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Allison Russell e la sua coalizione arcobaleno vogliono cambiare la musica Americana

La forza della comunità contro la solitudine dei singoli. Per le canzoni di rinascita e guarigione di ‘The Returner’ la canadese ha messo assieme 15 cantanti e strumentiste. «È stato come un trip con l’ayahuasca»

Foto: Dana Trippe

Ogni cosa è andata al posto giusto mentre Allison Russell lavorava al secondo album The Returner. Era il solstizio d’inverno del 2022 e per sei giorni agli Henson Recording Studios di Los Angeles la cantautrice ha lavorato percependo le vibrazioni di quando Joni Mitchell era lì a registrare e Tina Turner e Cyndi Lauper incidevano le loro parti di We Are the World. Con lei c’erano le 15 cantanti e polistrumentiste della Rainbow Coalition che hanno cantato e suonato su The Returner. Russell le considera la sua famiglia d’elezione, persone che era destinata a incontrare e con cui doveva ritrovarsi a fare musica.

Le canzoni introspettive di The Returner, che è co-prodotto col duo Dim Star, ovvero il suo partner JT Nero e Drew Lindsay, sono il prodotto dell’atmosfera positiva che Russell ha creato in studio, ma anche della fiducia che le hanno infuso amiche come Brandi Carlile e Wendy & Lisa, grazie a cui è arrivata a utilizzare la sua voce al massimo, in senso letterale e metaforico. Russell esce come rinvigorita dal disco che è diviso tra ninnenanne cupe e pezzi che ricordano la disco music.

«Non facciamo musica per i premi. Certo, quando arrivano ti cambiano la vita e la carriera, ma non lo facciamo per quella cosa lì. Per sei giorni vivi, respiri una cosa di cui resta testimonianza. Una testimonianza che speri ti sopravviverà e sarà di conforto o di gioia per qualcuno tra 100 anni. Che sogno sarebbe».

Hai ricevuto i primi apprezzamenti, con una serie di nomination ai Grammy, dopo quasi due decenni di carriera. Cosa significa per te?
Rappresenta la speranza che le cose stiano cambiando. Perché non è che io sia diventata una persona diversa, sai? È solo che, per qualche motivo, ora c’è una massa critica di persone disposte ad ascoltare l’arte e le parole di una donna queer e di colore. Vuol dire che nell’ambito della musica roots e dell’Americana, ambienti in cui in passato mi capitava di dovere dare molte spiegazioni sul mio conto, la nostra comunità è cresciuta. Intanto quello di genere è un concetto molto ingannevole, strano e falsato, ma quello che intendo dire è che siamo una comunità di persone e ci stiamo identificando come tale.
Tutto questo si manifesta nella cerchia lavorativa, nella famiglia di elezione e nella comunità, nel modo in cui parliamo delle persone quando non sono presenti. Quel che è successo alla mia carriera è dovuto al modo in cui Brandi Carlile parla di me quando non ci sono. In pieno lockdown, ho ricevuto chiamate dalla Fantasy Records e dalla Concord Music Publishing, per via di come Brandi aveva parlato di me. C’è un grande supporto, attenzione e interesse: penso che tutti noi abbiamo iniziato a farlo gli uni per gli altri perché era necessario. Perché tutti noi che viviamo all’intersezione di varie identità abbiamo dovuto aiutarci a vicenda, darci supporto reciproco, visto che il sistema non è progettato per farlo.

Hai registrato agli Henson Studios: pensi che la tua musica risenta dell’energia del luogo in cui viene creata?
Fra quelle mura si percepisce davvero la presenza degli spiriti buoni. Una cosa è sentire parlare dei dischi bellissimi che sono stati fatti lì, un’altra è entrarci e provare una sensazione palpabile di comunione con l’arte che è nata lì dentro. Quel posto ha una storia lunghissima, è nato come studio di Charlie Chaplin a West Hollywood. C’è anche una foto delle session di We Are the World e ho un vago ricordo di avere visto dei filmati di quei momenti, da piccola. Sei nello stesso posto dove hanno cantato Tina Turner e Cyndi Lauper e le pareti irradiano buone vibrazioni. Quindi sì, di sicuro ne è influenzata a livello di ispirazione e spinta a uscire dai soliti schemi.

