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Alessandro Cortini: «Sì, sono quello che suona nei Nine Inch Nails»

Ha accettato di essere definito così, ma è molto di più. Lo dimostrano l'album 'Scuro chiaro' e questa intervista che spazia da Jovanotti a Daniel Avery e passa per Stati Uniti, Germania e Portogallo

Foto: Emilie Elizabeth

«Il lunario lo sbarco, dai». Fa un po’ sorridere che questa frase sia detta da un artista che esce su una label leggendaria come la Mute, o che da anni è un membro aggiunto dei Nine Inch Nails. Eppure, in bocca ad Alessandro Cortini suona assolutamente naturale e, soprattutto, non ha nessuna forma di presa in giro o sarcasmo.

Il punto è che Cortini ora più che mai è riuscito a costruirsi una dimensione perfetta per se stesso, dove anche cose grosse o cambiamenti radicali sembrano bagatelle che avvengono con naturalezza. Ma del resto, è così dall’inizio: da quando ha lasciato l’Italia a fine anni ’90 eleggendo gli Stati Uniti a nuova patria, a quando ha tradito Los Angeles per andarsene a Berlino e concentrarsi di più sulla sua identità da solista protagonista nel campito di un’elettronica onirica e sognante fino a, ultimo spostamento, il Portogallo. Dove lo troviamo alle prese con, parole sue, «merda di cavallo». Ma se le deiezioni equine hanno contribuito a rendere il suo nuovo album ora in uscita, Scuro chiaro, bello così com’è allora ben vengano. Ed in effetti, come ci racconta, un collegamento c’è.

Insomma, ora ti trovi in Portogallo, in campagna, a 30 chilometri da Lisbona, e hai l’aria di essere piuttosto soddisfatto: mi sa che non solo un ritorno a Berlino ma anche un ritorno negli Stati Uniti non è proprio all’ordine del giorno, vero?
Ovviamente vent’anni passati negli Stati Uniti, così come tutta l’adolescenza passata in Italia, non si cancellano. Non è che ora voglia sminuirli. Ma quello che dovevamo fare in America, penso di poter dire che l’abbiamo fatto. Abbiamo fatto il nostro. Los Angeles a suo modo è bellissima, davvero, ma dopo vent’anni… anche basta. È la città dove io ed Emily siamo cresciuti come coppia, e dove ciascuno di noi è cresciuto professionalmente, io da musicista e lei da fotografa. Ma proprio quando ci siamo trasferiti in Europa – appunto a Berlino – ci siamo improvvisamente resi conto di come fino a quel momento avessimo dedicato tutta la nostra vita quasi solo esclusivamente alle nostre carriere. Il buon 70% di quello che una persona normalmente fa, beh, noi non l’avevamo fatto: troppo risucchiati dal lavoro. L’Europa ci ha messo di fronte a una possibilità di vita che avevamo ignorato fino a quel momento, o comunque dimenticato. Oggi, poi, figuriamoci: io passo metà della mia giornata in studio e metà invece ad aiutare Emily a piantare ortaggi e quant’altro. Giusto l’altro giorno lei ha ordinato qualcosa come due tonnellate di rocce per perimetrare il nostro orto e ordinarlo ma, considerando che lei è incinta, indovina un po’ chi ha dovuto disporre tutto quanto? (Ride) E poi ancora: si diverte tantissimo a comprare lei il fertilizzante, merda di cavallo insomma, ma anche lì: chi deve distribuirlo sul terreno? (Altre risate).

Ti ci vedo bene, con la merda di cavallo.
Ma va benissimo così, credimi. Ci sono aspetti di vita giornaliera a cui prima non avrei mai e poi mai pensato e che invece ho scoperto essere molto salutari. Mettono il tuo cervello in una posizione differente. Sai cosa, la verità è che quando ti concentri troppo sul fare musica inizi a ignorare il mondo lì fuori. E questo non va mai bene.

