Alberto Radius: «Con Lucio Battisti a 250 all’ora in fuga dai paparazzi» | Rolling Stone Italia
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Alberto Radius: «Con Lucio Battisti a 250 all’ora in fuga dai paparazzi»

Il pop di ieri e di oggi raccontati da un grande chitarrista: la casa comprata con l'aiuto di Battiato, il pedale di Hendrix, i Måneskin che «rubano bene», Jovanotti «stonato come una campana», il pezzo «bruttino» di Lauro, il vincitore di 'Amici' che fa il rider

Alberto Radius: «Con Lucio Battisti a 250 all’ora in fuga dai paparazzi»

Alberto Radius

Foto: Silvia Saponaro, per gentile concessione di Alberto Radius

È stato definito la memoria storica del rock italiano, solo che a lui del passato non è mai importato granché. Sarà per questo che alla soglia degli 80 anni (li festeggerà il 1° giugno) ragiona ancora come un ragazzino: «Non so come mai, però dopo un po’ che suono in una band gli altri si adagiano». E parla di gente che, come minimo, ha 40 anni in meno.

Siamo a San Colombano al Lambro, nella sua casa tra verdi colline e strade in terra battuta nel lodigiano, e da qui Milano è vicina il giusto per essere raggiunta quando serve e lontana abbastanza per mitigare tutti i problemi di una metropoli. Dall’altra parte del tavolo, in un bel soggiorno luminoso, c’è Alberto Radius, un chitarrista che ha lasciato il segno nei migliori album di Lucio Battisti e Franco Battiato. E che nello studio milanese da lui fondato ha prodotto circa 350 dischi. Senza dimenticare l’attività con la Formula 3, altre decine di band prima, dopo e durante, visto che è ancora in pista con diversi live programmati nelle prossime settimane. Con lui abbiamo parlato di tutto, ma proprio tutto, per ripercorrere una carriera irripetibile.

Nasci a Roma, ma cresci a Milano. Questioni familiari?
Sì, la mia famiglia era originaria di Milano, solo che mio padre dopo aver lavorato all’Alfa Romeo è stato chiamato in aviazione e ha continuato con la carriera militare fino a diventare un generale stellato. Ma era un truffatore come me…

In che senso?
Che siamo arrampicatori della vita. Ci sappiamo arrangiare. Non alla napoletana, alla milanese. Quelli rubano, noi abbiamo soltanto voglia di fare. Io ce l’ho ancora.

Ti sei fermato durante la pandemia?
Non mi lamento, in questi due anni ho lavoricchiato. Suonavo con un trio insieme a due ragazzi genovesi e dopo un po’ li ho mollati perché si erano adagiati. Adesso ho trovato un altro trio e con loro sono 3-4 anni che stiamo insieme. Però già si stanno adagiando anche loro. Ho risentito una registrazione degli inizi ed era molto più bella. Non capisco perché dopo un po’ tutti si adagiano.

È vero che, dopo quello di Milano, hai chiuso anche il tuo studio qui a San Colombano?
Era un piccolo studio, ma ormai non c’è più lavoro in quel settore. E comunque sono stato chiuso 40 anni in cantina a produrre dischi, circa 350, mi sembra di aver fatto abbastanza.

Immagino sia difficile ricordarseli tutti.
Ogni tanto scopro qualcosa grazie al web. Non sono tecnologico, mio figlio mi ha spiegato qualcosa. Ma ho cercato “tutti i dischi di Alberto Radius” e mi è uscita una lista infinita. Ho anche trovato due pezzi bellissimi di 50 anni fa e adesso li voglio reincidere perché non si capiscono bene le parole.

A giugno compirai 80 anni.
Per adesso sono contento di aver passato tutte le malattie. Per fortuna non ho mai fumato neanche una sigaretta quando era normale farlo. Così come le droghe, che nel nostro ambiente circolavano in quantità. Gli altri sapevano che non usavo e non toccavano il cane… sennò li mordevo. Mi hanno operato al cuore, alla vescica, ultimamente a un polmone per un tumore, mi sono già rotto le gambe, il polso sinistro proprio qui in salotto quando sono scivolato sul tappeto. Pensa che avevo una serata in Sicilia due giorni dopo.

