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Afterhours vs fighetti

Manuel Agnelli e i suoi continuano “a scatarrarci su”. E in primavera esce il nuovo album che parlerà di "cose brutte", perché i dischi non si fanno per venderli, ma con la pancia

Gli Afterhours – da sinistra, Rodrigo Erasmo, Manuel Agnelli, Roberto dell'Era, Xavier Iriondo. Foto di Silvia Tofani

Gli Afterhours – da sinistra, Rodrigo Erasmo, Manuel Agnelli, Roberto dell'Era, Xavier Iriondo. Foto di Silvia Tofani

Guido nella nebbia dell’hinterland milanese, direzione Abbiategrasso, e metto su uno dei pochi dischi che la mia generazione sa a memoria, Hai Paura del Buio?. Mentre canto insieme a Manuel “Sei borghese arrenditi / gli architetti sono qua / hanno in mano la città” (in 1.9.9.6., vent’anni prima del Bosco Verticale e del mieloso storytelling del Modello Milano, la canzone iniziava con una bestemmia, nda) il navigatore mi segnala che sono arrivato: entro in un magazzino industriale e supero pomelli, maniglie, cerniere e bocchette – gli architetti sono qui! – prima di arrivare tra chitarre, pedali e amplificatori. La sala prove dove gli Afterhours stanno preparando il prossimo album – uscirà in tarda primavera – è un retro bottega rock messo in piedi dal cugino di Manuel. C’è tutto, pure l’immancabile divanone da rocker dove, oltre al cantante, stanno seduti altri tre musicisti (Rodrigo D’Erasmo, Xabier Iriondo, Roberto Dell’Era, nda) della band che si è da poco rinnovata nella formazione. Parliamo un po’ – naturalmente è Manuel a tenere banco, ma lo fa a nome del gruppo – e, ancora una volta, sui giovani d’oggi ci scatarriamo su.

Allora è qui dove siete andati a nascondervi?
Sì, non è uno studio vero e proprio, è una sala di registrazione della madonna anche se non è studiata per esserlo, ma, per culo, suona bene. Odio le sale prova, hai l’orologio in mano, entro le otto devi finire e se sfori paghi. Qui possiamo venire, prenderci una pizza, suonare a volumi allucinanti per tutta la notte. Un altro fattore positivo è che qui nessuno ti viene a trovare: non è un happening , è un disco. Questo è un collettivo di musicisti – una band, come la si intende al liceo, che va al bar insieme non lo siamo più da tempo – che si dedica a un progetto importante e impegnativo, quello degli Afterhours. Qui ci permettiamo un lusso, buttare il tempo. Metti che un assolo di chitarra non ci viene. Che facciamo? Qui ci possiamo prendere il lusso di buttarlo via e di rifarlo domani, senza preoccuparci di orari e spese.

Di cosa avete voglia e necessità di parlare nel prossimo disco? So che tu, Manuel, i testi li stai scrivendo ora…
Parleremo di quello che ci è successo negli ultimi tre anni. È un disco pieno di energia e reazione alle cose brutte, alle persone che ci sono mancate, tutte tra l’altro per lo stesso motivo. Nessuno parla di tumore nella musica oggi, c’è ancora un tabù enorme, intanto ti muoiono gli amici intorno. Siamo un Paese di scaramantici gratta-palle, anche nell’arte, ed è brutto, volgarissimo, perdere la consapevolezza del racconto della realtà. Non ci siamo messi il cilindro nero, ma allo stesso tempo se suoni in un gruppo rock come il nostro devi parlare di cose di cui gli altri non parlano. Può essere anche uno sfogo catartico. Quando abbiamo organizzato concerti e iniziative con l’Associazione Soleterre, che aiuta i bambini malati di cancro, veniva meno gente che a un nostro concerto “normale”: questa è una cosa terrificante, inaccettabile.

Noi non facciamo un disco chiedendo “cosa vorrà la gente”. Se oggi decidiamo di fare musica per vendere dei dischi, allora siamo dei coglioni.

Ne parlate come si parla di una missione.
L’ultimo compito che è rimasto ai gruppi rock oggi è quello di raccontare cose scomode, perché ormai il rock&roll rivoluzionario non lo è più da tempo. La nuova generazione di cantautori e musicisti ha perso il treno, perché è figlia di un’estetica che li ha condizionati troppo: sono carini, simpatici – per carità! – e sono pettinati meglio di noi, ma il messaggio che lanciano non ha la forza di quello della generazione degli anni ’90, che infatti ha creato una scena enorme. Eravamo imperfetti sotto molti punti di vista, però parlavamo con la pancia, con una sincerità non mediata.

Cos’è che ha sputtanato tutto?
Il fighettume! Milano prima era una bomba rivoluzionaria, non solo nell’arte, e poi è diventata sempre più attenta solo alla grafica, all’immagine, alla moda. Oggi tutti hanno una divisa, non lo trovi da nessuna parte un Edda, che è un freak, ma spacca. Hanno paura del grottesco: c’è la tendenza a fare i gruppi demenziali e ironici per autoprendersi per il culo, così poi non ti prendono per il culo dall’esterno. C’è un sacco di roba fatta bene, suonata alla grande da persone intelligenti, ma che non è emozionante. Noi non facciamo un disco chiedendo “cosa vorrà la gente”. Se oggi decidiamo di fare musica per vendere dei dischi, allora siamo dei coglioni. Potevamo farlo già anni fa e non lo abbiamo mai fatto, perché non ci interessava. Tutti che si domandano cosa vuole il pubblico, ma il pubblico non sa quello che vuole.

State anche pensando ai prossimi concerti?

Ci sarà un grande sforzo creativo per produrre il live, oggi è fondamentale più del disco. Tornare ad aggregarsi in un modo o nell’altro sarà la tendenza dei prossimi anni: come il cibo, anche la musica tornerà a essere bio, per non perdere quel contatto che solo il concerto può dare. Il disco sarà il nostro biglietto da visita per dire “facciamo questa cosa, venite a vederci”.

C’è un pubblico che vi aspetta con ansia.
Da adulti – ormai andiamo tutti tra i 40 e i 50 – gli Afterhours sono il megafono più grande che abbiamo per dire quello che vogliamo. È una fortuna, ma anche un dovere ovviamente.

Questo articolo è pubblicato su Rolling Stone di febbraio.
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