Sia come sia, mi pare che in Scuro chiaro tu abbia raggiunto una fiducia nei tuoi mezzi ed una sicurezza che prima non avevi. Non che prima fossi insicuro, sia chiaro, ma mi sembra che con quest’ultimo album tu non abbia più alcun timore o dubbio a rendere sempre più denso il suono e sempre più intricate le soluzioni.
È vero, hai ragione. Ma ti dirò di più.

Vai.
Sono diventato talmente sicuro di me stesso e delle mie scelte, nel creare musica, che questo è un album in parte fatto addirittura di materiale vecchio, roba che avevo abbandonato e che ora ho ripreso in mano. La lavorazione di Scuro chiaro inizia quando finisce quella di Volume massimo: mi ero ritrovato con pezzi che per vari motivi non erano adatti a finire in quel lavoro lì e da quei pezzi sono partito. Ma le varie implementazioni successive sono arrivate andando a ripescare anche cose che avevo fatto nei luoghi e soprattutto nei periodi più disparati. E lì sta il punto. Ho capito cioè finalmente una cosa piuttosto importante: non è scritto da nessuna parte che un disco debba essere pensato, creato e finito in un unico blocco di tempo, in un’unica precisa sequenza. Da nessuna. Che venga fatto così è una possibilità, non un obbligo. In questo modo, permettendomi di non seguire più questa linearità, ho recuperato tanto materiale che davo ormai da tempo per perso e inutilizzabile.

Io ho sempre fatto musica, praticamente ogni giorno, quotidianamente mi ritrovavo a premere il pulsante della registrazione, anche quando magari si trattava solo di fare delle cose un po’ per gioco, per passare il tempo. Cos’è successo? Quando è arrivato il lockdown, sarò sincero, a me era passata proprio la voglia di creare musica nuova. Zero. Semplicemente, ero senza ispirazione, non ero dello spirito. A quel punto però invece di disperarmi o di impormi di essere produttivo, ho iniziato a guardare nella sconfinata libreria delle registrazioni per gioco fatte negli anni, o comunque quelle inutilizzate, e con una pazienza da monaco certosino ho iniziato a riascoltarle e catalogarle tutte, tutte quante. Sai cosa? In certi casi mi sono proprio sorpreso di me stesso: ci sono registrazioni che letteralmente non mi ricordavo di aver fatto. D’altro canto sono risalito fino a dieci anni fa… no, aspetta, che dico… le prime cose sono del 2003…

Diciotto anni.
Diciotto! Ci pensi? Pazzesco. Ma credimi: è stato piacevolissimo. Ho scoperto in questo modo un altro aspetto della creatività, che fino a quel momento mi ero precluso io per primo. Scuro chiaro è stato fatto così, un ritrovare delle pietre a lungo abbandonate, levigandole, ordinandole poi in modo da creare un mosaico completamente nuovo. La consapevolezza di questo modo altro di fare dischi mi fa sentire molto libero, non mi vedo più legato infatti a meccanismi che mi sembravano ineludibili e inevitabili fin da quando ero ragazzino. Tipo: un disco deve essere fatto tutto di fila. Non è vero! Ho capito che non è vero! E capendo che non è vero, in questo modo smetto pure di soffrire. Di avere quella maledetta componente di sofferenza.

Soffrire? Sofferenza?
Quando ero inscatolato nel processo standard per cui prima si fa il demo e poi si registra, mi ritrovavo inevitabilmente in momenti in cui l’ispirazione non c’era e, beh, mi facevo violenza per andare avanti. Ma già ci stavo lavorando, per superare questa cosa…

Come?
Ormai ho maturato talmente tanta esperienza che non ho bisogno di un demo per capire se il materiale che ho in mano è valido e merita di essere sviluppato, se ho dei singoli elementi ora non sento più la necessità di assemblarli in un pre-disco, un demo appunto, per capire se la vale la pena utilizzarli o meno. Vale anche per i frammenti suonati male, registrati male, e ce ne sono: in certi contesti possono risultare più efficaci delle cose fatte a modo. Dopo vent’anni passati a creare musica, ho capito che devo fidarmi del mio giudizio e devo farlo incondizionatamente. Attenzione, non lo dico per arroganza, non è questione che non mi interessi a prescindere il giudizio degli altri; ma mi sono semplicemente accorto che se una cosa piace molto a me, beh, è parecchio facile che piaccia molto anche agli altri, al mio pubblico. Si crea cioè una connessione ancora più forte. Se la mia musica è fatta essenzialmente per soddisfare me stesso a livello emotivo, dopo tutto questo tempo ho capito che sì soddisfa di più anche chi mi ascolta. Non devo vergognarmene, non devo averne paura.