E come hai fatto?
Ho suonato lo stesso con un tutore. Facevo qualche nota, quando mi si addormentava la mano andavano avanti gli altri e poi ricominciavo. Se non mi diverto sto a casa, se mi diverto suono anche gratis.

Con la trap si è tornati a parlare delle periferie, del “ghetto”, dell’assenza della politica, della mancanza di lavoro.
E noi ne parlavamo già 50 anni fa. Venivo dalla collaborazione con Mogol, ma lui parlava sempre della sua vita nei testi e non mi appassionava. Quando ho incontrato Oscar Avogadro è stata la svolta. Gli artisti di oggi parlano del nulla.

Foto: Mondadori via Getty Images

Quali sono stati gli incontri più importanti della tua vita a livello artistico?
Da quando nel ‘78 ho aperto lo studio in via Capolago a Milano, che era il più attrezzato d’Italia, sicuramente quello con Battiato. Avevo speso tutto facendo anche dei debiti, ma c’erano un banco, dei riverberi e degli echi che non aveva nessuno grazie al Lexicon 224. Ora trovi tutto nei programmi sul computer. Mi sono avviato su quella strada dopo aver sentito nel ‘77 il batterista dei Genesis che suonava direttamente sull’eco.

È vero che hai faticato due giorni per far accettare a Battiato la tua intro di Cuccurucucu?
Effettivamente… diciamo che facevo tremila cose e poi lui sceglieva. Quello è andato bene, no? Non c’era niente di simile prima. Franco, come Lucio, faceva solo gli accordi. Entrambi, ti spiegavano come avevano pensato il pezzo a grandi linee, ma senza dirti altro.

Hai raccontato anche che Battiato un giorno ti ha persino aiutato a comprare casa.
Battiato è un essere speciale. Per il lavoro su L’era del cinghiale bianco, su Patriots e su La voce del padrone mi ero dedicato totalmente a lui. Anche se mi facevano altre richieste gli davo sempre la priorità. Si sentiva che era qualcosa di importante. In America avevo comprato una batteria elettronica Roland TR-808 che in Italia non c’era ancora e avevamo realizzato con quella La voce del padrone. Era difficilissima da usare, bisognava schiacciare tutto con le dita, infatti eravamo in dieci concentrati per stare a tempo. Ma alla EMI non hanno accettato la batteria elettrica, così siamo stati costretti a tornare alla batteria vera.

E quindi, avete rifatto tutto?
Ho chiamato Alfredo Golino, che aveva tre marce più degli altri, e in un giorno e mezzo ha risuonato i brani. Si era segnato due-tre cose e, buona la prima, ha finito in tempi record. Ti dico un trucco che allora rendeva i dischi più belli. Nella strofa c’era un tempo, nell’inciso quel tempo era un pelo più veloce, questo gli dava del gas. Adesso il tempo è tutto uguale, quindi aggiungono roba in produzione ma che non riesce a dare uno sprint, anzi, contribuisce solo ad appesantire. Non è stata l’unica volta che abbiamo dovuto rifare tutto.

Quando è successo?
Per L’era del cinghiale bianco Battiato aveva già registrato il disco in un altro studio, ma non era soddisfatto. Allora è venuto da me e lo abbiamo risuonato daccapo. Quella volta alla batteria c’era Tullio De Piscopo. Ho sempre fatto il raccoglitore di idee e di elementi. Dipende da chi è più utile in base al progetto. Ho fatto anche l’introduzione per Nel sole di Al Bano…

Tanto per non farti mancare nulla…
Era il ’67 se non ricordo male. Mi disse: «Radius cosa vuoi fare?». Ho risposto suonando: du den du den… pem … e mi si è rotta la corda. Anche perché ne usavo di talmente sottili che non esistevano in commercio. Per il Mi cantino usavo la corda del banjo, solo che non aveva il fermo. Allora dovevo rompere un’altra corda di chitarra, unirla a quella del banjo e arrivava appena per essere fissata. Era un accrocchio e ogni tanto si rompeva, però come suonava ragazzi!

