De André non canta De André | Rolling Stone Italia
Verranno a chiederti...

De André non canta De André

La nipote di Faber ci ha raccontato chi le diceva «se canti ti porto a Sanremo», della testa dura «di famiglia», dell’occasione in tv con Ruggeri e del suo nuovo spettacolo teatrale "Alice non canta De André". L'intervista

Alice De André

Alice De André

Foto: press

Per 26 anni Alice De André ha dovuto scappare dal cognome che porta, più per aspettative altrui che per scelta. Oggi invece ci fa i conti con le idee più chiare su “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, parafrasando Montale. «Gli agenti dello spettacolo e ai provini da attrice mi spingevano verso la musica: “Se canti ti portiamo a Sanremo”. E io ne uscivo devastata». È da lì che nasce il suo spettacolo, Alice non canta De André: un atto di liberazione dai pregiudizi esterni, senza però rinnegare la propria storia. Così come nella stand-up comedy, che porta in scena nei locali milanesi: «Si comincia sempre da qualcosa che ci fa soffrire».

Alice è nipote di Fabrizio e figlia di Cristiano, De André naturalmente. Parla veloce e alterna ampi sorrisi ad espressioni corrucciate mentre siamo nel bar che ha scelto per questa intervista. E sugli argomenti più seri non arretra di un millimetro se deve dire la sua: «Chi ha una voce pubblica deve usarla per denunciare», tira dritta. Spiega che la politica italiana «è orribile» perché alla sua generazione non resta che «votare il meno peggio». Per questo, nel dubbio, «bisogna resistere»

Dai De André ha ereditato la testardaggine («siamo tutti così in famiglia»), oltre a una buona dose di impulsività: «Ai miei ex ho distrutto almeno due macchine», racconta senza imbarazzo. Così come una spiccata sensibilità che l’ha portata a lavorare ogni giorno con ragazzi nello spettro autistico per aiutarli a «superare i blocchi che li fanno soffrire». 

Oggi vive in un triangolo emotivo che va da Milano alla Sardegna, passando per Genova («la città che più sento mia»), e prova a costruirsi un’identità personale: «Voglio portare con me mio nonno e aggiungere il mio stile». La grande occasione arriverà nel 2026 quando condurrà con Enrico Ruggeri Gli occhi del musicista su Rai2. Il pubblico però è avvisato: lei è una De André che non canta De André, ma che cercherà di far rivivere questo cognome in un modo tutto nuovo. 

Alice De André

Foto: press

Chi è Alice De André?
Nasco come attrice, mi sono diplomata in Accademia in recitazione e poi sono arrivata al mondo della comicità, di cui mi sono pazzamente innamorata. Milano è una città molto viva per questo genere, insieme a Roma, e partecipando agli open-mic mi sono appassionata anche alla conduzione. Continuo a fare stand-up per tenermi in allenamento, ma negli ultimi tempi presentare mi interessa di più insieme alla regia, visto che mi ero diplomata in pedagogia teatrale e lavoro anche in una scuola post diploma dedicata a ragazzi con lo spettro autistico. Lì curo un corso di teatro con due miei spettacoli dove i protagonisti sono soltanto gli allievi. Sono una vera innamorata del teatro, vorrei fare tutto quello che riguarda quel settore.

Questo è il curriculum, ma se una persona ti incontrasse senza conoscere la storia del tuo cognome, come ti presenteresti?
Gli direi di leggere Il mondo di Sofia (ride). Difficile da sintetizzare, lo sto ancora scoprendo. Diciamo che mi voglio conoscere attraverso il teatro, uno degli strumenti più interessanti per mettersi in gioco. A 26 anni non mi sento ancora abbastanza formata per dire chi sono.

