Ai Patagarri sono bastate due parole per scrollarsi di dosso l’etichetta di ex concorrenti di X Factor: “Free Palestine” | Rolling Stone Italia
L’ultima ruota del caravan

Ai Patagarri sono bastate due parole per scrollarsi di dosso l’etichetta di ex concorrenti di X Factor: “Free Palestine”

Domani pubblicheranno l’album d’esordio. Ne abbiamo approfittato per chiedere come hanno vissuto il Primo maggio, le polemiche, la mancanza di solidarietà. «Com’è che nessun altro ha lanciato messaggi del genere?»

Ai Patagarri sono bastate due parole per scrollarsi di dosso l’etichetta di ex concorrenti di X Factor: “Free Palestine”

Patagarri

Foto: Virginia Bettoja

C’è chi ci mette anni, chi una carriera intera a scrollarsi di dosso l’etichetta di ex-concorrente di X Factor. Ai Patagarri è bastato un pomeriggio di maggio, quello del Concertone in piazza San Giovanni, quando hanno cantato “Free Palestine”, “Palestina libera”, sulle note di Hava Nagila, brano scritto per celebrare la dichiarazione Balfour con cui gli inglesi si impegnavano nel far nascere lo Stato d’Israele. Da lì le polemiche della comunità ebraica di Roma che ha definito l’esibizione macabra, la solidarietà (scarsa) dei colleghi artisti e una nuova popolarità che ha cancellato dalla foto di gruppo – come nel film Ritorno al futuro – Achille Lauro e il marchio Sky per lasciare solo i sei giovani musicisti della band milanese, ora alle prese con L’ultima ruota del caravan, il nuovo album che non tradisce le aspettative, sia per quanto riguarda la musica, un festaiolo gypsy jazz, sia per i testi, politici e sociali, con ironia. 

Dal problema milanesissimo del prezzo delle case che trasforma vecchi slogan della sinistra (“E tocca lavorare tutti, lavorare tanto”) di Mutui alla gaberiana Sogni (“Chissà sei i fascisti sognano al contrario”) fino alla lotta di classe a quattro ruote de Il camionista alle prese col giovane in Ferrari, il disco arriva a colmare un vuoto nella musica alternativa italiana, quello di una militanza non nostalgica (anche se è forte l’eco dei vari 99 Posse, Bandabardò e Daniele Silvestri), con una sound buono tanto per i party quanto per le manifestazioni di piazza.

I Patagarri si presentano negli uffici Warner per le canoniche interviste di promozione nella veste di collettivo, modello assemblea studentesca: rispondono tutti e sei alle domande, e tutti a nome della band, senza personalismi, anche se per i testi la prima parola va all’autore e frontman Francesco Parazzoli, voce e tromba. Hanno belle facce tra i 20 e i 30 anni, alle spalle anni di studio al Conservatorio Giuseppe Verdi e alla Civica Scuola di Jazz (“Il mio amico per avere il suono pulito si è fatto dieci anni di classica” cantano in Caravan) e ore di musica suonata in strada come buskers. La gavetta insomma l’hanno già fatta, ora gli aspetta un lungo tour estivo, e poi chissà, magari Sanremo.

L’album è stato registrato in presa diretta con la produzione di Taketo Gohara sotto un tendone da circo, alla Birreria Le Baladin a Piozzo in provincia di Cuneo. Sembra quasi una dichiarazione d’intenti, dalla strada alla strada passando per un talent show, senza snaturarsi…
L’idea del tendone è stata di Taketo. Quando ci hanno domandato con che produttore volevamo lavorare, non conoscevamo nessuno e abbiamo chiesto lo stesso di Vinicio Capossela, perché è un artista a cui ci sentiamo vicini. Taketo ha cercato un modo per preservare il nostro stile, l’approccio diretto alla musica, andando lontano da Milano, dagli studi di registrazione con orari d’ufficio, per vivere e suonare 24 ore al giorno senza interruzioni. Avere un produttore ci ha aiutato a lavorare su strutture musicali più sensate, sempre mandando una dialettica tra il nostro punto di vista e il suo.

Partivate già con un background “alto”, anni di studi al Conservatorio e alla Civica di Jazz. Come siete approdati ai Patagarri?
Vivere di jazz è molto difficile, a meno che tu non sia Paolo Fresu. In più quell’ambiente è chiuso, spesso autoreferenziale, è difficile partendo dal jazz raggiungere un grande pubblico. E spesso manca anche la volontà di sperimentare, di uscire dai canoni, si rimane attaccati alle tradizioni, senza mischiarsi con quello che succede fuori. Noi sentivamo la necessità di contaminarci, di uscire dai classicismi.

Anche il genere che suonate è in qualche modo classico: c’è la musica balcanica, lo swing, quel suono che negli anni ’90 veniva definito patchanka e che ha reso celebri Manu Chao, Les Negresses Vertes, Gogol Bordello…
C’è anche molto jazz degli anni ’20, a partire dalla formazione dei fiati. E poi c’è la bossa nova, ma anche l’elettronica o l’hip hop, nel pezzo La Scimmia.