Ci siamo persi sul gesto di generosità di Battiato che ti ha permesso di comprare casa.
Ah giusto. Avevo deciso di comprarne una vicino allo studio e costava 250 milioni di lire. Me ne mancavano 50. Dovevo prendere un sacco di soldi dalla casa discografica e da altri lavori, però tardavano ad arrivare. Un giorno si presenta in studio Battiato e mi dice: «Ho sentito che ti mancano 50 milioni per comprare casa». «Sì, ma tu che c’entri?», gli ho risposto. Lui tira fuori il libretto degli assegni, scrive la cifra mancante, e me lo lascia sul tavolo: «Hai fatto tanto per me». Che bel momento!

Cinquanta milioni di lire non erano pochi neanche allora, no?
Come 200 mila euro di oggi, come minimo. Però aveva capito che mi ero dedicato completamente a lui.

L’ultima volta che vi siete sentiti?
Un anno prima che morisse. Io ho tutti i nastri di quelli che hanno lavorato con me in un garage strapieno. Adesso alcuni li sto rigenerando per metterli su chiavetta e un giorno ne salta fuori uno con scritto: “Battiato Japan”. Mah, non mi ricordavo neanche cosa fosse. Così lo chiamo per chiedergli cosa farne e lui mi dice: «Non me ne frega niente, fai come vuoi». Era il suo atteggiamento verso quello che era passato.

In salotto fa capolino il gatto che cattura l’attenzione di entrambi. Gli chiedo quale sia il nome e, dopo un attimo di perplessità, risponde: «Si chiama Gatto… Io al massimo lo chiamo Gattus. Il gatto di Radius…».

Prima di Battiato è stato fortissimo il tuo legame con Lucio Battisti…
Con Lucio eravamo amicissimi. Ricordo ancora quando con Mi ritorni in mente dovevamo fare un rallentamento che dava profondità al pezzo e, dopo aver provato con dei fiati italiani, non eravamo soddisfatti. Allora ho chiamato i Chriss & The Stroke, che erano mezzi italiani e mezzi stranieri. Ci abbiamo messo un pomeriggio, ma alla fine è uscito tutto come volevamo.

Con la chitarra com’era?
Ma chi, Lucio? La chitarra la suonicchiava appena… Aveva l’idea della chitarra. Come l’introduzione di Eppur mi son scordato di te è proprio mia quella. Lui mimava i suoni e io lo seguivo. Non al primo, ma al terzo colpo usciva l’idea giusta.

Ho letto che non hai apprezzato il blocco delle canzoni di Battisti da parte della moglie.
Ho lavorato con Lucio quando era fidanzato con Grazia Letizia Veronese. Sono stati un mese a casa mia quando lei era incinta. Allora la chiusura al pubblico era giusta, la condividevo. Lucio non era uno adatto ai bagni di folla alla Venditti o alla Baglioni. Lui voleva stare a casa a farsi i cazzi suoi. Un giorno li ho dovuti portare via da casa loro per seminare i paparazzi…

Un vero e proprio inseguimento?
Certo, solo che non potevano starmi dietro. Avevo una macchina americana, la Cobra Shelby. L’ho rivenduta recentemente perché era più un debito che altro. A casa loro, appena tiravano la tenda per guardare fuori c’era un fotografo pronto a scattare. Allora quando Grazia Letizia era all’ottavo mese, ho caricato lei e Lucio sulla mia auto e li ho portati via. Ci hanno inseguito, ma sull’autostrada ho schiacciato l’acceleratore e a 250 all’ora li ho seminati. Loro avevano delle Seicento… Sono stati con me in via Novara a Milano nella stanza degli ospiti fino alla nascita del figlio.

E condividi anche che in seguito che la moglie abbia stoppato per anni la diffusione delle sue canzoni sulle piattaforme digitali o tanti eventi a lui dedicati?
Ma sai, bisognerebbe entrare nella testa di Maria Grazia. Il problema è che tra moglie e marito si formano legami così forti che a volte si diventa gelosi di tutto. La gelosia ti fa bloccare, perché pensi: meglio che tenga io queste cose e non siano a disposizione di altri. Però questo lo trovo sbagliato, le canzoni di Lucio sono patrimonio di tutti. E poi prenderebbero un sacco di soldi, non so come sono finite le cause con Mogol.