Hai raccontato che il tuo fratellastro ha la sindrome di Asperger. È una storia familiare che ti ha spinto verso quel tipo di attività teatrale?
Sì, siamo cresciuti assieme e ha difficoltà principalmente a livello sociale, come a comunicare, a mantenere il contatto visivo, fisico e l’attenzione. Così, a un certo punto, deve sfogarsi. Il che si traduce nell’andare in giro a disegnare delle figure nello spazio. Per anni non capivo il suo atteggiamento. Quando da piccoli parlavamo, senza giustificazione si alzava e se ne andava. Lo consideravo un maleducato. Finché un giorno mi ha spiegato qual è il suo funzionamento e finalmente ho preso coscienza. È importante che ne siano consapevoli. Questo mi ha spinto a lavorare con questi ragazzi per aiutarli a superare determinati blocchi che li fanno soffrire. Il teatro in pratica funge da terapia d’urto. Ho tentato questo laboratorio, si sono iscritti dieci ragazzi e ormai lavoriamo insieme da tre anni. Sono incredibili per la naturalezza con cui salgono sul palco, a differenza di quanti problemi mi faccio io quando devo farlo. E quando scendono tornano a chiudersi. Però sono bellissimi momenti per loro, anche per dimostrare agli altri che sono più di quello che sembrano.

Hai solo 26 anni, ma sui social dichiari spesso di avere delle crisi esistenziali. Non è un po’ presto?
Sono sempre stata così, piena di domande. Infatti, dopo il liceo mi ero iscritta alla facoltà di filosofia, perché speravo di trovare la risposta ad alcune di queste domande, invece ho trovato il triplo delle domande e l’ho abbandonata. Sono molto curiosa e vorrei capire come funzionano le cose. Il problema è che, quando capisci, ti rendi conto che il mondo non sta andando benissimo in questo momento storico. Non sono molto brava con i social, mi hanno consigliato di usarli ma li uso a modo mio. Chi lavora in campo artistico sono convinta che abbia la responsabilità di far sentire la propria voce e io cerco di farlo anche con quei mezzi. È il mio punto di vista, non insegno niente a nessuno e rispondo a tutti, quindi si aprono spesso dei dibattiti nei commenti. E poi li uso per raccontare del mio cognome, che non posso e non voglio certo nascondere, usando la chiave della satira. 

 

 
 
 
 
 
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Spesso ti rivolgi a «mio nonno» in un grande dipinto sulla parete. Ma per tutti gli altri è Fabrizio De André.
Il confessionale! C’era mio padre, Cristiano, che stava facendo un trasloco e ho visto quel dipinto gigante in una camera. Lui mi ha chiesto se lo avessi voluto, solo che abito in 60 metri quadri a Milano, avrebbe tenuto tutta la casa. Al mio fidanzato, però, è piaciuto e lo abbiamo messo in salotto. Solo che, visto lo sguardo, sembra che ci giudichi dalla mattina alla sera. A furia di sentirci giudicati è nata l’idea di rivolgermi a lui per chiedergli cosa ne pensa su diverse questioni o provocarlo. O chiedergli chi abbia ragione quando litighiamo.

Quanto ti sei sentita giudicata a priori per il cognome che porti?
Purtroppo tanto, anche se non lavoro nell’ambito della musica. Ai provini da attrice tutti si aspettavano che almeno sapessi cantare. Ancora prima, ai colloqui con gli agenti mi spingevano verso il canto. Anche con promesse mirabolanti: «Se canti ti portiamo a Sanremo». All’inizio mi facevano molto soffrire, poi ho deciso, grazie alla stand-up e alla comicità, di partire da quelle esperienze per scrivere i miei monologhi. In fondo si comincia sempre da qualcosa che ci fa soffrire. Attraverso la risata ho esorcizzato quel dolore ed è nato lo spettacolo Alice non canta De André, con il tour che partirà a febbraio 2026.

Qual è il momento in cui ne hai più sofferto?
Il peggiore è quando, appena uscita dall’Accademia, ho fatto un colloquio con un agente. Ero piena di speranze, convinta di mangiarmi il mondo, ma lui, dopo aver sfogliato il mio curriculum, dice: «Quello che mi interessa di più è il tuo cognome, perché se lo porti vuol dire che hai qualcosa di brillante dentro». Mi sarei dovuta alzare e andarmene, ma avevo solo 19 anni. Ho pensato: «Adesso sbaglio volutamente tutti i congiuntivi e dico che voto Lega». Non l’ho fatto, purtroppo, così mi sono dovuta sorbire il suo discorso sul fatto che se avessi cantato mi avrebbero trovato un pezzo per portarmi al Festival di Sanremo. Ne sono uscita devastata, ho temuto che quelle fossero le reazioni per il resto della vita. Avevo già vissuto la fatica di mio padre Cristiano nel portare un cognome così impegnativo.

