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Alice Cooper: «Ho riunito la band e suoniamo ancora taglienti come nel 1975»

Il musicista di Detroit ha rimesso insieme il gruppo dopo 50 anni e pubblicato un nuovo album. Ma niente tour: «Forse un solo show, qualcosa di speciale»

Foto: Jenny Risher

La sera prima – l’8 luglio – ha incantato il pubblico di Bologna con uno show pirotecnico, teatrale e, come di consueto, perfettamente calibrato tra culto e caos. La mattina dopo alle 9, Alice Cooper mi accoglie su Zoom con un’energia che smentisce i suoi 76 anni e che mi fa sentire quasi in soggezione. «Il pubblico italiano è così coinvolto, così dentro al concerto. È stato pazzesco. Cantavano ogni parola, erano carichi, fantastici. Amo suonare in Italia», esordisce sorridendo, probabilmente ancora col volto segnato dal trucco nero della sera prima.

Road è ormai uscito da due anni mentre The Revenge Of Alice Cooper sarebbe uscito qualche settimana dopo quel live, quindi questa parte di tour è la classica terra di mezzo in cui dare spazio quasi esclusivamente all’autocelebrazione: «Il rock in sé è autocelebrazione in qualche modo, basta solo riuscire a tenere divisi i due o più me con i quali convivo. Quando ero Alice Cooper in ogni situazione sì che nascevano i problemi. Ma fortunatamente parliamo ormai di tanti, tanti anni fa».

Forse per il poco tempo a disposizione, Alice ha voglia di parlare, tanto che quasi si fatica a fargli domande. È eccitato come i suoi fan per il primo album con la Alice Cooper Band — quella con Dennis Dunaway, Neal Smith e Michael Bruce – dalla metà degli anni settanta: «Quando ci siamo separati negli anni ’70 non fu per litigi o drammi. Eravamo amici dal liceo, abbiamo passato la fame insieme, e poi siamo diventati ricchi insieme. Ma a un certo punto abbiamo sbattuto contro un muro di cemento. Era tutto troppo. Troppo successo, troppi eccessi, io non mi riconoscevo più allo specchio».

Forse non andò in modo così pacifico, soprattutto perché Cooper ripartì immediatamente con uno dei suoi album più importanti, Welcome To My Nightmare, mentre agli altri non andò altrettanto bene. Eppure, l’entusiasmo sembra davvero quello di un tempo: «Certo, sai che le cose comunque le si racconta sempre dal proprio punto di vista, quindi le verità sono molteplici. Però, davvero, semplicemente ci siamo separati. Ma cinquant’anni dopo, ho chiamato i ragazzi e ho detto: “Perché non facciamo un nuovo disco insieme?”. E con Bob Ezrin alla produzione, ovviamente. Era l’unico che potesse guidarci di nuovo».

La cosa sembrava potesse andare in porto già qualche anno prima, ma la chiamata aveva portato solo a una manciata di nuovi pezzi. Ezrin, produttore di cui si parla troppo poco e abituato alle sfide e ai temperamenti più particolari, non poteva che rispondere presente: «Bob è sempre stato il nostro George Martin. Quello che George ha fatto con i Beatles, lui l’ha fatto con noi. Ha capito che avevamo idee forti, talento, ma che serviva qualcuno che ci aiutasse a dare una forma a tutto questo. Quando diventavamo troppo artistici, troppo cerebrali anche, Bob ci riportava sulla strada giusta: “Suona forte, ma così non va, rifacciamolo meglio”. Lo abbiamo sempre ascoltato e non mi sono mai pentito dopo cinquant’anni».

Il risultato è The Revenge Of Alice Cooper, un disco che suona come una macchina del tempo. «Non ci abbiamo nemmeno provato coscientemente, ma The Revenge Of Alice Cooper suona esattamente come un album del 1975. Ha quell’energia, quella semplicità tagliente. Penso sia solo il modo in cui suonano quei ragazzi: sono ancora legati a quell’epoca, agli Yardbirds, a certe radici hard rock. Quando siamo entrati in studio, senza aspettative, sono arrivati e… hanno spaccato». Il processo creativo è stato sorprendentemente naturale, senza problemi di ego o vecchi rancori. «Tutti noi scriviamo in continuazione. Dennis, Neal, Mike, io. Quindi abbiamo portato in studio un sacco di materiale. Non c’era ego: nessuno difendeva le sue canzoni come fossero sacre. Se qualcosa non funzionava, lo cambiavamo. Bob Ezrin guidava il tutto con la sua pacatezza. Sai com’è, forse noi siamo i più tranquilli con cui abbia lavorato…».

