di classe, per le lotte di genere, e sulla musica – e il circondario – come terapia. La taranta non è nata per essere fruita o suonata da soli. Si tratta di vere orchestre terapeutiche. Erano utilizzate per fare un passaggio dal dolore delle frustrazioni, delle limitazioni che avevano le persone, a una liberazione pubblica. In quel momento l’individuo veniva riconosciuto, accettato e aiutato. Questo processo credo sia molto attuale, anche per i problemi odierni. C’è questa tendenza a chiudersi sempre più in noi stessi, in questo dualismo tra verità e internet, che finisce – spesso – in un’incapacità di riconoscere, e dare valore, alle cose semplici.

E questa sensazione credo sia molto simile alle sensazioni che provavano le donne che andavano a lavorare nei campi di tabacco e sostenevano di essere state morse da una tarantola. In realtà era un grido, un modo per dare un taglio, per cambiare una situazione che andava avanti per inerzia. Uno scuotimento. Da quel momento le donne prendevano le sembianze delle tarantole, e là era solo compito dell’orchestra, dei vicini e delle persone che volevano loro bene sostenerle, aiutarle, e renderle libere da questo male. Attraverso la musica, in una trance, quel sentimento negativo era in grado di uscire. Eliminare il male, il dolore, solo vivendolo a tal punto da esaurirlo. La musica è il tramite: non c’è altro modo per andare avanti. Tra l’altro io, fin da piccola, soffro di aracnofobia.

Trovo peculiare che questo ricchissimo background di cultura popolare, che è così chiaramente parte di te, traspaia così poco nella tua musica.
Aspetta il prossimo album e lo troverai. Nel live che abbiamo portato in giro in questi mesi, con Valerio Fatalò e Ben Romano, è in realtà già presente. La musica salentina mi è sempre stata vicinissima. Anche grazie a mio padre, fondatore di uno dei primi gruppi di revival di musica popolare, gli Alla Bua. Quest’estate ho assistito a un momento potentissimo, a Presicce, un piccolo borgo nell’entroterra salentino. Mio padre partecipava al BazArt locale, un mercatino artistico dentro il centro storico. Un giorno ci sono andata e ho fatto un video a una fanfara di musicisti in questo luogo magico. Nella comitiva c’era un amico di mio padre, Angelo Litti, che cantava una canzone straziante e bellissima. Sono rimasta folgorata, a casa l’ho riascoltata e mi sono scritta il testo. Era un suo inedito. Ho preso a giocarci sopra, e l’ho aggiunta alla scaletta del tour. Si chiama Core dolente. Qualche mese dopo ho fatto un concerto a Corigliano D’Otranto. Ho invito i miei genitori – mio padre era la prima volta che veniva a sentirmi! – e i loro amici musicisti. C’era anche Angelo. Gliel’ho cantata e lui si è commosso. Gli sono grata perché mi ha aperto questa porta incredibile.

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Dalle grotta di Presicce alla collaborazione con Mace, di cui sei stata ospite al live al Forum d’Assago. Come fai?
Sono curiosa. Quel mondo paesano mi appartiene di più, certo, lo sento vicino. Ma il resto è lì, e dovevo capire come fosse stare davanti a più di 10 mila persone che ascoltano la tua voce. È una roba impressionante. Ti immagini la tua musica che passa attraverso i cunicoli, al punto tale che straborda e si sente anche da fuori. Io avevo paurissima. Non c’è stato tempo nemmeno per il soundcheck, e non avevo mai provato quella canzone in vita mia, se non da sola a casa. Ma in fondo cerco di non sottrarmi alle difficoltà. Anche perché sennò finirei per non uscire mai di casa. Mi devo mettere alla prova per trovare quali sono gli elementi che mi interessano da mondi così diversi tra loro.

Cosa stai trattenendo?
Al momento ho capito di non sentire la necessità di far arrivare a così tante persone le cose che dico e che faccio. Poi se succedesse sarebbe straordinario, ma non mi muovo con l’idea di fare gli stadi l’anno prossimo. Mi interessa di più che chi mi viene a sentire sia in armonia con quello che sto esprimendo, quanto vibra il loro corpo con la mia musica.

Non solo Mace. Le tue collaborazioni sono variegate e altisonanti. Da Venerus a Giuse The Lizia, passando per l’apertura a Iosonouncane per i dieci anni di Die.
Mi piace collaborare. Ci mandiamo le cose a distanza, almeno all’inizio. È dove sento di avere più libertà e spazio evolutivo. Mi ci trovo bene. Io faccio e mando. Do il mio, lo metto in mezzo. Mi trovo più a mio agio così piuttosto che dovermi calare completamente in una dimensione che non è la mia. Però ricerco l’incontro, tra la mia visione e quella degli altri. Credo che solo così si possa crescere in qualche modo.

Sì, ho aperto il concerto di Jacopo (Incani, alias Iosonouncane, nda) al Locomotiv, a Bologna. Io lo stimo tantissimo: è il mio padre spirituale, anche se non lo sa. Quando l’ho conosciuto di persona le mie aspettative già altissime sono state superate. Che è una cosa che non succede quasi mai. Mi ha aiutato con generosità nella produzione dell’EP, e non era assolutamente tenuto a farlo. Alcune cose le ho fatte ascoltare solo a lui.

Altea - Nella mia testa + Ferma zitella (estratto del live di apertura a IOSONOUNCANE)

Qual è l’universo culturale di Altea: quali sono i riferimenti dietro la tua musica?
I miei due principali riferimenti di musica italiana sono Pino Daniele e Franco Battiato. Il primo da un punto di vista prettamente musicale. Mi ha dato per primo un assaggio di questo universo napoletano che ancora non conoscevo. Una cartolina in grado di rendere questa pucundria, questa malinconia, in grado di farmi sentire la mancanza di un mondo che ancora non avevo mai visto. Battiato per me è un maestro a tutto tondo, anche oltre la musica: la sua vita, i suoi interessi, ascolto tantissimo le sue interviste. Poi mi piace molto l’universo felliniano, molti film di Ettore Scola, il neorealismo italiano. Rossellini. Muoio per Mastroianni e Monica Vitti. Oppure roba totalmente diversa, e moderna, specialmente se di critica sociale, anche in modo distopico. Lars von Trier, Lanthimos. La colonna sonora di Povere creature di Jerskin Fendrix mi è piaciuta tantissimo ed è stata di ispirazione per le mie produzioni, soprattutto nel suo utilizzo dello slide.

La pucundria che ritorna spesso: ma verso cosa?
Mi piace questa sensazione di nostalgia. Anche se non sai verso chi o cosa. Anche se legata solo all’idea di qualcosa. Forse mi piace di più quando non posso conoscerne la destinazione, quando è per qualcosa che io non ho mai vissuto. Anche perché se la si prova verso qualcosa di tangibile, di verificabile, poi si rischia di disilludersi delle cose.

È bello parlare con Altea. La sua è una malinconia che rincuora. Vorrei stare di più in quella casa, ma ho un treno non rimborsabile per il Nord. Mentre sono sul bus per raggiungere la Stazione Garibaldi infilo le cuffie, seleziono Mia e clicco play, cercando di non disunirmi.

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