E il momento più bello finora?
L’anno scorso, quando mi hanno invitata a presentare un evento, ai Parchi di Nervi, dedicato a mio nonno per ricordare i 25 anni dalla sua scomparsa con tantissimi artisti. È stata la mia prima conduzione, in più condivisa con mio padre per ricordare Fabrizio. Un cerchio che si è chiuso pieno di amore. Un momento autentico che il pubblico ha percepito. Mi piace che mi chiamino per questo tipo di eventi. Da 26enne, portare avanti i suoi valori e i suoi messaggi lo trovo molto importante.

Visto il carattere che dimostri anche tu, mi pare di capire che dire a un De André che cosa deve fare non sia il modo migliore per ottenere un riscontro positivo, o sbaglio?
Esattamente! Abbiamo la testa bella dura.

Un episodio in cui non sei riuscita a trattenerti?
Non vorrei dire come Belén che sono manesca con gli uomini, ma gli ex fidanzati mi hanno fatto spesso esplodere. Mi vengono in mente almeno due macchine che gli ho distrutto.

Addirittura?
Eh sì… Il mio primo fidanzato era Luca Salvadori, lo youtuber e motociclista che è venuto a mancare l’anno scorso. Ero piccola e mi faceva penare. Gli rompevo le scatole in ogni momento, persino prima delle corse. A volte eravamo al telefono ed era costretto a chiudere perché stava per salire in moto. E io impazzivo. Aveva un’auto verde fluo super tamarra e, ogni volta che litigavamo, passavo sotto casa e gli appiccicavo le cicche, la rigavo, oppure gli mettevo la cacca del cane sul cofano. Non glielo dicevo, ma sapeva che ero io.

Per questo il tuo attuale fidanzato ti ha soprannominata “tempiesa barrosa”, che tradotto dal sardo significa “testarda”?
Certo, perché sono nata a Tempio Pausania visto che i miei genitori in quel periodo vivevano all’Agnata nella tenuta di famiglia. Quando Fabrizio è venuto a mancare si erano trasferiti là a mettere a posto un po’ di cose e mia madre ha deciso di farmi nascere lì.

Sei nata in Sardegna, vivi a Milano, ma anche Genova credo rappresenti qualcosa di importante per te. Le tue radici, però, dove sono?
È un casino! Vivo tra la Sardegna e Milano, ma la città che più sento mia, pur non avendola vissuta, è proprio Genova. Quando ci vado e vedo quelle abitazioni una sopra l’altra, il porto, il mare, è come se mi sentissi a casa. Essendo da sempre stata sballottata non ho delle vere e proprie radici, però a Genova sento qualcosa di diverso quando cammino per i caruggi.

Immagino faccia impressione camminare in luoghi che sono diventati la scenografia delle canzoni di Fabrizio De André, da Via del Campo alla Stazione di Sant’Ilario. Ma quando hai scoperto di avere un nonno speciale?
Quando ero molto piccola, forse a 6 anni. Nella camera di mia madre usavo un vecchio computer, di quelli con uno schermo enorme e pesantissimo, per navigare o andare su Youtube, e a un certo punto esce il nonno. Lì per lì mi sono detta: «Che ci fa dentro al Pc». Allora mia mamma ha cominciato a spiegarmi chi era, mentre io continuavo a chiederle: «Tutta Italia conosce mio nonno??!». Così ho realizzato chi era ed è stranissimo. Pur essendo sua nipote, non sapevo chi fosse ma tutta Italia invece lo conosceva. È anche il tema del mio spettacolo, dove ognuno dà una propria visione di lui ca ui possiamo comporre un puzzle.