Alberto Radius, Lucio Battisti e Grazia Letizia Veronese

Tu come ti sei spiegato la rottura Battisti-Mogol?
Per una questione finanziaria. Le divisioni erano 12/24 all’edizione, 8 al musicista e 4 al paroliere. Penso che Mogol volesse pareggiare con Lucio 6 e 6. Poteva essere comprensibile dal suo punto di vista, solo che non teneva conto di altri aspetti, cioè che Lucio faceva la musica e cantava. E come le cantava quelle canzoni… gli dava l’emozione giusta. I pezzi li rifaceva cinquecento volte prima di registrarli. Curava ogni particolare, era un perfezionista. Ma una volta registrato, se c’era qualche sbavatura la teneva. Erano quelli gli elementi che tiravano fuori l’anima di ogni brano. Oggi chissà come mai sono tutti intonati. Poi dal vivo…

Come hai vissuto gli album di Battisti del dopo Mogol?
Oggi li valuto meglio di allora, però non mi è mai piaciuto quello che ha fatto con Pasquale Panella. C’erano quaranta brani messi insieme e mai finiti. Una strofa e un inciso, una strofa e un inciso e via così, dieci in ogni pezzo…

Panella quando l’ho intervistato ha detto di essere molto fiero di aver tolto Battisti dai falò…
Sarà un vanto per lui, non per la gente. A parte La sposa occidentale e qualcos’altro che non dispiace, in generale era poco digeribile. Attenzione, non bisogna dimenticare che è stato Lucio a voler fare cose diverse, non Panella che lo spingeva. L’aveva detto anche a me: «No no, voglio fare questo e basta». L’ho visto a casa sua in quel periodo, abbiamo mangiato e poi siamo andati nel casottone dove aveva un bel pianoforte su un un palchetto, un Bösendorfer. Si è messo a suonarlo e mi faceva: «Senti che bassi». Brim, brum, bram… si gasava proprio. Ah, ti faccio vedere una cosa incredibile…

Sparisce per qualche minuto e torna con un pedale per chitarra che appoggia sul tavolo.

Il retro del pedale di Hendrix con gli appunti di Battisti

E questo cos’è?
È il pedale di Jimi Hendrix che ha perso quando ha suonato in Italia. Me lo ha dato il cantante dei Camaleonti, si vede che gli è caduto dal furgone prima di andarsene. Ma il bello è che dietro c’è un appunto scritto a mano proprio da Battisti. Sono i conti di Lucio. Quindi è un doppio ricordo. Non lo metto in vendita perché non merita di andare perduto.

Jimi Hendrix è stato il più grande chitarrista di tutti i tempi?
Per me è più corretto dire che Hendrix ha inventato la chitarra. Oggi se apri YouTube trovi un sacco di chitarristi velocissimi, ma a che serve? Quando sono andato a sentire il trio dei più veloci del mondo, dopo tre pezzi sono uscito. Una gara di tecnica che non valeva nulla, del cuore non c’era traccia.

Chi è oggi secondo te il miglior chitarrista in circolazione?
Per me è ancora Santana, che con tre-quattro note ti dona delle emozioni uniche. Come lui non c’è nessuno.

Hai avuto anche una band che si chiamava Il Volo tra il ’74 e il ’75.
Quel gruppo era nato perché Mogol ha fatto scogliere la Formula 3, voleva puntare su qualcosa di internazionale. Ci aveva assicurato che avrebbe pagato tutto lui, non dovevamo preoccuparci di niente. Dopo il secondo disco abbiamo avuto un contenzioso e litigato, così Mogol ha detto agli altri: o me o lui, cioè Radius. E loro: «Ma scusa, il gruppo l’ha fondato lui». E quindi ci siamo ritrovati per un periodo, in particolare io e Mario Lavezzi che eravamo i più attrezzati, a dover pagare gli altri per le serate.

Quel nome nel 2010 lo hanno usato per il progetto composto dai giovani tenori. Ti hanno mai contattato?
Era un nome inventato alla Numero Uno, la casa discografica. E lì gravitava anche mister Quando quando quando Tony Renis, che ha formato quel nuovo progetto. Dopo tanti anni deve aver pensato, visto che gli altri non ci sono più, perché non rifarlo? Io avevo fondato Il Volo Srl con Mario Lavezzi, poi dopo qualche anno gli ho ceduto le edizioni. So che gli hanno fatto causa e hanno perso. Ma la causa dovevo farla io, perché avevo i miei dischi che avrebbero giustificato una richiesta del genere. Ma non me ne frega nulla. I tre giovani tenorini sono un po’ anacronistici ma funzionano.

