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Alan Sorrenti, «la mia rivoluzione umana»

L'idea che esista un'altra realtà e il buddismo che lo ha aiutato a confrontarsi con gli altri, la voglia di farsi ascoltare dai più giovani, il primo album dopo 19 anni, l'autobiografia: Alan Sorrenti si racconta

Foto: Starfooker

Si starebbe ore ad ascoltare Alan Sorrenti. Perché ha vissuto una cosa come milleduecento vite. La cadenza lievemente napoletana, l’aplomb che non ha mai perso e un disco, Oltre la zona sicura, prodotto da Ceri e uscito nel 2022. Un bel ritorno per il creatore di Figli delle stelle, un artista che guarda sempre avanti, senza smettere di interrogarsi sul presente e il passato.

A un certo punto, poco prima di iniziare la chiacchierata, se ne esce con una frase che dà il via a tutto: «Spesso, nella mia vita, mi ritrovo a capire perché ho fatto una cosa quarant’anni dopo».

Tipo?
Dopo Angeli di strada e La strada brucia sono andato da Los Angeles in Islanda perché ci eravamo giocati tutti i soldi del budget. Proprio in Angeli di strada e La strada brucia rinnego quasi tutto quello che ho fatto prima. Lì mi sono tolto lo sfizio di fare una ballad rock con la Los Angeles Philharmonic Orchestra. Be’, qualche giorno fa mi sono trovato a capire perché l’ho fatto. Non solo per lavorare con la Los Angeles Philharmonic Orchestra e con tutti i componenti dei Toto. Era un addio a Los Angeles. Si era esaurito quel periodo lì. 

Il nuovo album è Oltre la zona sicura. Perché hai fatto passare 19 anni dall’ultimo?
Ognuno ha una sua visione del tempo. A volte va veloce, a volte lento, a volte non passa mai. In questo caso, nel 2003 è nato mio figlio e ho deciso di dedicarmi a lui, un atto di altruismo naturale, un passo verso l’illuminazione.

Illuminazione?
Mi sono sempre concentrato su di me e l’ho fatto in questa occasione, non avendo curato il primogenito come volevo.

Solo per questo motivo?
Poi c’è il fatto che Paradiso Beach andò molto bene nei club e mi ritrovai catapultato nelle discoteche. Per un po’ sono rimasto in quel circuito e ho molto viaggiato, il mio nutrimento necessario, quasi irrazionale. Non parlo di viaggi organizzati: ho scoperto l’Oriente, i Caraibi, sono tornato in Africa e poi in America. È viaggiando che finiscono i soldi.

Torniamo al presente…
Prima del Covid sentivo l’esigenza, con determinazione buddista, di parlare ai giovani. Quando ho preso la decisione, ho fatto i provini a Napoli e trovato chi potesse dare i suoni giusti ai pezzi. Dovevano avere un vestito che piacesse alle nuove generazioni. E ringrazio il produttore Ceri che si è associato a questa ricerca. Quattro anni prima mi aveva chiesto l’autorizzazione a fare una cover di Figli delle stelle con Tatum Rush che a me non piaceva nemmeno.

Ah no?
E gliel’ho pure detto (ride). Ma si è creato un legame e strada facendo ci siamo accorti che ci piaceva lavorare insieme. Due generazioni distanti da circa 40 anni si sono unite nella musica. Il titolo Oltre la zona sicura significa proprio lasciare la comfort zone per addentrarsi in nuovo territorio. Porto il passato nel futuro.

In Oltre la zona sicura canti “muoviti ombra”.
È l’entità che mi accompagna in tutti questi viaggi come nel video di Giovani per sempre. È l’altro te che ti segue ovunque a cui sto cercando di dare un’identità più precisa. E ti anticipo una cosa: sto scrivendo un libro.

Che libro sarà?
Sulla trasformazione di un uomo, attraverso tutte le mie fasi. L’ho fatto perché ho avuto il timore che qualcun altro lo facesse per me.

Nel 1988 hai abbracciato il buddismo della Soka Gakkai. Qual è stato il fattore scatenante e come è cambiata la vita?
È stato il mio produttore Corrado Bacchelli, con cui ho fatto tutto, dal prog fino a Figli delle stelle, che mi ha avvicinato al buddismo a Los Angeles. Mi disse che come artista c’ero, ma dovevo aggiustarmi umanamente. Avevo lo strumento per questa trasformazione, secondo il buddismo di Nichiren Daishonin: se non trasformiamo noi stessi, non possiamo trasformare quel che si trova fuori da noi. Dobbiamo cambiare, ma rivolti agli altri, al bene. Ma in quel momento non ero pronto.

Motivo?
Da adolescente non ero come gli altri. Non inseguivo la ragazzina, non mi importava niente, capitava, ma non mi interessava. Quando scrivevo Aria, guardavo di fronte il cortile, dove c’era un altro stabile, non c’era panorama, era tutto nella mia mente. Ero attratto dal cosmo, nella mia testa vedevo l’universo, vedevo altro, per quello ho fatto musica: ero convinto non potesse essere tutto qui. E il mio viaggio si è espresso attraverso la voce e la musica. Dopo Angeli di strada ho rifiutato ciò che ero prima e avevo la presunzione che il pubblico mi seguisse qualsiasi cosa facessi. Non era così e ne ho pagato le conseguenze.