I PATAGARRI - Caravan (Official Visual Video)

La musica balcanica e la patchanka avevano una precisa connotazione politica. E così anche voi, se non sbaglio…
Più sociale che politica. Visto il periodo storico in cui viviamo, ci sembrava stupido sprecare questa opportunità di parlare di cose importanti. In più vivere in una metropoli come Milano, dove la disparità sociale è più evidente che altrove, ci ha portato ad affrontare alcuni temi specifici.

Ma quale Milano ha nutrito la vostra sensibilità sociale e politica? Che posti frequentate?
Alcuni di noi andavano spesso al centro sociale Il Cantiere, altri al Lambretta. Abbiamo sempre vissuto, dai tempi della scuola, il collettivo e i cortei, un certo attivismo.

E poi c’è stato X Factor. Il primo pezzo del disco Il diavolo sembra quasi prendere le distanze, con ironia, da quel mondo, rivendicando la vostra indipendenza: “Il diavolo… di certo ti propone un bel contratto /non dovremo più suonare sull’asfalto / in cambio ha detto si prende tutto quanto”. È andata così?
Noi suonavamo al mercato fino all’altro ieri, quindi ci spaventava parecchio l’idea dei contratti, dell’industria musicale, perché è molto facile snaturarsi, vendere l’anima al diavolo. Cerchiamo di rimanere noi stessi, senza nasconderci.

Ormai non siete più quelli di X Factor, ma quelli del Primo Maggio. Lo avreste mai immaginato tutto questo casino?
C’è ancora gente che ci scrive da Tel Aviv che dobbiamo morire. A parte questo, ti raccontiamo come è andata. Noi suonavamo da tempo Hava Nagila, perché ci piaceva la melodia. Poi la proprietaria di un locale in cui suonavamo spesso si è lamentata, ci ha spiegato perché e siamo andati a informarci sull’origine del brano. Il fatto che nel testo ci fosse un invito a “rallegrarsi” e che fosse stato scritto per celebrare la presenza delle prime comunità ebraiche in territorio palestinese ci sembrava sbagliato: che senso aveva essere allegri oggi, senza dire nulla di quello che sta accadendo? Allora abbiamo aggiunto “Free Palestine”.

Come avete vissuto le polemiche che sono nate dalla vostra esibizione?
Non ci aspettavamo questo clamore. In più pensavamo che essendo il Primo maggio la causa venisse supportata da tanti artisti. Quel palco è da sempre un luogo da cui lanciare messaggi di questo tipo, e siamo rimasti stupiti dal fatto che non l’abbia fatto nessun altro. Forse era così anni fa, e ora questa sensibilità sta scemando.

Ci siete rimasti male del silenzio dei vostri colleghi?
Male no, sorpresi più che altro. Ognuno fa il suo. Magari non dicono nulla dal palco, ma nel privato sono super attivi.

Foto: Virginia Bettoja

Nelle canzoni spesso riaffiora il vostro passato da buskers, in Pollo parlate del chiedere soldi per strada, in Mutui delle difficoltà per tirare a campare. Ora che avete un contratto discografico, un disco e un tour, la vita è cambiata?
Non più di tanto. Qualcuno di noi continua ad andare al mercato alla mattina: se scegli i punti giusti a Milano riesci a mantenerti suonando per strada, tre ore al giorno, timbrando il cartellino sull’asfalto. Poi per prendere casa in affitto dobbiamo comunque chiedere aiuto ai genitori perché i buskers non hanno un contratto di lavoro. Ma ci fa ancora comodo per pagare l’affitto uscire di casa e suonare in giro per la città.

Willy è un pezzo divertente che racconta delpusher Willy Wonka che si occupa di una certa qualità di cioccolato, raccontato senza moralismo…
Beh, anche Willy offre un servizio alla società, e non ha l’assistenza sanitaria, come i buskers. Ci piace essere ironici, per allontanarci da una retorica troppo seriosa, molto comune quando si affrontano temi sociali.

Manuel Agnelli nella scorsa edizione di X Factor parlava spesso del ritorno dei giovani a una musica “suonata”, del ritorno delle band. È davvero così?
Sì, ha ragione. Anche se ancora non si sentono in radio ci sono. Bisogna dare loro il tempo di emergere. Anche nel rap iniziamo a suonare dal vivo, guarda Sayf.

Torniamo al disco, un album politico, o sociale, come preferite chiamarlo. Da questo punto di vista siete una rarità nel panorama discografico, ve ne siete accorti?
Dici davvero? Non c’è nessuno che fa canzoni politiche?

Ghali in qualche modo, Willie Peyote, Dargen D’Amico, Sayf, ma non un album intero… Vi fa strano essere definiti una band di sinistra?
Insomma, la sinistra italiana ci fa mettere le mani nei capelli. Se per sinistra intendi PD, allora no, non lo siamo. La nostra idea di militanza è più vicina a quella dei centri sociali.

Se vi chiamano a suonare alla Festa del Partito Democratico, la Festa dell’Unità, ci andate?
No, siamo apartitici.

E a Sanremo ci andreste?
I pezzi per Sanremo li manderemo, sempre con le nostre tematiche, coerenti al nostro essere. Vediamo se ci prendono.

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