Cristiano De André e la figlia Alice. Foto: Roberto Frassinelli

Cristiano De André e la figlia Alice. Foto: Roberto Frassinelli

Sei figlia di un altro grande musicista e cantautore come Cristiano De André. Come ha reagito quando gli ha detto di voler intraprendere una strada artistica?
Mi ha sempre supportata. È stato un grande, mi ha incoraggiata per non mollare. Oltre a ripetermi di non ascoltare quello che avrebbero detto gli altri: «Se punti più in alto possibile, almeno a un buon livello ci puoi arrivare». Però mi ha anche consigliato di non cantare. Parallelamente mi ha insegnato con l’esempio la passione e la dedizione che ci vuole per supportare il proprio talento. Una guida è stato il libro Lettera a un giovane poeta di Rilke. Spiega che bisogna capire se la tua passione è una vera necessità. Se non puoi immaginare di vivere senza fare quella cosa, allora ne vale la pena. All’inizio, devo ammetterlo, non capivo il suo progetto De André canta De André, perché Cristiano è anche tanto altro. Ha pubblicato tanti dischi solo suoi. Ad oggi l’ho capito. Un cognome così importante non poteva essere trascurato, ma a quel ricordo aggiunge una sua identità e una sua veste musicale. Alla fine ha avuto ragione, ci sono tantissimi giovani che vanno ai suoi concerti. Voglio farlo anch’io nel mio spettacolo: portare con me mio nonno, lavorarci “insieme”, aggiungendo il mio stile.

Tua madre invece è ballerina.
Era uscito che fosse stata ballerina alla Scala, ma in realtà aveva studiato alla Scala. Poi si è fatta male e non ha potuto continuare quella attività. Il suo sogno era che sua figlia diventasse una ballerina, ma su questo l’ho delusa subito. Mi ha iscritta al Carcano e al primo saggio sono uscita sul palco che sembravo una falena appiccicata a un lampione. Mi sono piantata in mezzo con le movenze dell’Orso Yoghi e ho urlato: «Ciao Milano, ciao mamma, ciao papà!». Mio padre era entusiasta, mentre mia madre disperata. Così Cristiano ha preferito iscrivermi a teatro e oggi sono ancora quell’orso che urla «Ciao Milano!», ma in un contesto più consono.

Come vivi l’esposizione mediatica della tua famiglia, che a volte finisce nel gossip?
Non mi ha mai interessato. Non vedo neanche perché dovrebbe interessare al pubblico. Ognuno ha già la sua buona dose di rotture di scatole da affrontare, perché ti interessano le mie? Questa forma di spettacolarizzazione non la comprendo, non mi appartiene e se c’è gente interessata a questo ho sempre espresso la volontà di non voler esserne coinvolta. Mi rendo conto che il gossip mi accompagnerà sempre, ma l’importante per me è non rispondere. È capitato qualche volta che uscissero delle notizie su di me, ma ho cercato di non reagire. Non è facile, perché sono come mio papà, impulsiva e irascibile, quindi il primo istinto è di attaccare. Solo che è l’atteggiamento peggiore in questi casi. Bisogna lasciar correre, piano piano andrà scemando. Al massimo faccio qualche lezione di yoga in più.

A parte la musica prodotta in famiglia, qual è la tua preferita?
Sono una rockettara che è nata nell’epoca sbagliata. La passione viene da mio padre, con Led Zeppelin, Doors, Pink Floyd, fino agli Arctic Monkeys. Un misto mare dai ‘60 ai ‘90. Fatico ad ascoltare musica recente, mi rifugio nel passato. Fra gli italiani amo molto Iosonouncane, in particolare il brano Stormi. A livello internazionale, Yungblud è davvero fortissimo.

Una canzone preferita di tuo nonno e una di tuo padre?
Di mio papà sono legata all’album Scaramante, che è uscito quando sono nata, e alla canzone Le quaranta carte che ha scritto per me. Ultimamente gli ho consigliato di riprenderlo, perché è meraviglioso e ancora attualissimo. Invece, senza fare spoiler, lo vedo al lavoro su un disco nuovo. Invece di Fabrizio mi aggrappo ai ricordi che faccio un po’ miei, quindi ti dico Verranno a chiederti del nostro amore. Una canzone che ha cantato per la prima volta a mia nonna, Enrica Rignon detta Puny, quando si stavano separando. Mi colpisce sempre la storia di mio padre che da piccolo dormiva con mia nonna, mentre mio nonno la notte stava sveglio a scrivere. Una sera mio nonno entra in camera, la sveglia e le dice che deve farle ascoltare una canzone. Mio padre finge di dormire, ma dallo spioncino della porta vede mia nonna in lacrime e mio nonno che le canta Verranno a chiederti del nostro amore. Un altro brano che amo è Oceano, che è anche il motivo per cui io mi chiamo Alice.