Da come ne parli, una consapevolezza che però hai acquisito solo ultimamente.
È un po’ come andare in palestra. Metti cioè che un giorno decidi finalmente di andare in palestra: non è che il giorno dopo sei già splendidamente in forma, no? Ti ci vuole un po’ di tempo. Devi svegliare il tuo corpo; devi raggiungere quel grado di coscienza, di consapevolezza e di controllo in cui tu sei veramente e finalmente pilota del tuo corpo e delle sue funzioni; e per arrivare a tanto ci vuole tempo, non è un risultato immediato. È importante questa cosa dell’ascoltarsi, sai? Perché spesso non lo si fa. Per anni io non mi sono ascoltato, in studio: magari c’era la giornata in cui non ero ispirato, non mi veniva fuor niente, ma io nulla, mi obbligavo a restare lì, a non andarmene finché non avevo tirato fuori qualcosa, col risultato che ero sempre più frustrato – perché se vuoi tirare fuori qualcosa e non ci riesci, allora inizi immancabilmente a pensare «eh, ma forse non sono realmente capace, forse non sono bravo». Che poi: cosa vuol dire essere bravi?

Eh.
Nulla, non vuol dire nulla: attaccare valori alla creatività è, credimi, un processo profondamente deleterio. La prima cosa da fare non è cercare valori, magari sanciti dagli altri, ma è invece ascoltare se stessi. Tornando all’esempio della palestra: ci vuole comunque tempo. Tu puoi anche iniziare a dirti che è fondamentale rimettersi in forma; ma prima che inizi a fare regolarmente esercizio fisico, sai bene che ci vuole parecchio. Anche solo per iniziare. Devi esserne convinto. E questa convinzione non arriva in un attimo. E soprattutto non passa da valori. Io sono molto fortunato: io non sono mai stato uno studente delle tastiere intese come strumento, mi interessava più che altro il suono, i sintetizzatori quindi. Ho avuto e ho la grande fortuna di lavorare in un gruppo, i Nine Inch Nails, che da me voleva e vuole esattamente questo. A loro non interessava cioè fossi bravo, a loro interessava che ascoltassi e mi ponessi quindi con la giusta sensibilità. Se io fossi stato un tastierista bravo non solo a loro sarei interessato di meno ma, proprio in generale, sarei diventato un musicista credo molto meno interessante e completo di quanto lo sono adesso.

A proposito dei Nine Inch Nails: onestamente, ti ha dato mai fastidio che negli anni la tua figura di musicista fosse spessissimo ridotta al fatto di esserne parte? Una roba tipo «Alessandro Cortini? Chi? Ah sì, quello che suona nei NIN». Credo che questa frase tu l’abbia sentita spesso, no?
Sì, l’ho sentita spesso, ma no, non mi ha dato mai fastidio. Perché io sono molto orgoglioso di tutto quanto ho fatto con Trent e gli altri. È stato un percorso di grande crescita personale, un percorso che mi ha permesso non solo di essere funzionale all’interno della band, ma anche di svilupparmi molto a livello personale. Da fuori la gente vede Trent come una personalità enorme, totalizzante, ma devo dire che da lui ho sempre ricevuto carta bianca in ogni scelta sonora, soprattutto per quanto riguarda il suonare dal vivo. Tra di noi c’è un’affinità silenziosa: quello che piace a me, di solito piace anche a lui. Poi chiaro, aiuta il fatto che non salgo sul palco a fare il fenomeno, non mi metto a fare assoli di tre ore per far vedere quanto sono bravo. Però ecco: no, non mi ha mai dato fastidio essere ricondotto così tanto e così nettamente all’esperienza dei Nine Inch Nails. Per nulla. E questo valeva anche quando le nostre strade a un certo punto si erano separate, quando erano sorte delle tensioni che mi avevano portato ad uscire temporaneamente dal gruppo. Ma onestamente, come puoi essere arrabbiato per essere accostato ad una band del genere? Ad una band così potente?