Radius e Battisti

Fra le righe hai già fatto capire più volte che la musica contemporanea non ti convince.
Intanto non capisco perché i cantanti biascicano le parole. Come Mahmood e Blanco, che fanno le foto da rocker e poi quando li senti cantare sono tutti gentilini… Comunque la formula è sempre la stessa. Prima un po’ di rap, poi un giro armonico e alla fine ancora rap. Ma un successo come quello della canzone Mille si deve a Orietta Berti e alla sua parte melodica, non a quella rap con Fedez e Achille Lauro. Ora c’è questa moda, ma non so quanto durerà. C’è anche da dire che il computer ha ucciso la musica. Basta cliccare e non paghi più una lira.

Un consiglio ai giovani?
Devono fare la gavetta. Stare in cantina e suonare ore e ore per anni. Io suono ancora due-tre ore al giorno.

I Måneskin sembra che abbiamo fatto la gavetta, anche suonando per strada.
Adesso avranno un cantinone dove provare… Sono contento per loro. Ho visto quando suonavano per le strade di Roma, significa che la cantina l’hanno fatta. Suonare per strada significa stare attento ai vaffanculo che ti arrivano dai negozianti o dai passanti. Prima era ancora meglio, perché facevi un mese in un posto, un mese in un altro, alla fine due mesi a Milano o Roma e conoscevi tutti gli artisti in circolazione. E allora i musicisti facevano anche i facchini… Non avevamo i tecnici, montavamo tutto noi. Con la Formula 3 spostavamo un organo Hammond che pesava 200 chili senza maniglie. Dovevamo portarlo su e giù per le scale. Mi sono spaccato la schiena e ancora mi fa male oggi. Ho una laurea in facchinaggio.

C’è chi dice che i Måneskin non sono rock.
Sono rock. Hanno rubato dal passato e hanno rubato bene. Certo, un successo del genere è un mistero.

Con la Formula 3 avete suonato con Stevie Wonder.
Ci hanno chiamato perché stava arrivando in Italia e dovevamo preparare un pezzo dove lui suona la batteria. Si è messo a sedere, io ho cominciato a fare delle note e lui appresso, siamo andati avanti 5-6 minuti. Stevie è impressionante. Ha toccato il timpano, il rullante, il charleston e ha proseguito a bomba.

Stevie Wonder + Formula Tre: Stevie Drum Solo (Speciale per voi 1970 Rai)

Con quali altri artisti internazionali hai collaborato?
E chi lo sa… Sono andato tante volte a New York, a Monaco e a Londra per registrare, ma non so per cosa le hanno usate le miei incisioni. Allora funzionava così. Mi davano gli accordi e mi chiedevano delle parti di chitarra o degli assoli. Chissà dove sono andati a finire… Ogni tanto mi sembra di sentire qualcosa di mio nei video su YouTube, ma chissà…

Chi ascolti con più piacere?
Prima di tutto Fausto Rossi, in arte Faust’o. Lui è bravissimo, in particolare con i testi. Il suo primo disco lo risento ogni tanto, si intitolava Suicidio, fantastico! Un altro è Mino Di Martino, che ha fatto un album eccezionale ma purtroppo non lo hanno promosso. Un tempo poteva succedere, ti mettevano nel cassetto e potevi non uscirne mai. E sono quelli che hanno avuto meno successo. Ma a me non interessa nulla.

Parliamo di chitarristi, ti faccio qualche nome. Alex Britti?
Bravo, anzi, molto bravo. Poco socievole, però. Una volta ci siamo incontrati a Sanremo in quelle feste post festival. Prima suonava lui, quando sono arrivato io sul palco ha staccato il jack della chitarra e se ne è andato senza neanche salutare. Non sarà il massimo della socialità, ma è molto bravo.