Come mai?
L’ha scritta con De Gregori perché mio nonno lo assillava per capire il significato della canzone Alice. «Ed arrivò un bambino con le mani in tasca / Ed un oceano verde dietro le spalle / Disse: “Vorrei sapere quanto è grande il verde / Come è bello il mare, quanto dura una stanza / È troppo tempo che guardo il sole, mi ha fatto male». In fondo capì che non c’era niente da capire, anche per quell’episodio hanno deciso di chiamarmi Alice.

Nel mondo dello spettacolo c’è qualcuno a cui ti ispiri?
Cerco di essere il più autentica possibile, per cui non c’è qualcuno in particolare. Non c’è niente di peggio che vedere una persona troppo costruita sul palco. Mi è piaciuta tanto Geppi Cucciari quando ha presentato Sanremo, è stata sia naturale che elegante oltre che ironica. Avere dei punti di riferimento aiuta, ma anche informarsi, leggere, avere qualcosa da dire. La conduzione ti concede di essere te stessa rispetto alla recitazione e mi sento più a mio agio. Sono molto contenta che nel 2026 avrò l’opportunità di co-condurre Gli occhi del musicista con Enrico Ruggeri su Rai2. Verrà presentata a breve la trasmissione e non vedo l’ora di cominciare.

E nella comicità?
Nella stand-up amo follemente Ricky Gervais, ma che sia un mio riferimento mi sembrerebbe esagerato dirlo. Io racconto ciò che mi succede, soprattutto quello che mi fa soffrire o arrabbiare, compreso il peso del mio cognome. Per il mio spettacolo mi sono ispirata a Virginia Raffaele, che ho visto a teatro. È un’artista pazzesca, sa fare davvero tutto. Dal vivo mi ha lasciata senza parole. La sua padronanza del palcoscenico la trovo unica.

Un regista con cui ti piacerebbe lavorare?
Woody Allen! Adoro l’utilizzo del linguaggio e lui in questo è un maestro.

A proposito di linguaggio, spesso leggi sui social i tuoi libri preferiti.
Ho dei periodi in cui sono bulimica nella lettura e altri nei quali non riesco ad avvicinarmi a un libro. Però mi hanno sempre accompagnata, questo grazie a mia madre. Dal Il piccolo principe in poi come primo libro, quando ero molto piccola, mi piace anche rileggere gli stessi autori perché ogni volta trovo nuove chiavi di interpretazione. Sto provando a portare questa mia passione sui social, non solo proponendo quelli che preferisco ma accogliendo altre proposte. In generale credo sia impossibile lavorare in un campo artistico senza leggere.

Sai che nel mondo dello spettacolo oggi la cultura non è proprio al primo posto?
Lo so, ma io ci tengo. Altrimenti di cosa parli? Allora è per questo che alla gente interessa più il gossip che la cultura. Chi sale su un palco dev’essere preparato e avere qualcosa da dire.

Ti è mai capitato di conoscere qualcuno nel mondo dello spettacolo che dal vivo ti ha delusa?
In tanto, perché sul palco vedi una cosa, mentre la vita reale spesso è molto diversa. Ci sono diversi aneddoti di mio nonno che aveva paura di rimanere deluso dai suoi idoli, quindi non li ha voluti conoscere. Da Bob Dylan a Leonard Cohen. Non parlando bene l’inglese aveva timore che il traduttore non fosse abbastanza per farsi capire ed entrarci in empatia. Non bisogna aspettarsi che l’artista rappresenti la persona, perché molte volte rimani deluso.