Ci sta.
Vero è che mi fa piacere che negli ultimi tempi ci siano sempre più persone che si accostano a me non per luce riflessa in chiave NIN, quanto piuttosto per i miei lavori solisti degli ultimi anni. Scoprono magari solo in un secondo momento che faccio parte anche dei Nine Inch Nails. In molti mi hanno conosciuto con Avanti, il disco solista del 2017, e il collegamento con Reznor e la band arriva solo in un secondo momento. Magari manco gli interessa, la musica di Trent. Anche se ormai i Nine Inch Nails sono una cosa talmente grande e variegata… Guarda: se passi da Pretty Hate Machine agli ultimi tre EP, passando magari pure per le colonne sonore, c’è veramente di tutto. Anche mia madre ormai può trovare una parte dei Nine Inch Nails che le piace. Possono andare bene per tutti. Come la stracciatella.

Che poi tu sei un anello di congiunzione molto divertente: sei cioè la figura di raccordo tra Nine Inch Nails e Jovanotti, e detto così…
(Ride) È vero, è vero! Ho suonato con entrambi e sì, capisco che possa fare ridere questo accostamento. Perché anche per me Jovanotti era originariamente quello degli anni ’80, quello di Jovanotti for President, dei boxer, degli anfibi; ma il Lorenzo che ho conosciuto io è altro. È, e questo va al di là dei gusti personali, uno dei principali artisti italiani. Uno che oggettivamente ha fatto un percorso personale, e in vari passaggi anche molto ricercato e non scontato. Questo gli va riconosciuto, anche se magari non ti piace lui o non ti piace la sua musica. È sempre uno che ha voglia di fare cose nuove: questo è un gran merito, punto. Mi sono ritrovato a lavorare con lui grazie a Saverio Principini, che è un po’ la figura di riferimento per gli artisti italiani che vogliono organizzare session di registrazione negli Stati Uniti, grazie a Saverio ho suonato anche con Vasco Rossi, per dire. Ad ogni modo: lavorare con Lorenzo è stata una bellissima esperienza lavorativa. Lavorare con lui, conoscere gente come Saturnino… Poi chiaro, all’inizio è stato bizzarro, per me Jovanotti era davvero inizialmente quella cosa lì di quando avevo 13, 14 anni… Deejay Television, l’Aquafan…

Vent’anni dopo tu ci finivi in mezzo, te ne rendi conto, l’avresti mai detto?
(Risate) A proposito, ma l’Aquafan c’è ancora? Da ragazzino l’ho idealizzato parecchio, per me era una specie di paradiso, anche se in realtà non ci sono mai stato. Al massimo sono stato in una versione tarocca che c’era tipo a Cervia. Pensa come ero messo. Che sfigato.

L’Aquafan ad un certo punto è stato anche di proprietà del Cocoricò.
Ma dai?