Ricky Portera?
Anche lui è bravo, ha seguito l’esempio di Steve Vai. Mi piace il suo assolo in Ayrton di Lucio Dalla. Ma il più bravo di tutti è un altro…

Chi?
Luca Colombo. Peccato non sia più nell’orchestra della Rai, infatti a Sanremo c’era un suono squallido di chitarra. Colombo ha veramente le palle quando suona. Oppure c’è lo storico chitarrista di Vasco, Maurizio Solieri. Ma Vasco si tratta bene, anche Stef Burns è fenomenale. In generale ascolto poco i chitarristi. Non per cattiveria, ma se senti troppi gli altri rischi di copiarli, anche inconsciamente.

Vasco lo apprezzi?
È stato uno dei grandi innovatori della musica italiana. E non si vergogna di fare i pezzi degli altri, come di Battisti o De André.

Ti sarebbe piaciuto lavorare con lui?
Mah, ha un suono molto preciso e caratterizzato e quindi per forza il “cappello” su tutto deve essere il suo. Ma se mi chiama magari ci vado. Però in questo caso è una questione di soldi.

Come valuti le richieste?
Ultimamente se mi chiamano voglio i soldi. Se il progetto mi piace ne chiedo meno. Solo ad alcuni non chiedo nulla perché sono amici.

Stavo dimenticando che qui a San Colombano vive anche Gianluca Grignani e tu hai suonato su alcuni suoi dischi.
Ho fatto due dischi con Grignani. L’ho visto a Sanremo e non mi è sembrato in formissima. Mi spiace, abita qui vicino.

È vero che ti ha lasciato totale libertà durante il lavoro?
Sì, anche perché per me è sempre il concetto base da cui partire. Vengo, faccio quello che vuoi ma in libertà. In seguito puoi cancellare tutto, a me non interessa, ma voglio carta bianca. Sennò chiami un turnista qualsiasi. Non ho mai fatto un assolo uguale all’altro. Sennò gli stimoli dove li trovo?

Della stessa generazione c’è anche Morgan, che ha collaborato con Battiato.
Era molto amico di Franco. È un bel musicista. Se ne dicono tante su di lui, ma secondo me è pure un bravo ragazzo. Forse la televisione gli ha fatto bene da un lato e male da un altro. Quando lo sento cantare le canzoni di Battiato, sapendo che musica e testi non sono semplici, mi sembra che li faccia molto bene. Per cui bisogna riconoscere che come musicista ci sa fare.

Hai qualche rimpianto?
Forse con Jovanotti nel periodo de L’ombelico del mondo, non ricordo se già per quell’album o subito dopo. Mi è spiaciuto che sia saltata la collaborazione, perché è simpatico e molto attivo. Stonato come una campana, ma ha altre qualità.

Tra Beatles e Rolling Stones chi scegli?
Rolling tutta la vita. Quando sono usciti con Satisfaction ero nei night e sono letteralmente impazzito. Per quel suono mi sono chiesto: ma da dove viene? Se è stato Keith Richards a inventare quei riff è un genio.

Una chitarra come si sceglie?
Vieni, ti faccio vedere le mie.

Mi porta nella stanza degli ospiti, che in realtà ospita soltanto le sue chitarre.

Non ne hai moltissime.
Ne ho solo quattro tutte uguali, una però è la mia preferita. Questa Hamer, che ha un magnete che allunga le note. L’ho trovata per caso da un grossista. Me l’aveva data da provare e ho scoperto questo allungatore di suono che non finisce mai finché dura la pila. E poi ne ho un’altra a cui tengo molto, una Les Paul del ’58 o del ’59, che adesso si sta rifacendo il look da un appassionato liutaio. È la chitarra più famosa del mondo, ce l’hanno tutti. Ma hanno quelle nuove, non come questa che vale dai 100mila ai 300 mila euro.

Cosa deve avere una chitarra per essere insostituibile?
Deve trasmettere qualcosa. Non ci devi andare a letto, ma deve seguirti e tu devi seguire lei.

Sei mai stato costretto a suonarne qualcuna che non apprezzavi per questioni di sponsor?
È successo a Sanremo l’anno scorso quando sono stato ospite dei Coma_Cose. Mi hanno dato quella doppio manico che era sempre stonata. L’ho dovuta accordare poco prima di salire sul palco perché in due minuti perdeva l’accordatura. In quel caso, poi, la Sony mi ha trattato male. Leva questo, leva quello, allora alla fine venivo gratis. E ci sarei anche andato lo stesso, perché i Coma_Cose sono dei bravi ragazzi.