Alice De André

Foto: press

La politica in tutto questo come la percepisci?
Sono piuttosto schierata politicamente anche se, a 26 anni, la politica di oggi la vedo come un problema, perché diventa qualcosa di scomodo e che non aiuta. In particolare il governo che c’è oggi. Cosa posso dire? Si va avanti e l’unico modo di non arrabbiarsi è resistere.

Vedo che ti stai trattenendo.
Mmm sì, perché immagino si capisca bene da che parte sto. Non sono per niente contenta di quello che sta succedendo nella politica italiana. E chi ha una voce pubblica deve usarla per denunciare. È particolarmente orribile quello che vediamo intorno a noi ogni giorno.

Il M5s, partito proprio da Genova con Beppe Grillo, non sembra più attrarre i giovani.
Ero troppo piccola quando è stato fondato, avevo solo 14 anni. Mi interessavo alla politica, ma non potevo votare. Penso che sia partito bene, con i giusti presupposti, poi mi pare che sia successo qualcosa nel mezzo che lo ha bloccato. Purtroppo un pensiero molto giusto che diceva mio nonno è che non esistono poteri buoni per cui, a un certo punto, quando ognuno di noi inizia ad averne un po’ comincia anche a svalvolare. Bisogna quindi ricordarsi da dove si viene e che principi si vogliono trasmettere. Non conosco così bene la politica, la immagino un ambiente difficile e corrotto, per cui mi sembra molto complicato mantenere un’integrità.

Quindi non ti senti rappresentata da nessuno?
No! Io, come tanti miei amici, ci ritroviamo a votare il meno peggio. Che è l’atteggiamento più triste per la nostra generazione, perché invece dovremmo sognare di poter cambiare le cose. Così, a furia di farlo, molti non vanno più a votare. Io voglio continuare a farlo, piuttosto il Partito Pirata, ma voglio continuare a votare. È un diritto e un dovere. Solo che è tosta in Italia e per i giovani è davvero brutto non sentirsi rappresentati da nessuno.

Cosa manca alla tua parte politica, che a questo punto è la sinistra?
Un’idea!

Che dica qualcosa di sinistra, come insegna già Nanni Moretti nel 1998 nel film Aprile?
Esatto… Mi pare mettano insieme tutto un miscuglio di cose che sono incomprensibili. Sono di sinistra ma fino a che punto? E su certi temi dove vogliono andare? Invece vedo che manca un’idea collettiva, di unione, rispetto a tanto individualismo dilagante. Per ora rimango a guardare, anche se, per il momento, non c’è nessuno che mi faccia esclamare wow!

Il tuo futuro come lo vedi?
Di base sono disfattista. Per me tutto, prima o poi, andrà male. Sono molto pignola e questo penso di averlo preso sia da mio padre che da mio nonno. Alla fine di ogni progetto penso sempre che avrei potuto farlo meglio. Però è sbagliato, perché bisogna anche rendersi conto di quello che abbiamo fatto ed essere contenti del nostro percorso. La società attuale non aiuta, perché ci vuole sempre a trecento all’ora. Sembra di non andare mai abbastanza veloce. In questo modo non ti godi i traguardi raggiunti. Spero un giorno di fermarmi e potermi dire allo specchio «sei stata brava». Non è facile farlo, ma serve per non massacrarci ogni volta.

L’unico contatto con tuo nonno è stata la carezza sulla pancia di tua madre mentre eri nel suo grembo. Un giorno ti piacerebbe che anche quel cerchio umano si chiudesse?
Mi piacerebbe che mio padre Cristiano potesse diventare nonno. Voglio avere una famiglia, mi sento una mamma, anche con mio padre. Lo ha ammesso lui stesso di vedermi come una sorta di figura materna. Quindi sogno un figlio e un papà-nonno che un domani trasmetta a mio figlio quello che è riuscito a trasmettere a me. La mano di Fabrizio sulla pancia di mia madre è un momento bellissimo, però è l’unica cosa a cui mi posso aggrappare. Mancherà sempre la mia vita con lui. E non è quello che voglio per mio figlio. Per lui voglio una vita piena di ricordi anche con suo nonno. Questo sarebbe il cerchio perfetto che si chiude.