Ecco, a proposito del Cocoricò: mi ha sempre molto incuriosito il tuo aver scelto recentemente di creare musica a due assieme a Daniel Avery, uno che a prima vista sarebbe più riconducibile al circuito del clubbing e della tech-house.
Vero che lui fa parte di un altro circuito, ma io fin dall’inizio sono sempre stato un grande fan della sua musica. Quando è uscito il suo Drone Logic, mi pare nel 2013, lo ascoltavo in modo compulsivo. Guarda, anche quando ero in tour coi Nine Inch Nails lo facevo ascoltare spessissimo agli altri. Mi ricordava un po’ Block Rockin’ Beats dei Chemical Brothers: musica da dancefloor, sì, ma con una produzione pazzesca. Abbiamo iniziato a sentirci via Twitter, lì è subito saltato fuori che anche lui apprezzava molto la mia roba. Dai complimenti si è passato allo scambiarsi idee in generale sulla musica e, da lì, siamo arrivati alla possibilità di fare proprio qualcosa assieme. L’intesa c’è stata subito. E, per fortuna, c’è stata subito anche l’intesa umana quando ci siamo finalmente incontrati di persona, perché per un sacco di tempo era stato solo uno scambio virtuale. Piacersi l’un l’altro musicalmente era una condizione necessaria, ma non sufficiente. Il frutto finale di questo nostro incontro, Illusion of Time, credo abbia ricevuto un’accoglienza così buona dal pubblico anche perché è un lavoro che richiede un ascolto attivo da parte, una interpretazione personale cioè. E in tempi di lockdown, evidentemente questo è stato un fattore in più. Fosse uscito in un altro momento forse questo disco sarebbe stato meno considerato.

Vi siete mai confrontati sui rispettivi stili di vita e ritmi lavorativi? Lui appunto ben immerso nella routine del dj di successo…
Anche io quando mi sono trasferito a Berlino ho iniziato ad avere una carriera solista che prendeva piede e, di conseguenza, ogni fine settimana a partire dal venerdì se non addirittura dal giovedì sera ero via, per tornare solo la domenica o addirittura il lunedì. Quindi un po’ di routine estrema pure io. Ma almeno i miei orari erano umani: per tardi che fosse, i concerti miei finivano verso l’una di notte – che è più o meno quando Daniel deve iniziare a salire in console. A lui questo non pesa, perché lui ha un amore per i club che io non ho e non ho mai avuto. Ci sta. Lo capisco. Se una cosa non mi piace, o comunque non fa per me, non è che mi metto lì a sbraitare «questo fa cagare!». Io al Berghain ci sono stato un paio di volte e boh, capisco la situazione, capisco il fascino del tutto, ma non fa per me.

Però di cose techno o quasi-techno ne hai fatte, soprattutto quelle con l’alias Skarn.
Ma sì, perché ogni tanto col sintetizzatore mi metto a spippolare e vengono fuori delle cose simil-techno. Ma non è che ora «eccolo, adesso Cortini vuole spopolare anche nella club culture»: per carità. Sarò onesto, io il dj proprio non lo capisco, come mestiere. Non sono bravo. Non lo sarò mai. Non fa per me. Posso anche apprezzarlo, sia chiaro, ma se devo impegnarmi su qualcosa preferisco farlo su qualcosa che mi faccia sentire un po’ meno naufrago in mezzo al mare. Quindi meglio lasciar perdere.

Che poi tu arrivi dall’Emilia, che negli anni ’90 è stata una culla incredibile per la prima versione evoluta della club culture in Italia. Bologna, in particolar modo: il Link, il Livello 57…
Sì, ma io in quegli anni a Bologna ci andavo non per i centri sociali, ma per la Montagnola.

Il mercato settimanale dei vestiti?
Esatto. Poi sì, facevi il giro dei negozi di dischi, non potevi non passare dal Disco D’Oro, ok, ma centri sociali zero. In fondo non ne sentivo il bisogno: uno dei pochi vantaggi del crescere in Italia, per quanto mi riguarda, è che ci sono steccati musicali molto meno rigidi rispetto agli Stati Uniti. In Italia, un metallaro o un punk in fondo poteva anche ascoltare non dico Nek, ma almeno i Bluvertigo. In America non succederebbe mai. In America se fai parte di una tribù musicale è quella, e stop. In Italia, magari in provincia, siamo molto più contaminati. Io più che Bologna devo dire che mi nutrivo musicalmente al Vidia a Cesena o al Velvet a Rimini. Ogni weekend facevo nuove scoperte musicali notevoli, andando lì. Cose a cui da solo non ci sarei mai arrivato, e questo ci tengo a sottolinearlo: il ruolo del dj all’epoca era introdurti a nuove esperienze musicali. Che poi, se ci pensi, è quello che fanno oggi le playlist di Spotify e simili. Solo che lo fanno in maniera molto meno umana e molto meno sostanziosa.