Con i Coma_Cose a Sanremo 2021. Foto: Jacopo Raule/Daniele Venturelli/Getty Images

Un assolo che avresti voluto aver inventato tu?
Uno qualsiasi fra quelli di Jimi Hendrix.

E fra i tuoi, quale ami di più?
Sono affezionato a quello di Nel ghetto. L’ho fatto una volta sola ed è venuto così. La tecnica è bella, va però usata con parsimonia.

Sanremo quest’anno l’hai seguito?
Tutto e forse l’ho trovato un po’ meglio degli altri. Però i pezzi sono tutti uguali. Gianni Morandi si è svegliato grazie a Jovanotti. A quel punto, una volta sul podio, avrei fatto vincere lui. Il brano di Elisa era un po’ freddino, anche se lei è bravissima. Mahmood e Blanco non male, il pezzo era difficile. Solo che non si capisce mai se sono vittorie vere o presunte. Anche perché non mettono le cifre dei voti, così si sarebbe vista la differenza. Ma ormai dovrebbero chiamarlo “il festival della canzone e del look”. Anche quest’anno mi avevano chiamato per fare l’ospite il venerdì, ma non sono potuto andare.

Con chi ti saresti dovuto esibire?
Con Achille Lauro. Me l’ha presentato il produttore in un ristorante. Io non lo conoscevo e, a parte salutarci, non ci avevo più pensato. Poi mi hanno chiamato per essere suo ospite, solo che mi dovevo operare e quindi è andata buca. Non mi sembra di aver perso niente, la canzone Domenica era bruttina, così come la scena del battesimo.

Sei credente?
Sono ateo e apolitico, non mi impressiona la scena del battesimo in sé, soltanto non mi sembrava niente di rilevante. In generale non riesco a entrare in questa musica che fanno biascicando le parole. Ma avranno ragione loro visto che vendono i dischi… anzi, visto che hanno follower. Perché non vendono più un cazzo con la musica.

Il tuo brano Musica e parole, cantato nel 2008 da Loredana Bertè, fu squalificato. Era già uscito vent’anni prima con il titolo Ultimo segreto da Ornella Ventura…
E chi se lo ricordava? A mia difesa posso dire che quando Loredana mi ha chiamato, in un albergo megagalattico di Milano, e mi ha detto: «Devo andare a Sanremo, posso usare un tuo pezzo?», io le avevo portato due brani nuovi. Ma lei ha tirato fuori una cassettina con su scritto: “Testo da rifare”. Era sempre una musica mia e non mi sono ricordato che fosse già uscita. Sai, una volta ci si scambiavano i pezzi così, con delle cassettine. Ma poi ho scoperto che non avrebbero potuto squalificarci. Il regolamento di allora diceva che dopo un tot di ore dalla prova generale la regola dell’inedito era annullata.

Prima hai detto che il computer ha ucciso la musica. E i talent?
Ti racconto un aneddoto. Dopo la vittoria di Dennis Fantina a Saranno Famosi nel 2001 (il primo nome di Amici di Maria De Filippi, ndr) mi chiamano per il suo disco e suono sul pezzo Io credo in te. Non andò molto bene. Qualche tempo dopo sono in giro per Milano e sento che qualcuno suona il clacson per salutarmi. Mi giro e dentro all’auto vedo Dennis. Che ci fai qui, gli chiedo. E lui: «Consegno il cibo a domicilio». Mi sembra che renda l’idea su cosa penso dei talent.

Se avessi vent’anni oggi, credi che riusciresti comunque a raggiungere grandi risultati?
Sicuramente avrei avuto lo stesso percorso, però magari riuscendo a fare di meno. Certo è che oggi non potrei incontrare un Battisti o un Battiato. Ma sono sicuro che mi sarei comunque divertito.

La tua filosofia è sempre quella di non pensare mai al passato?
Del passato me ne frega fino a un certo punto.

E avresti mai pensato di arrivare a 80 anni?
A 50 anni mi dicevo che dopo i 70 è tutto regalato. Ora mi dico che dopo i 100 è tutto regalato. Io sono molto attaccato alla vita, la amo profondamente. Voglio ancora divertirmi. Se fai un lavoro che non ti piace è dura andare avanti, basta andare alle Poste per verificarlo.

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