Lavorare con altre musiciste ti ha influenzata?
Hanno ascoltato le prime versioni delle canzoni a cui abbiamo poi lavorato tutte insieme. Non avremmo mai potuto immaginare quel che è accaduto suonandole. Le canzoni erano strutturate, ma il modo in cui si sono animate, in cui hanno preso vita, il modo in cui insieme abbiamo messo carne su quelle ossa è stato frutto di un lavoro di squadra. È stata l’esperienza in studio più divertente che abbia mai fatto e anche la prima volta in cui ho percepito una tale sicurezza, fiducia e amore da sentirmi pronta a vestire i panni di co-produttrice. Non avevo mai provato a scrivere per la mia cerchia in modo così specifico. Mentre lo facevo, pensavo: «Chissà cosa suonerà Elenna [Canlas] su questo o che farà Larissa [Maestro]. E le SistaStrings?». È stato emozionante. Pensavo specificamente a loro. Non sono semplici turniste pagate: sono persone che fanno parte della mia cerchia di affetti e di cui mi fido.

Che tipo di community building hai fatto con loro?
Credo che il motivo per cui siamo riuscite a incidere un disco in sei giorni sia che ho scelto le persone in modo attento. Non mi sono limitata a pensare che dovevo suonare solo con delle donne, ho scelto alcune fra le artiste più interessanti al mondo, alneno per me. Sono tutte polistrumentiste brillanti. Sono tutte ottime cantanti. Sono state tutte produttrici, scrittrici e cantanti soliste. In questo disco c’è davvero una famiglia che mi sono scelta e abbiamo tutte una grandissima fiducia reciproca e nelle nostre capacità. Tutte sappiamo bene che l’ego non c’entra niente, è una situazione di comunione: l’insieme è più grande della somma delle singole parti.

Il tuo disco spazia tra rock’n’roll, disco, pop e molto altro: pensi che sia ora di ridefinire il concetto di Americana o di musica roots?
C’è una visione dell’Americana incentrata sui bianchi, limitatissima e ristretta. È come se la gente pensasse che il rock’n’roll è nato con Elvis, quando invece esiste grazie a Sister Rosetta Tharpe. È il risultato della svalutazione costante di tutti i contributi artistici, economici, creativi, intellettuali e accademici della diaspora nera. L’Americana è un genere vasto. Riflette l’esperienza americana – e, ripeto, intendo dai Caraibi al Canada – e tutte queste radici e influenze si sentono. Per me, l’hip hop è Americana esattamente come la musica folk. Chaka Khan fa Americana come Lucinda Williams.

Nessuno di noi fa musica per avere riconoscimenti o premi. Certo, quando arrivano è un regalo incredibile che ti cambia la vita e la carriera, ma non lo facciamo per quello. Però ho capito che mi sbagliavo sul conto dei Grammy. Pensavo: «Non è roba per me. È per le superstar. È un circolo chiuso». Poi ho incontrato Brandi e l’ho sentita dire: «Se non ci facciamo avanti, come è possibile che cambi qualcosa?». Mi ha colpito profondamente e ha cambiato il mio modo di confrontarmi con le istituzioni del settore.

Certe canzoni del disco sembrano ninnananne, ma in realtà sono più cupe e raccontano di viaggi fisici e spirituali. Che peso ha la guarigione del bambino interiore nel tuo processo creativo?
È molto importante ed è un processo che andrà avanti per tutta la vita. Nessuno può scegliere le circostanze della propria nascita o della propria infanzia. Non posso cambiare il fatto che sono stata cresciuta da un padre adottivo americano suprematista bianco, abbastanza vecchio da essere mio nonno, e violento. È un aspetto con cui dovrò fare i conti per sempre. Ma ho scelto di sfruttare questa situazione per diventare più forte. Ho allargato la mia famiglia d’elezione, vivendo in comunità e cerchie di persone fondate sul rispetto, l’amore e il sostegno reciproco per molto, molto, molto più tempo di quanto non sia stata in quella casa piena di violenza in cui sono cresciuta.

Perché hai voluto incidere l’album all’inizio del solstizio d’inverno?
Era una cosa che sentivamo in studio. Ci sembrava quasi di essere sballate, eravamo euforiche e piene di gioia, come in un trip da ayahuasca. Completavamo le frasi musicali l’una dell’altra. Ci stavamo anche innamorando l’una dell’altra. È difficile esprimere a parole la sensazione di guarigione, magia e bellezza che ho provato. Quel momento in cui ti accorgi di avere superato la notte più lunga, il ritorno alla luce, il rinnovamento: lo sentivamo nei nostri mitocondri. Quando ho riascoltato tutto, ho capito che non avremmo mai potuto rifare quel disco così come è venuto. Spero che chi lo ascolta si senta invitato in quel circolo, si senta amato, si senta magico e potente. Perché è così che mi sono sentita incidendolo.

Da Rolling Stone US.

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