Ride, Alice. Sa perfettamente che negli anni d’oro della band i promoter avevano paura di loro: «È vero ed era comprensibilissimo. Spendevamo in alcol più di quello che si guadagnava. Gli unici contenti di quella situazione erano i produttori di alcolici. Oggi invece fanno a gara a chiamarmi, pensa che strana la vita». Alice è convinto che questo disco colmi un vuoto lasciato decenni fa: «Per me, questo è l’album che sarebbe dovuto uscire subito dopo Billion Dollar Babies. Quello fu un numero uno in classifica. Poi facemmo Muscle of Love, ma senza Bob. Quell’album aveva delle belle canzoni, ma mancava di coesione. Non sembrava un disco degli Alice Cooper. The Revenge invece ha una direzione, un’identità. È un vero album della Alice Cooper Band».

Sono due le tracce che forse, più di tutte, rappresentano al meglio il nuovo corso della band. La prima è What a Syd, un omaggio diretto al chitarrista Glenn Buxton, scomparso nel 1997: «Glenn era un delinquente, c’è poco da girarci intorno. Un criminale nato, ma anche il chitarrista più unico che abbia mai incontrato. Non avrebbe mai potuto suonare con band troppo ferme in certi schemi, come per esempio gli ZZ Top. Per noi invece era perfetto. Aveva quell’anima deviata, sporca, incredibile. Una volta aveva avuto l’occasione di suonare con Syd Barrett, e avevano passato ore in una jam completamente da fuori di testa tutte incentrate su suoni distorti con l’echoplex. Una cosa da matti, che potevano capire solo in stato alterato della mente. Da allora, ogni volta che vedeva qualcuno comportarsi in modo totalmente assurdo e incomprensibile, diceva: “What a Syd”. Era il suo modo di dire: “Quello è pazzo, in senso geniale”. E così è nata la canzone. È allo stesso tempo un omaggio a Glenn e a Syd».

Poi c’è Blood on the Sun, apparentemente la più “profonda” dell’album — almeno in apparenza. «Dennis l’ha portata in studio. Abbiamo lavorato molto sul groove, sui dettagli. A un certo punto gli ho chiesto: “Dennis, ma di cosa parla?”. E lui mi guarda e dice: “Ogni verso è il titolo di un film”. Non c’è assolutamente nessun significato. Ma suona profonda. E sai cosa? È geniale. Mi ha ricordato quello che una volta mi disse John Lennon: “Molte cose che scrivo non significano niente. Funzionano e basta”. Dylan ha fatto spesso la stessa cosa: a volte scrive solo per il suono delle parole. E poi guarda per anni i fan che inventano le teorie più astruse cercando di dare una spiegazione al nulla (ride). Blood On The Sun è così. Una finta canzone importante, costruita solo su suoni cinematografici».

I fan si chiedono se rivedranno la formazione originale su un palco. Alice non chiude del tutto la porta, ma frena l’entusiasmo. «Forse un solo show, qualcosa di speciale. Io sono in tour da quando ci siamo sciolti. Non ho mai smesso, 50 anni ininterrotti. Ma gli altri no. Non credo che vogliano rimettersi in viaggio in quel modo dopo così tanto tempo. Però potremmo fare una firma-copie in un negozio di dischi, suonare cinque o sei canzoni. E sarebbe fantastico. Qualcosa di intimo, unico».

Detroit, ovviamente, non può mancare nella conversazione. «Sono nato a Detroit, anche se abbiamo formato la band in Arizona. Ma musicalmente siamo tornati lì. Los Angeles non faceva per noi — troppo folk, troppo psichedelica. A San Francisco c’erano i Grateful Dead e Jefferson Airplane. New York aveva un’altra scena. Ma a Detroit? A Detroit c’erano gli MC5, gli Stooges, Bob Seger, Ted Nugent… Lì volevano l’hard rock, volevano attitudine, energia, rischio. E noi gliel’abbiamo data». Qualcosa di simile a Birmingham per il Regno Unito, dove Alice avrebbe voluto partecipare all’addio alle scene dell’amico Ozzy Osbourne: «Il paragone con Birmingham è perfetto. Industriale, ruvida, autentica. La gente vuole musica vera, non roba carina. Purtroppo ero in tour con date ravvicinate, mi è dispiaciuto molto non esserci. Proprio come Ozzy e i Black Sabbath, io sono fiero di essere di Detroit».

Restando su Ozzy, viene da pensare che il suo rapporto con sua moglie abbia molti punti in comune con quello del Prince Of Darkness e Sharon: «È vero, con l’aggravante che Sharon è stata anche per una vita la sua manager, cosa che l’ha esposta ad una pressione mediatica pazzesca, che spesso le si è ritorta contro. Non ho problemi a parlare del mio passato, ma cerco di non marciarci troppo. Non per bigottismo, ma perché un po’ mi vergogno ancora di tutto quello che ho fatto e che ho fatto passare a mia moglie. Però sì, anch’io sono un sopravvissuto, ma è solo una questione di fortuna». Alice ancora non poteva saperlo, ma alla fine è sopravvissuto anche al suo amico Ozzy.

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