Ed è arrivato il buddismo.
Il vuoto portava all’inaridimento, mi chiedevo dove stessi andando, dove fosse la mia fede e così ho abbracciato il buddismo. È stata una svolta, una pratica di trasformazione interiore rivolta all’esterno. all’applicazione quotidiana della legge mistica di causa ed effetto. Dovevo confrontarmi con gli altri  e, piano piano, compiere la mia rivoluzione umana. Ad aprile del 2019 sono andato in Giappone dove ho avuto conferma che sono un bodhisattva della Terra e che questa è la mia strada e sì, devo continuare. È stato forte. Ed era alla vigilia del nuovo album di inediti, un altro inizio per me.

Nel 1988 hai partecipato a Sanremo con Come per miracolo.
Ecco, quando parlavamo di karma… Sono arrivato ultimo… più chiaro di così… dovevo iniziare la mia rivoluzione umana: non è stata una cosa piacevole, ma una molla per cambiare le cose.

Non sei più tornato al festival.
Ogni tanto ci provo, inutile nasconderlo. Ci sono momenti in cui ti inserisci nel flusso giusto, altri no. Sanremo succederà quando succederà.

E come vedi i grandi cantanti che duettano con le nuove leve?
Dopo questa fase dell’album può succedere… sarebbe divertente relazionarsi, collaborare unire le proprie energie a un’energia giovane. In realtà è già successo, ma non ne posso parlare. Diciamo solo che sono io che do un contributo a lui, ma non posso dire di più per vari motivi.

Tra i giovani, con chi vorresti fare qualcosa?
Frah Quintale, per il timbro, non necessariamente con la musica. Nei treni la notte è molto bella e ricorda la mia Vorrei incontrarti. Sarebbe divertente fare qualcosa insieme, in futuro. Vediamo… ora voglio andare avanti io.

C’è anche in ballo un tour. Come sarà?
Il mood sarà funky e in questo flusso ci saranno momenti di pausa con qualche passo indietro nel passato. Vorrei inserire Angeli di strada e canzoni napoletane come Dicitencello vuje.

Ecco, il tuo rapporto con Napoli?
Da giovane mi sentivo straniero, mia mamma era gallese, lavorava alla Nato, io andavo nel Regno Unito e mi nutrivo di rock. Quando tornavo portavo quella musica a Napoli, la trasformavo secondo la mia sensibilità. Il mio modo di modellare la voce prende forma dall’interazione tra italiano, napoletano e inglese. Il rapporto con Napoli, era difficile, stavo al Vomero, c’erano contrasti che mi facevano fuggire… Ora dico grazie a Napoli che mi ha dato qualcosa in più, perché la lingua napoletana, la cadenza, è molto americana. Pino Daniele insegna.

Hai detto che Pino ha espresso più degli altri l’anima napoletana. Tu dove ti inserisci?
Sono un outsider. In Dicitendello vuje ho captato un’anima ribelle e psichedelica. Pino era più soul, io lo sono diventato con Sienteme, ma già subivo l’influenza americana. Lui era della Sanità, io del Vomero, c’è una sofisticazione diversa.

L’ultima volta che sei stato a Napoli, oltre che per il disco?
Per un documentario su Luciano Cilio, chitarrista superbo che si è tolto la vita. Vedeva in me un’ancora di salvezza e mi sembrava giusto partecipare: con Aria incominciò a essere attratto da quello che scrivevo e per come cantavo. Mi sono sentito in dover di parlare di lui e rendergli onore. Glielo dovevo perché eravamo giovani, proiettati verso il futuro, era un genio e non è mai riuscito a inserirsi… Veniva da me perché ero l’unico che sentiva vicino.

Tra le tue canzoni, quella che ti ha dato più soddisfazioni?
Figli delle stelle è andata oltre la canzone stessa, è uno stile di vita. Un pezzo cult, vicino alle nuove generazioni.

Hai vinto il Festivalbar con Tu sei l’unica donna per me. Ricordi?
Il Festivalbar l’ho vissuto da superstar, pretesi di entrare con la Rolls-Royce all’Arena di Verona. E di cantare il pezzo metà in italiano e metà in inglese.

Nel 1980 hai anche partecipato all’Eurovision con Non so che darei
A Rotterdam fu strano, non venivo da Sanremo: rifiutai di partecipare al festival con quel pezzo. All’Eurovision ero più che mai straniero: rappresentavo l’Italia, ma venivo da L.A. Non sentivo di rappresentare la mia nazione.

Oggi come ti vedi?
Ma allora non ti vuoi proprio sforzare, dopo tutto quello che ti ho detto? (Ride) Sono una persona vera che sta facendo la sua rivoluzione umana.

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