Insomma, negli anni ’90 abbiamo vissuto un periodo speciale e irripetibile?
Chiaro che sì. Ma è esattamente quello che dicevano i nostri genitori rispetto alle loro cose, in confronto con le nostre. Si cambia, sai, si cambia: io non avrei mai pensato di arrivare nella posizione in cui dico che «la musica ai miei tempi sì che era meglio, un tempo sì che si sperimentava, si godeva, si assorbiva”, ma sì, ora ci sono arrivato, tutto questo lo dico, te lo sto dicendo, lo affermo, lo penso. È tuttavia normale.

Normale? Non c’è da preoccuparsi quindi? O da incazzarsi?
Prima di tutto, siamo più vecchi: a 30 o 40 anni sei giocoforza meno ricettivo di quanto ne hai 20. Sei meno impressionabile emotivamente. E meno male, aggiungo: perché se tu a 30 o 40 anni fossi emotivo come quando ne avevi 20, come riusciresti a fare da capofamiglia? Come riusciresti a reggere la responsabilità di nutrire i tuoi figli, i tuoi cuccioli? Se oggi sento in giro Save a Prayer dei Duran Duran, o un qualsiasi brano preso da Arena, a me vengono ancora adesso i lacrimoni: perché mi ricordo l’estate in cui venni in possesso di quella musicassetta, ed era l’estate in cui per la prima volta venivo lasciato da una ragazza – immagina il dramma, a 12 anni. Non capiterà mai più di soffrire così tanto per amore. Ma andando avanti con gli anni, per farti un altro esempio, prendi la roba delle droghe: è lo stesso. Quello che dovevo fare l’ho fatto, al tempo, e va benissimo, oggi però è veramente troppa fatica gestire degli sbalzi emotivi così forti come quelli dettati dagli stupefacenti. E poi ora sto per diventare babbo: quindi no, non si può.

Mi viene quasi da chiederti: ma tu, hai voglia di tornare a suonare in giro?
Ora come ora, assolutamente no. Quando è iniziato il panico delle chiusure da pandemia la mia agenzia mi ha subito abbandonato, ma non gliene faccio certo una colpa: proprio le agenzie di booking sono fra quelle che hanno perso tutto, per colpa del Covid, che gli vuoi dire. La mia grande fortuna è che, essendo ancora curioso come un bambino, non mi sono mai limitato solo a fare il musicista che fa i dischi e va in giro a fare i concerti: ho fatto un sacco di lavori dietro le quinte e continuo peraltro a farli, come ad esempio la faccenda delle colonne sonore e della musica per videogiochi che ti dicevo. Ad ogni modo: per Scuro chiaro no, non ho intenzione di viaggiare. Almeno fino alla fine del 2021. Sto aspettando una figlia: che voglia ho di viaggiare? Che senso avrebbe farlo? L’unico strappo alla regola potrei farlo per una chiamata dei Nine Inch Nails.

Ah, eccoti!
Ma questo perché loro ormai sono come una famiglia, e girare con loro è un’abitudine piacevole e senza più sorprese: quando sono con loro so con chi sono, so cosa aspettarmi, so che le cose sono fatte in un certo modo. Altrimenti, mah: non mi fido adesso ad andare in giro, la pandemia secondo me non è ancora finita. Ho paura per me e – vedi eh come viene fuori la componente di colpevolezza pseudo-cattolica? – ho un po’ di paura pure per chi verrebbe a vedermi. Perché mettere a rischio la salute delle persone? Per guadagnare qualcosa in più? Io al momento sono molto tranquillo. Tranquillo per come mi sono sistemato, tranquillo perché io fosse anche solo per la paura di annoiarmi ho sempre fatto tante, tante cose diverse. Razzolo un po’ di qua, un po’ di là. Insomma: il lunario lo sbarco, dai.

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